Alle volte capita di imbattersi in un bando di concorso e... di voler partecipare. Non sempre si ottengono risultati (e successive, conseguenti... piccole, grandi soddisfazioni), ma... poco importa! :-D E' bello sentire di volersi mettere alla prova ed è speciale il momento in cui si è arrivati all'ultimo punto e si è pronti per rileggere quanto scritto. Quest'anno... spero di riuscire a partecipare di nuovo.
Il Concorso è indetto dal Caffè Letterario Moak e ha come particolarità quella di richiedere l'invio di testi che abbiano come tema: il caffè!
Ci piace, ci piace, ci piace!!! E' una sfida a cui mi preparo di nuovo con emozione (e caos di pensieri e parole).
Perciò... pure in attesa di finire l'ormai interminabile (prima o poi mi impegno, promesso!) racconto a puntate... lascio lo spazio di questo nuovo Post al racconto con cui ho partecipato al concorso lo scorso anno... non l'ho ancora riletto, ma... spero di trovarlo ancora nelle mie corde! E... spero che piaccia anche a voi, ovvio!!! Un abbraccio, a presto!
Saluti
«Ok. È il giorno giusto.
Stamattina mi faccio coraggio e glielo dico».
Sto di nuovo parlando da solo,
anche se cerco di non farci caso. Non è normale. Non è un buon segno. Ultimamente
è qualcosa che mi capita di fare spesso, ma non riesco proprio a farci niente.
L’amore rincoglionisce. Gli amici
mi avevano avvisato e io non c’ho voluto credere.
Ventinove anni e nessuna
esperienza seria con il cuore. Quando ho sentito la freccia di Cupido
trafiggermi in pieno petto, non solo ho stentato a credere che potesse essermi
capitato, ma ne sono stato contento.
I primi giorni di innamoramento
sono stati meravigliosi. Con i piedi non toccavo mai terra e la testa era
costantemente altrove. Per usare un luogo comune, direi che ero tra le nuvole.
Anche se credo che essere innamorati sia ancora più bello che starsene avvolti
da una coltre bianca che, anche se morbida, deve essere fredda e umidiccia.
Pure la questione delle farfalle nello stomaco… che vuol dire, sentire le
farfalle nello stomaco? Vorrei conoscerlo l’individuo in grado di testimoniare
di aver effettivamente provato la sensazione di un gruppo di esserini
svolazzanti nello stomaco. Io, le uniche farfalle che mi sono ritrovato ad
avere dentro sono quelle che la mamma mi prepara per cena ogni mercoledì sera,
abbondantemente coperte di sugo con le salsicce e di parmigiano grattugiato. È
il mio piatto preferito, quello che da bambino mi faceva spalancare la bocca
ancora prima che la forchetta carica fosse vicino.
Abbandono la tentazione di uno
sbadiglio e come ogni mattina, da non so quanto tempo, ormai, mi fisso per
qualche secondo sul calendario appeso alla parete. È maggio, ma per uno strano
scherzo meteorologico sembra di essere ancora a dicembre.
Lunedì 27 maggio. Sì, è il giorno
giusto. Oggi mi faccio coraggio e glielo dico.
Continuo a cullare il pensiero,
mentre come un razzo filo in bagno per le necessità di ogni mattina e mi sbrigo
a vestirmi per scendere in cucina per la colazione. Se non accelero il ritmo,
va a finire che arriverò in ritardo e mi toccherà beccarmi un richiamo. Non che
io abbia mai avuto problemi con la sveglia di mattina presto o con il gestire i
tempi in generale. Ma, da quando sono innamorato è tutto diverso. Ogni minuto
sembra avere infinite possibilità di sviluppo. Invece, non è altro che una
sequenza veloce di sessanta secondi; che passano più in fretta di quanto ci si
metta a contarli a mente.
