“Alle volte la vita sbaglia i momenti”. L’ho letto stamattina in un
libro e da allora non faccio che pensarci. Un pensiero altrettanto frequente è
un pensiero anche bizzarro; in realtà. Non lo so perché, ma la mia mente continua
a produrlo da giorni e lo produce in inglese. Spessissimo me lo ritrovo in
mezzo al solito caos che ho in testa, che riecheggia come sotto l’effetto di un
loop infinito:
...I’m not a robot!
C’ho messo tantissimo per capirlo ed è curioso ritrovarcisi ad avere a
che fare proprio adesso che, forse per la prima volta nella mia vita, ho agito
come se per davvero fossi una macchina; come se del mondo fuori non mi
importasse abbastanza da cercare di capire e comportarmi di conseguenza.
Forse il mio atteggiamento è il prodotto di questioni masticate a
lungo e comunque mal digerite, anche se è una magra consolazione. Forse questa vuole
essere una resa dei conti caotica, in cui il misero premio di consolazione e
accorgersi di avere tradito un po’ me stessa (quella me stessa che sa non tirarsi indietro, anche se c'è da correre il rischio di farsi male); con la speranza di riuscire ad
aggiustare il tiro perché non è ancora tardi. Forse, sono fasulli sia l’uno che l’altro
pensiero e la mia pazzia personale è più vicina al limite di quanto a me
piaccia credere. Potrebbe essere…
Il punto è questo: l’incapacità di credere. L’incapacità di credere
alle persone, che è il blocco peggiore che si possa avere. Con chiunque io mi ritrovi ad avere a che fare, mi accorgo di cercare - prima di ogni altra cosa - segnali possibili di in che modo questo qualcuno vorrà provare a fregarmi.
Una persona entra nella tua vita all’improvviso, lo fa con tutta la
gentilezza possibile e tu, per tutta
risposta, le chiudi la porta in faccia senza avere una vera ragione. Vorrei potermi
dire soddisfatta del fatto di aver colpito per prima, almeno per una volta. Ma
la verità è che – invece – continuo a pensare di aver giocato troppo d’anticipo.
Perché l’ho fatto? Per paura.
Nulla paralizza di più un cuore, seppur desideroso di nuove emozioni,
che la paura di soffrire di nuovo.
Non ho mai nascosto le mie ferite. Non per la vanità del sentirsi una
sopravvissuta a certe cose. Non ho mai nascosto le mie ferite perché sono
alcuni degli ingredienti che appartengono alla complicata ricetta di me. Io
sono il risultato di momenti felici, di momenti indimenticabili, di passi fatti
in equilibrio precario su un filo, di cadute inaspettate e di ferite. Da oggi
mi sento di aggiungere a questo particolare miscuglio anche un pizzico di
occasioni mancate. Un ingrediente che scopro di volere ancora meno del dolore, perché…
mentre con il dolore sono riuscita a scendere in qualche modo a patti e in
tutti i casi (posso dirlo con certezza) è stato in grado di portarmi a qualcosa
di buono, un'occasione mancata è la fotografia istantanea di una strada da percorrere, che
però non sentirà mai il tocco dei miei piedi.
Cosa si fa quando ci si ritrova ad avere a che fare con un'occasione mancata?
...Si prova ad
aggiustare il tiro.
Divertendomi a tempo perso con arco e frecce, posso assicurare che ce
ne sono di belle da fare per riuscire a raggiungere il giallo. E, se anche il
risultato non è mai garanzia, è certo che abbandonare non è la soluzione. Così,
ho provato a immaginarmi come in una delle sedute di allenamento. Ho preso un
respiro, ho allontanato i pensieri negativi, ho cercato di focalizzare quello
che avrei voluto ottenere e ho scagliato la mia freccia.
Quando si ferisce qualcuno senza che ce ne abbia dato reale motivo, l’unica
cosa possibile da fare – perché un tiro fatto male possa sperare di aggiustarsi
– è chiedere scusa.
In un groviglio di parole che non mi è stato possibile dire di
persona, ho cercato di spiegare le mie ragioni. Niente da fare.
Così, ora mi ritrovo a dover gestire anche un altro pensiero. Che forse
ho agito male, vero. Ma che le cose si sarebbero potute aggiustare con la
massima tranquillità, se solo anche dall’altra parte ci fosse stata l’esigenza
di aggiustare il tiro allo stesso modo.
Una cosa che di me non è mai cambiata è
proprio questa. L’esigenza di un’emozione che può essere tanto veloce quanto
una stella cadente, ma che - necessariamente - deve essere vera.
È stata un’emozione a spaventarmi. Qualcosa che, al di là di ogni mio
calcolo, è riuscito a fare un passo in più rispetto alla convinzione che avrei
potuto fare tranquillamente a meno di certe cose e il pensiero che avrei preferito
non immischiarmi più in faccende umane del genere.
Mi sono ritrovata seduta su una panchina, a parlare più di niente che
di qualcosa, a cercare di raccontarmi per quel poco che sono e a sorridere
felice; dentro una serata d’estate decisamente inaspettata.
In quel momento ho saputo riconoscere un attimo speciale. Un
piccolissimo frammento della normalità che vado cercando, da cui però – subito dopo
– ho sentito l’esigenza di difendermi. Di scappare.
Forse ho sbagliato. O, forse, no. Cerco di mettermi nei panni di quest’altra
persona e, nel limite di quel poco che ho potuto conoscere, cerco di capire se
per caso non abbia esagerato con le parole nei confronti di qualcuno che,
magari, era spaventato quanto me. Non saprei. Continuo a provare a mettermi nei
panni di quest’altra persona e mi domando perché, semmai, possa essere bastato
così poco per lasciar perdere. Provo a mettermi nei panni di quest’altra
persona e penso che non sia possibile non accorgersi di come
ho provato a sistemare le cose. Torno a mettermi nei miei panni e sento di nuovo
quel pensiero in inglese: I’m not a robot! Il che significa
che, forse, è proprio perché non sono una macchina che ho agito in questo modo.
Perché le macchine non temono di farsi male. Perché le macchine, in nessun modo, provano a farsi capire pure
sbagliando. Perché le macchine non hanno cuore. Torno a mettermi nei miei panni e ritrovo quel bisogno di essere protetta, anche se farlo potrebbe significare avere a che fare con un mucchio di spine. Torno a mettermi nei miei panni e ritrovo il desiderio di incontrare qualcuno che, in un mondo pieno di apparenze e di finta perfezione, in un mondo dove sembra sia la regola non lasciarsi coinvolgere dalle cose, sia imperfetto quanto me, magari abbia un lato oscuro difficile quanto il mio, sia il risultato di un miscuglio di ingredienti assurdi da mettere tutti insieme e sappia difendersi chiudendo le porte al mondo, se quel mondo non lo fa sentire al sicuro quanto vorrebbe. Sono porte che si chiudono anche per misurare il coraggio di chi viene a bussare, per vedere quanto sarà in grado di insistere ed aspettare. E si chiudono sempre e solo se c'è stato un pizzico di felicità alla base. Perché solo ciò che è in grado di regalare un'emozione è in grado di far nascere la paura di doverne fare a meno.
Ho provato a trasformare uno zero in un dieci. Ho provato ad
aggiustare il tiro…