Quei momenti in cui ti rendi
conto di quanto una giornata, ogni singolo momento di essa a dire il vero,
possa somigliare a una medaglia. Quando tutto appare tranquillo, a tratti
scontato, a tratti noioso, a tratti insopportabile, a tratti… poi, ecco
arrivare la bellezza all’improvviso. Quell’altra faccia che stupisce sempre. E lascia
a bocca aperta. E coglie impreparati. E fa muovere il cuore con un ritmo più
veloce. È meraviglioso rendersi conto di non essere insensibili, al punto tale
da non percepire il cambiamento. È stupendo sentire crescere dentro un sincero
senso di ringraziamento. Per esserci. Per osservare, anche se in un aspetto
mutato, quello che altri hanno creato e custodito tempi addietro. Lo stupore che riempie gli occhi, dietro al
luccichio di lacrime di pura emozione. Gocce salate che non scendono ad
accarezzare le guance, ferme, in bilico sull’orlo delle ciglia. È così che amo
vivere il tempo. Con fotografie scattate con il semplice sbattere delle
palpebre. Con pagine di diario scritte, sopra ai fogli di carta dell’anima. Quelli
che alle volte si stropicciano un po’, per ciò che non va. Ma che sanno tornare
lisci e accoglienti, ogni volta che c’è da rendere indelebile un attimo di pura
felicità. Quella che arriva con le cose semplici è sempre la migliore ed è l’unica
in grado di rendere di nuovo splendente anche il secondo più nero; l’unica per
cui valga la pena correre fino a perdere il fiato; fare le capriole; buttarsi a
capofitto nelle cose; nelle esperienze e nelle situazioni. Quella che, per
davvero, esiste… se solo si ha la volontà di non smettere mai di sentirla. Insieme
alla voglia di andare sempre avanti, insieme a pensieri assurdi, irrazionali e
stupendi allo stesso tempo. Insieme a ragionamenti più o meno sensati, durante
un tragitto fatto di passi più o meno incerti. Giocare a nascondino con la vita
in ogni singolo secondo. Perché è proprio quando meno te lo aspetti che riesci
a fare tana a qualcosa di straordinario. Oggi è andata più o meno così. Dopo una
lunga serie di secondi tutti uguali, all’improvviso mi sono ritrovata altrove. In
un luogo sentito nominare tantissime volte, ma mai visto prima. Insieme al
ricordo di chi non c’è più e che non ho potuto conoscere di persona. Insieme a
un pizzico di amarezza, ma anche alla giusta dose di spensieratezza. Con le
lancette dell’orologio per nulla a favore, ma del tutto ignorate. Con il sole
prossimo a dare la buona notte e con la fretta di dover rincasare; anche quella un urlo
in mezzo ai pensieri da non ascoltare. Ero lì. In quel luogo in cui spero di
tornare. E tornare. E tornare. E tornare. Alla prossima, allora.
domenica 26 luglio 2015
domenica 19 luglio 2015
Questioni di... destino!
C'è ancora qualcosa in valigia. Sono rimasti i jeans dentro. Un paio di scarpe chiuso in una busta,
tre t-shirt nuove e mai indossate e il libro che ha saputo tenermi compagnia
per quelle poche sere che sono rimasta ‘lontana da casa’. Non ricordo chi l’ha
detto, ma è vero che ovunque ci sia un libro non ci si sente mai soli. Non che
la solitudine sia stata un problema da dover affrontare. Inaspettatamente le
giornate sono state talmente piene, da lasciarmi a stento il tempo di tuffarmi
tra le righe di qualche pagina. Su un totale di duecentosessantadue, trovo il
segnalibro fermo tra la centocinquantesiama e la centocinquantunesima. Con le
quattro frecce, come fosse una macchina indecisa a un bivio.
Avrei preferito non dimenticarmi di quella
lettura in corso. Almeno per una volta, avrei voluto ricordare di dover finire
quanto cominciato e non lasciare spazio a qualcosa di nuovo.
Invece un altro libro è già aperto sopra
il comodino (insieme ad altri, diciamo la verità!) e per quello in valigia…
nessun progresso apprezzabile.