Controllo di avere il cellulare
in tasca, afferro le chiavi della macchina, prendo la giacca (perché è maggio,
ma fa freddo come fosse dicembre) ed esco.
L’indicatore della benzina è
basso. Sarebbe meglio fermarsi al distributore, ma non ho il tempo nemmeno per
quello. Speriamo che la lucina rossa continui a rimanere intermittente e che la
mia vecchia Ford non decida di abbandonarmi proprio oggi.
Lunedì 27 maggio. È il giorno
giusto. Oggi mi faccio coraggio e glielo dico.
Continuo a ripetermelo come un
mantra. Anche se ho la sensazione che, più che regalarmi coraggio e spirito di
iniziativa, ogni volta che ci butto il pensiero mi sento un pizzico meno
convinto di prima.
C’è da dire che non è la prima
volta che ci provo. Era veramente dicembre quando, per la primissima volta da
che mi sono accorto di essere innamorato, ho deciso di prendere il toro per le
corna e di dichiararmi.
Ero convinto che sarei riuscito a
sfruttare l’occasione degli auguri di Natale per avvicinarmi a lei, per
guardarla in quegli occhi scuri e pieni di vitalità che mi fanno impazzire, per
sentirmi morire alla prima volta in cui l’avrei vista mordersi il labbro
inferiore, come fa sempre quando è colta alla sprovvista da qualcosa o da
qualcuno, e per invitarla ad uscire insieme un pomeriggio dei successivi; per
una passeggiata tranquilla lungo le vie illuminate a festa.
Sono rimasto convinto fino
all’ultimo giorno di lavoro, pensando che il fatto di non poterla rivedere per
due settimane mi avrebbe spronato a darmi una mossa e mi avrebbe permesso di
lasciare in un angolo quella parte di me codarda che preferirebbe morire,
piuttosto che rendersi ridicola. Ma, quando sono arrivato in azienda quella
mattina, la sua macchina non c’era. Sono entrato in fabbrica a testa bassa e
fino all’ultimo ho sperato che potesse essere arrivata insieme a qualche
collega, ma niente da fare. Quando ho oltrepassato il suo reparto per
raggiungere il mio, il vuoto del suo posto mi è sembrato enorme, paragonato
all’intera stanza. Stupido, Stefano.
Da quel giorno di dicembre sono
dovuti passare altri cinque mesi, per trovare di nuovo il coraggio di provare a
parlarle. Bugia. Mi ci sono voluti altri cinque mesi e le parole scioccanti del
mio amico Matteo: «Non vorrai mica aspettare di vederla al settimo cielo,
perché qualcun altro le ha chiesto di uscire?». Aggiungo queste parole al mio
mantra ufficiale.
Lunedì 27 maggio. È il giorno
giusto. Oggi mi faccio coraggio e glielo dico. Non voglio aspettare di vederla
al settimo cielo, perché qualcun altro le ha chiesto di uscire.
Raggiungo il parcheggio. La sua
macchina c’è. La fortuna, oggi, sembra essere un po’ più dalla mia parte.
Anche se ha cominciato a piovere,
ignoro l’ombrello appoggiato sopra il sedile del passeggero e indosso il solito
berretto con visiera. Giallo, con un inconfondibile 46 in bella vista.
«Buongiorno, Maurizio! Anche
stamattina qui, è? Ma quand’è che ti decidi a vincerlo sto milione e a lasciare
il posto a qualche giovanotto di bella presenza, in cerca di lavoro?».
Seduto all’ingresso dell’azienda
davanti il computer, Maurizio sorride divertito.
Ogni giorno è la stessa storia. È
da due anni che ci conosciamo ed è da due anni che lo sfotto per la sua mania
per i “Gratta e Vinci” e per il suo essere convinto del fatto che prima o poi
riuscirà a trovare il biglietto da un milione di Euro e a dare una svolta alla
sua vita.
«Buongiorno anche a te, Stefano!