C’è di buono che ha ancora il sapore di
quella piccola, speciale, vacanza-corso.
Mi riporta in quella stanza d’albergo,
grandissima per una sola persona. Sopra quel letto che, sin dal primo momento,
anche se a vederlo sembra comodissimo, mi ha fatto temere di non riuscire a
chiudere occhio la notte. Perché sono un’abitudinaria; purtroppo. E se c’è una
cosa che mal sopporto è dormire in un letto che non sia il mio. Fortuna che la
stanchezza della sera e proprio le buone pagine di quel libro hanno saputo dare
una mano in tal senso.
Adesso avrei il tempo per mettermi a
leggere e per smaltire un po’ di quell’arretrato dimenticato. I miei occhi,
però, continuano a fissare quel bivio di carta e, nell’indecisione tra appiccicarmi
con lo sguardo sulle prime parole della centocinquantesima pagina o lasciare perdere,
mi ritrovo a giocherellare con il segnalibro.
Buffo. Per quanto ami un accessorio del
genere, mai una volta che ne ritrovi uno classico tra le pagine. Spesso mi
capita di strappare pezzi di carta dall’agenda che tengo sempre a portata di
mano sul comodino. Se il libro non è di dimensioni troppo importanti, mi limito
a usare i ‘risvolti’ della copertina. Non di rado, poi, accade di rendere utili allo scopo le comuni ‘fascette’ che comunicano di avere stretto tra le mani
chissà quale bestseller del momento.
In quella camera d’albergo, lontana da
tutte le mie abitudini di lettrice confusionaria, non avendo nulla di familiare
a disposizione e tenendo proprio per ultima l’ipotesi di dover sottrarre dal
bagno uno strappo di carta igienica (davvero poco elegante come segnalibro, ma…
a mali estremi… fosse servito, non avrei esitato)… dopo un rapido sguardo in
giro per la stanza, mi sono ricordata dei post-it lasciati a disposizione
accanto al telecomando della televisione che, dopo un rapidissimo zapping, ho
consapevolmente ignorato.
Ricordo di essermi ripromessa di
sostituirlo con qualcosa di più consono allo scopo, una volta a casa. Promesse
da marinaio.
Torno a pensare a quei sette giorni.
Solo un mese fa non avrei immaginato di
ritrovarmi da sola in una stanza d’albergo per via di un corso da seguire. Ho
rimandato talmente tanto (per motivi più o meno ovvi e più o meno accettabili,
come ragioni plausibili per rinviare) che alla fine ero seriamente convinta,
come lo erano in molti altri a dire il vero, che sarebbe rimasta una di quelle
classiche cose per cui un giorno avrei detto: “C’ho pensato su tante volte, ma
poi…”. Forse è stata la stanchezza per i troppi ‘rinvii’ che popolano le mie
giornate a darmi la spinta giusta per partire. E se anche dovesse venirne fuori
niente, pazienza. Mi sono divertita.
Divertente è anche il fatto che quel
post-it mi riporti a un ricordo in particolare.
Il tempo di un viaggio in ascensore, dal
terzo piano alla reception. Il tempo sufficiente per un sorriso.
Sono in ritardo per la cena. Tra allievi e
docenti del corso abbiamo deciso di uscire insieme e, sicuro, sono già tutti
fuori che mi stanno aspettando. Ho avuto un problemino con il cellulare, una
mail da inviare e che non ne vuole sapere di ‘partire’. Evito di incontrarmi
nello specchio perché i miei capelli sono un disastro, ma non c’è tempo per
fare niente. Come se non bastasse, anche l’ascensore sembra non voler essere
dalla mia parte. Non se ne parla di fare le scale a piedi, non posso farcela.
Ma… com’è che entrambi sono fermi all’ottavo piano? Mi obbligo ad aspettare lì
un minuto e non di più. Per mia fortuna, ripartono.
Quando quello di sinistra si ferma al mio
piano, all’apertura meccanica della porta vengo accolta dal sorriso di un babbo
con la sua bimba. Un ‘buonasera’ è d’obbligo, prima di piombare di nuovo nel silenzio.