No, dico… occhio, con lo zucchero nel caffè! Non vorrei che ti rendesse troppo
dolce e amabile. Poi… che sarebbe ‘sta storia del giovanotto di bella
presenza?!? Perché… ti sembro vecchio e brutto io? Per tua informazione, mio
caro, ho festeggiato da poco i cinquanta, ho ancora tutti i capelli in testa –
cosa che non si può dire della maggior parte dei cinquantenni in circolazione –
sono magro come un’acciuga e quando passo giù ‘l Corso con la sigaretta accesa
in bocca gli occhi delle donne fanno a gara a chi mi ha visto per primo. Te
capì?».
Maurizio accompagna quelle ultime
due parole con il tipico gesto della mano vicino all’orecchio ed io non posso
fare a meno di scoppiare a ridere. Gli passo il cartellino perché registri la
mia entrata, aspetto che mi dica se c’è qualche comunicazione per me e faccio
per allontanarmi in direzione degli spogliatoi.
Sono ad un passo dalla porta,
quando lo sento rivolgermi di nuovo la parola e chiedermi: «Ma, te invece…
com’è che sembri un fantasma con le occhiaie?».
Rispondo prima con un’alzata di
spalle, poi: «Mah! Avrò dormito male per via degli spaghetti al peperoncino di
ieri sera. Alla mamma ho detto di non esagerare con il piccante, ma quando
decide che una cosa fa bene alla salute non c’è verso di farle capire che per tutto
c’è una misura. Da quando il dottore le ha detto di sostituire il pepe con il
peperoncino, a casa servirebbe di installare un idrante dei pompieri».
Faccio per muovermi, nel
tentativo di sparire dentro agli spogliatoi, ma la voce di Maurizio mi blocca
ancora: «Sarà. A me sembri più uno che sta patendo le pene dell’inferno per
amore, altro che peperoncino!».
Ecco. Un’altra cosa su cui gli
amici mi avevano messo in guardia, era di stare attenti a non far capire a
chiunque di essere innamorato e di evitare ad ogni costo di diventare l’oggetto
di scherzi e di prese in giro. Ma, Maurizio è una volpe per certe cose. Mi ha
sgamato al secondo giorno. Beccato a guardarla mentre faceva colazione insieme
alle altre, come fossi stato un ragazzino delle medie alle prime armi. Non è
servito che dicessi niente. Si è accostato a me con il suo solito modo di fare
discreto, ha strizzato l’occhio e ha detto: «Bella, è?». Non sono riuscito ad
evitare di annuire a bocca aperta, prima di riuscire a distogliere lo sguardo ed
evitare per un pelo che anche lei lo sapesse.
Il rumore delle levigatrici è
tutto ciò che incontro lungo il corridoio. Sono in ritardo di qualche minuto
sull’orario. Anche se cerco di raggiungere in fretta la mia postazione, mi
becco un’occhiataccia dal caporeparto. A differenza di altri colleghi, a me non
capita mai di essere in ritardo. Sarà per questo che comunque non mi dice
niente.
Mi sbrigo ad indossare i guanti,
la mascherina e i tappi per le orecchie, prima di prendere posto e di
concentrarmi sul primo pezzo da rifinire.
Non posso dire di amare alla
follia il mio lavoro, ma in tempi di crisi come quelli che corrono sono
fortunato ad averne uno. Poi… una fabbrica di manufatti in vetroresina è sempre
meglio del ristorante di mio zio Gino, dove sarei stato costretto a sopportare
una paga misera, degli orari incasinati e le urla di mia zia Franca che dalla
cucina è in grado di raggiungere l’ingresso del locale, con la sola forza della
voce. No. Un lavoro separato dai legami di parentela e che mi garantisce la
giusta quantità di indipendenza è quello che fa per me. Poi, non escludo un
futuro altrove. Ma, al momento l’unico posto in cui vorrei essere è quello dove
attualmente sto. Quello dove c’è anche lei. Quello dove oggi, sì, mi deciderò a
parlarle e a dirle che mi piace.
«Ma, si può sapere che hai
combinato? Sulla faccia sembri un puzzle riuscito male».
Andrea. Anche lui conosciuto
grazie al lavoro. Anche lui, mai che si facesse gli affari suoi.
«Niente. Ma… poi, si può sapere
perché stamattina avete deciso di prendervela con la mia faccia? Per Maurizio
sono un fantasma, per te un puzzle riuscito male… ho paura di andare in bagno e
di guardarmi allo specchio. Poi, proprio oggi che ho bisogno di sentirmi in
forma e su con il morale…». Lascio cadere quelle ultime parole nel discorso,
senza sentire il bisogno effettivo di una controbattuta. Ma, Andrea proprio non
resiste: «Perché… che santo è oggi?». Gli occhi carichi di aspettativa e le
mani sulla mola che per un po’ smettono di andare. «Niente. Dicevo così, tanto
per dire. Continua a lavorare». Ok. Forse ho esagerato e Andrea non manca di
farmelo notare: «Primo: tu non hai ancora cominciato con i tuoi pezzi e sei
pure arrivato in ritardo. Secondo: non mi pare che ti abbiano nominato
caporeparto o controllore della produzione, quindi… fatti gli affari tuoi». Non
posso dire di conoscerlo benissimo, ma…
per quel poco che so di lui, so che se non mi sbrigo a correre ai ripari
finisce che rimaniamo litigati per il resto della giornata. E sai che rottura,
quando non puoi nemmeno scambiarti una battuta.
«Scusami, non volevo aggredirti.
È che sono nervoso, perché ho deciso che oggi è il giorno buono per parlare con
Lucia». Il suono del suo nome ha sul cuore la forza di un cazzotto. Sento le
gambe tremare, come fossi in bilico sul bordo di un terrazzo, e ci manca poco
che mi si annebbi anche la vista per l’emozione. Quando penso a lei non la
penso mai con il nome. Per me lei è Lei. Lei è il centro di ogni pensiero. Lei
è l’apice di ogni emozione. Lei è la ragione di ogni scelta.
Sono in un negozio in cerca di
una camicia, per il battesimo del figlio di un amico? Anche se so che Lucia non
avrebbe comunque modo di vedermi con la camicia indosso, ad ogni confronto con
lo specchio del camerino mi chiedo: piacerebbe a Lucia? Al ristorante? Non c’è
piatto sul menù sul quale non mi interroghi. Vorrei sapere se preferirebbe un
primo piatto a una pizza e se, in fatto di pizze, abbia delle preferenze
imprescindibili o meno. Mia cugina Valeria, per esempio, è da anni che ogni volta
che si ritrova in pizzeria con gli amici ordina la solita pizza bianca con poca
mozzarella e radicchio rosso. Io sono più il tipo da wurstel e salsiccia, ma
alle volte non mi dispiace anche una capricciosa. In fatto di dolci… quali
sarebbero i suoi gusti?
«Hai capito! Il nostro Stefano è
coraggioso. L’avevo detto io, che prima o poi ci saresti arrivato. Vorrai mica
aspettare…».
«Sì, sì! Non voglio aspettare di
vederla al settimo cielo, perché qualcun altro le ha chiesto di uscire. Me
l’avrai ripetuto almeno un centinaio di volte. La lezione è servita, se questo
può giovare alla tua autostima. Ti ringrazio tantissimo per avermi spronato a
fidarmi del cuore. Perché non ho niente da perdere, anzi. Se mi va bene, ci
guadagno l’affetto di una ragazza speciale». Chiudo il discorso con una pacca
sulla spalla di Andrea. Lui mi sorride. «Hai tutto il mio appoggio. Ma... come
penseresti di fare, si può sapere?».