Sarei proprio curiosa di sapere come è andata la loro giornata a Mirabilandia e quante volte, poi, hanno
deciso di affrontare le montagne russe, ma non lo chiedo. Sarebbe come
ammettere che a colazione, mentre faticavo a sorseggiare un caffè all’americana
per la pura smania di provare, mi sono lasciata coinvolgere dalle chiacchiere
sui loro piani per la giornata. So già che andranno al parco giochi anche
l’indomani.
Passiamo il secondo piano. Il primo.
Finalmente siamo a terra. Le porte si aprono… “Urrà!!!”.
No! Non è il mio ‘urrà’ quello che riempie
la grande hall.
“Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!”.
Il volto della bimba è arricciato di
disapprovazione, mentre non può fare altro che rimanere a guardare la madre e
il fratello, di poco più grande, che festeggiano.
La signora mi regala un grande sorriso:
“E’ stata lei a farci vincere la scommessa. Ha chiamato l’ascensore e ci ha
permesso di arrivare per primi giù”. In effetti, appena salita dal mio piano mi
sono chiesta dove fossero finiti mamma e bambino, ma non avrei potuto
immaginare che stessero giocando; che ci fosse una scommessa in ballo.
Mi congedo con un pollice all’insù agli
esultanti (in risposta al loro) e
limitandomi a sussurrare un ‘mi dispiace’ alla piccolina che, per davvero,
sembra esserci rimasta male. Spero almeno che la posta in gioco non sia stata
troppo alta. Poi…
Sembrava di essere in un film.
In un film preciso, intendo, non tanto per
dire.
Serendipity. Nel momento in cui lei chiede a lui di
affidare il loro destino a due ascensori di un albergo della via. Se sceglieranno
lo stesso piano, allora vorrà dire che è destino per loro di dover stare
insieme. Altrimenti…
Una scena che, lo devo ammettere, odio con
tutta me stessa. Per quanto conosca pressoché a memoria il film. Non affiderei
mai una cosa del genere al caso. Non a un numero, non a una moneta lanciata in
aria, non a una carta. A niente di tutto questo. Immaginate come ci si possa
sentire quando, impotenti davanti al televisore, si è consapevoli del fatto che
– in effetti – sia lui che lei hanno scelto lo stesso piano, ma… per la stessa
ragione per cui io ho interferito nella sfida di quella famiglia, anche in Serendipity
ce se ne mettono di mezzo a sufficienza perché… altrimenti non ci sarebbe stato
il film!
Comincio a pensare di avere qualche cosa
che non va quando, subito dopo aver allontanato dai pensieri questa prima
associazione realtà-film, ecco arrivare la seconda. Meg Ryan… C’è posta per te. Un film che…
Adoro! In una delle sue tante chat con NY152,
Commessa scrive: ‘molte delle cose
che vedo mi ricordano qualcosa che ho letto in un libro… ma non dovrebbe essere
il contrario?’.
Appena uscita da quell’ascensore, mi sono
ritrovata a farmi la stessa domanda. Sostituendo un film a un libro. Non
dovrebbe essere il contrario?
Chissà…
In tutto questo marasma di parole e di ricordi,
solo ora mi accorgo di non aver menzionato il titolo del libro che, grazie a un
post-it tra le pagine, mi ha riportato a un piccolo istante di giorni fa…
È… Dimmi che credi al destino di Luca Bianchini (Mondadori, Maggio 2015). Dopo
aver riassaporato le sensazioni di un momento, ho ripreso la lettura… sono a una cinquantina di pagine dalla fine. Mi riservo di parlarne più avanti. Ma… buffo che il
titolo, che me lo ha fatto scegliere, sembri smentirmi su quanto appena
affermato riguardo a Serendipity…
pare che credere nel destino sia fondamentale, per continuare a conservare una
certa fiducia nelle giornate future e nella vita in generale. E pare proprio
che non si possa negare che… ci sono cose che è destino che accano e cose che,
invece, no. Quella sera, mentre ero già snervata per il fatto di essere in
ritardo per la cena, era destino che un piccolo momento in ascensore irrompesse
in quel mio attimo di solitudine, per regalarmi un sorriso. A ognuno il suo.
Alla prossima!
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