«Conto di offrirle un caffè a
colazione. Che ne dici? Un approccio sufficientemente informale, ma utile allo
scopo». Non aggiungo altro. Andrea mi sorride di nuovo, mi strizza l’occhio,
poi ci mettiamo entrambi al lavoro.
Di solito, il lunedì mattina è un
dramma. Nonostante sia il primo giorno della settimana e nonostante il riposo
precedente del sabato e della domenica, mi sento sempre uno straccio. Fatico a
far passare il tempo e, anzi, ogni volta che alzo gli occhi in direzione
dell’orologio appeso alla parete mi sembra come se le lancette, invece di
progredire, regrediscano.
Non è la stessa cosa per questo
lunedì.
27 maggio. Sì, è il giorno
giusto. Oggi mi faccio coraggio e glielo dico.
Oggi che vorrei davvero che il
tempo scorresse al rallentatore, il suono della campanella che annuncia la
pausa per la colazione mi coglie talmente tanto alla sprovvista da farmi
sobbalzare. La levigatrice mi sfugge di mano e finisce per terra. «Merda! Sono
già le dieci. Come possono essere già le dieci?». Il reparto si svuota in un
batter d’occhi. Io provo a muovere i piedi verso la stanza delle macchinette
nella maniera più naturale possibile. Ma, sembro ingessato e tutto mi sento
fuorché spontaneo. «Adesso… che cosa le dico? Non ho pensato un discorso.
Potrei non trovare le parole per…».
«Stefano, tutto ok?». È Angelica,
una delle colleghe di reparto di Lucia. Rispondo di sì con un semplice cenno
della testa, ma non devo risultare molto convincente. « È che mi è sembrato tu
stessi parlando da solo». Sorrido, come a voler sottolineare l’assurdità della
cosa. Ma, negare l’evidenza è uno sport in cui non sono mai stato troppo
portato.
«Come mai stamattina gli altri ti
hanno battuto sul tempo? Vuoi provare il brivido di essere l’ultimo, almeno per
una volta?». «Già». Non posso certo confessarle che essere ultimo, oggi, ha i
suoi vantaggi. Non posso confessare che sono mesi che studio gli orari della
pausa di Lucia e che mi sono accorto della sua tendenza a lasciare che la
situazione alle macchinette sfolli un po’, prima di farsi avanti per il suo
quotidiano caffè macchiato al cioccolato. Primo: perché rischierei di fare la figura
del folle, o – quantomeno – dell’aspirante tale. Secondo: perché non è ancora
detto che io riesca a parlarle. Ora come ora, con l’incombenza del momento,
sento che potrei non farcela a mantenere il coraggio con cui mi sono svegliato
ed affrontarla.
Provo a muovere di nuovo i piedi,
ma ho come la sensazione che tra la suola delle scarpe e la superficie del
pavimento si sia insediata una valanga di colla a presa rapida.
Fatico, come se avessi delle
cavigliere da cinque chili per gamba. Mi sento rallentato e privo di forze,
come dopo una corsa di dieci chilometri. Mannaggia a me! Facevo meglio a
bloccare i pensieri sul nascere, invece di convincermi che tutto è possibile e
che basta volerlo.
«Allora! Te la dai una mossa, o
conti di aspettare qui la pensione?». Andrea è tornato indietro a cercarmi. «Io
il caffè l’ho già preso, tu che fai… decidi per il solito, oppure?». Sarei per
l’oppure.
«Penso che proverò quello con il
cioccolato. Ma, tu non badare a me. Io aspetto di poter parlare con Lucia». La
reazione è automatica: nome, uguale brividi. Brividi, uguale indecisione
pressante. Io tremo come una foglia per la paura e lui se la ride sotto i
baffi.
Ci parlo, o non ci parlo? È il
peggior dubbio amletico che mi sia mai capitato di avere.
Ci parlo. Sì… oggi è il giorno
giusto. Ci parlo.
Decido giusto un attimo prima di
affacciarmi sulla porta della stanza delle macchinette, anticipando Lucia per
un soffio. Così… prima passo da maleducato perché non le cedo il passo, poi
sembro il classico tipo che vuole riabilitarsi da una gaffe offrendo un caffè.
«Prendi quello macchiato al
cioccolato, giusto?». Non le chiedo se posso offrirglielo, glielo offro e
basta. Lei, forse un po’ intimorita, annuisce e basta. Alla domanda sulla
quantità di zucchero la sento rispondere: «Tre pallini va bene, grazie».
Scommetto che chi ha inventato le unità di misura non ha minimamente preso in
considerazione l’idea che un giorno lo zucchero si sarebbe misurato anche a
pallini. Con il tasto + poco sotto il display ubbidisco, prima di digitare
anche il codice del caffè. Quando sei davanti alla ragazza più bella della
terra e il respiro ti manca per il semplice fatto di averla a pochi centimetri
da te, anche il tempo che un distributore automatico impiega per preparare un
caffè macchiato al cioccolato sembra talmente lungo, da fare invidia
all’eternità. È vero che non mi ero preparato un discorso, ma non pensavo che
sarebbe stato così complicato trovare un argomento di conversazione per
riempire dieci minuti di pausa.
Mi fisso con lo sguardo sul
livello di preparazione della bevanda, consapevole che sarò un uomo finito non
appena sullo schermo comparirà la scritta: “Bevanda pronta” e dovrò prendere il
bicchiere e passarglielo.
Fortuna mia, ci pensa lei a
togliermi dall’imbarazzo. La voce è giusto un filo, ma lontani dai rumori della
fabbrica non serve chissà quale sforzo per farsi sentire. «Tu, come lo
prendi?».
Corto. Basterebbe una parola.
Sono sempre stato un tipo da
caffè corto e non ho mai sentito l’esigenza di cambiare le mie abitudini.
Almeno, finora. «Di solito amo i caffè che si lasciano bere in un sorso, ma
oggi il macchiato al cioccolato mi incuriosisce. Penso che potrei provarlo».
Lei sorride e il mio cuore arriva dritto in gola.
Mamma mia, quanto è bella.
Poterla vedere sorridere, senza sbirciarla con il timore di essere scoperto, è
una soddisfazione che va oltre ogni dire. I suoi denti non sono perfetti, ma il
modo in cui le labbra si sistemano intorno a loro li rendono tali. In più,
quando sorride ha la tendenza ad arricciare leggermente il naso. Mi fa
impazzire.
Al suono della macchinetta,
prendo il bicchiere e glielo passo. Aspettare il mio sembra un po’ meno penoso.
«Che te ne pare qui?». Volendo proprio dirla tutta, l’ultimo dei due ad essere
arrivato sono io. Ma, credo che la domanda possa andar bene comunque. È
talmente giovane, che di sicuro non lavora in questo posto da una vita. Per
quanto ne so, potrebbe anche avere in progetto qualcosa di diverso.
«Non male, anche se il caffè non
è come quello del bar». Muove il bicchiere fra le mani e la gocciolina che si
era formata sul bordo, nel punto esatto dove aveva appoggiato la bocca, scivola
lungo la superficie ondulata della parete, fino a mischiarsi di nuovo con il
caffè rimasto sul fondo.
Il distributore suona di nuovo. È
pronto anche il mio. Lo prendo, sollevo il bicchiere fino alle labbra e provo
un primo piccolo sorso. Scotta da morire. Sono pochissime le cose in grado di
scottare in maniera mortale, come il caffè dei distributori automatici. Fingo
comunque che non sia niente e provo ad assumere l’aria di chi sta assaporando
senza problemi qualcosa di nuovo. È buono o non è buono? È il secondo dubbio
amletico nel giro di dieci minuti. Stavolta, però, rimango perplesso.
«Mah! Se proprio devo essere
sincero, sento un certo conflitto di competenze». Lucia sorride ancora. Allora,
io continuo a cavalcare quell’onda di humor che è arrivata all’improvviso ad
aiutarmi e che sembra stia funzionando. «Non è n’è caffè, n’è cioccolato… non
so se mi spiego. Mi aspettavo più il gusto tipico di pezzo di fondente, dopo un buon ristretto».
Poche parole, ma tutte azzeccate mi sembra. Lucia continua a guardarmi con
quello sguardo curioso e divertito e io per un po’ smetto di sentire la forza
del cuore che continua a premere nella gola. Adesso sì, che potrei veramente
cominciare a parlare per ore. Ma, il suono della campanella ci impone la fine
della pausa e il ritorno al lavoro. Mentre buttiamo via i bicchieri, la sento
dire: «Ti ringrazio».
«Non c’è di che, ma… posso
chiederti una cosa?».
La mia voce è flebile, come
quando sono a letto con la febbre alta (che per me vuol dire dai trentasette
gradi e mezzo in su) e la mamma viene a chiedermi se ho intenzione di scendere
in cucina per il pranzo. Il più delle volte, la vedo uscire dalla stanza con la
consapevolezza che non ha sentito la risposta alla domanda. Ma, non posso
permettermi di cadere di nuovo nel panico tipico dell’innamoramento e di
lasciare passare altro tempo prezioso. Non aspetterò di vederla sorridere,
perché qualcun altro le ha chiesto di uscire.
Respiro a fondo e: «Posso
offrirti un caffè?». Domanda idiota. Me ne rendo conto nel momento in cui la
vedo fissarsi con lo sguardo sul davanti del distributore. Ha la faccia a punto
interrogativo.
«Pensavo l’avessi appena fatto».
Dice indicando con un dito i nostri bicchieri vuoti, sopra il resto della roba
nel cestino dei rifiuti.
«No! Cioè… sì!». Balbetto.
Fantastico. Il cuore in gola è tornato a farsi sentire in maniera
insopportabile e temo che il mio motore vitale possa decidere di alzare
bandiera bianca e di abbandonarmi da un momento all’altro.
«Quello che intendo dire è che…».
Se non mi sbrigo a sputare il rospo, va a finire che Maurizio viene a
richiamarci per la mancata presenza nei reparti. Ci manca solo un richiamo da
parte dell’azienda, come ciliegina sulla torta a quella che penso stia
rapidamente diventando la figura di merda più brutta della mia vita. Non sono
un tipo che si massacra da solo, ma sono un’idiota e non c’è obiezione che
tenga.
«Ciò che intendevo chiederti è se
posso offrirti un caffè al di fuori di qui. Magari, troviamo un bar che faccia
un ottimo caffè al cioccolato. Che te ne pare come idea?».
Rivedere il sorriso di prima e
quel naso arricciato, mi regala una nuova boccata di ossigeno.
Forse, non muoio più per oggi.
«Eccoti! Marcella non ti ha vista
tornare al lavoro e temeva stessi poco bene. È tutto a posto?».
È Francesca, un’altra collega di
Lucia. Si rivolge a lei, come se io non
ci fossi. Fatico, ma faccio finta di non essere infastidito da questa
cosa. Come per il fatto di essere stati interrotti poco prima che Lucia
riuscisse a rispondermi.
Anche se rischio seriamente di
vederle andare via senza sapere se le farebbe piacere uscire con me, sto buono
e in silenzio.
E rimango buono e in silenzio per
un po’. Fino a che… dico qualcosa, o non dico qualcosa?
Giuro che la prossima volta che
sento la mia testa ragionare alla Shakespeare prendo il cellulare, trovo il
numero di un bravo psicologo e lo chiamo. Non ne posso più di sentirmi l’Amleto
della situazione. Ora! Va bene non essere il massimo in fatto di decisione. Va
bene aver faticato non poco per sfangarla in questa delicata questione di
cuore. Ma, quando è troppo è troppo!
Trascorro in silenzio altri
secondi preziosi. Poi, finalmente Lucia sembra ricordarsi di me.
«Tutto ok, Franci… tranquilla. Dì
a Marcella che arrivo subito». La collega fa dietrofront senza aggiungere una
parola. Lucia raggiunge la porta della stanza, si appoggia con una mano alla
maniglia e solo allora si volta a guardarmi. «Per te andrebbe bene questa sera
alle sette e mezza?». Non chiedo di meglio. Il sorriso che mi si stampa in
faccia è il più grande che mi sia capitato di fare in tutta la vita. Non è
assolutamente vero che non si riescono a mostrare tutti i denti in un sorriso.
Non ricordo a chi l’ho sentito dire, ma è una bugia. I miei quarantotto
soldatini bianchi (come la mamma si divertiva a chiamarli quando ero piccolo,
per convincermi a mangiare e variando sul tema dell’aeroplanino che atterra
all’aeroporto), stavano risplendendo sotto i raggi delle luci al neon del
lampadario, orgogliosi come non mai di essere tutti compatti e di essere tutti
ben visibili. «A dopo, allora». Ci salutiamo in fretta, prima di tornare ognuno
al proprio lavoro.
Ho sempre pensato che vivere in
una città di piccole dimensioni sia uno svantaggio.
Passi per i giorni in cui lavori
e ti tocca stare rinchiuso per otto ore, se non di più, tra le quattro pareti
grigie di una fabbrica che, per quanto moderna, è pur sempre una fabbrica. Ma,
quando è il tempo libero a farla da padrone, allora sì che è un dramma.
Le piccole città hanno poco,
veramente poco da offrire in termini di svago e Gubbio non fa eccezione.
Adorabile, strutturalmente parlando. Una vera chicca, per gli artisti o per gli
appassionati di fotografia. Ma, viverci per trecentosessantacinque giorni
all’anno non è sempre tutta questa pacchia. Tolti i periodi speciali e quelli
di festa che riserva all’intera cittadinanza e ai turisti che la scelgono come
meta, per il resto sono sempre le solite.
Non che le solite cose di sempre
mi dispiacciano poi tanto. Ma, sono sempre le solite.
Il cinema puntualmente in ritardo
sulle proiezioni e battuto alla grande dai multisala delle vicinanze, i pub
sempre agli estremi in fatto di presenze; o troppo pieni da non riuscire a
starci o talmente vuoti da angosciare e le vie solitamente deserte e deprimenti
nel loro silenzio; più di quanto possa essere deprimente il restare barricato
in casa a guardare il niente che di solito propone la televisione il sabato sera.
Me lo sono sempre chiesto… chissà perché i migliori programmi e i migliori film
li sparano tutti durante la settimana, quando la maggior parte della gente ha
la sveglia che suona presto il giorno dopo e non si può permettere di tirare
fino a tardi davanti allo schermo. Poi, si lamentano degli ascolti bassi.
Dovrebbero saperlo come funzionano certe cose, loro che sono esperti del
settore.
«Mi scusi, sa per caso dirmi
l’ora?».
Ho camminato per talmente tanto
tempo, con la testa immersa nei pensieri, che a malapena riesco a capire dove
mi trovo e – soprattutto – che ore sono. Non vorrei arrivare in ritardo,
proprio oggi che finalmente esco con Lucia.
Guardo alla svelta il display del
cellulare e rispondo al signore dai baffi lunghi e bianchi che, tirando qualche
boccata di fumo dalla pipa che tiene stretta in mano, non ha mai smesso di
fissarmi. Starà pensando che sono uno strano soggetto, ma io penso altrettanto
di lui.
«Sono le sette e venti».
Riprendo a camminare senza
aggiungere altro. Un «Grazie» mi arriva alle orecchie di sfuggita, ma non ho il
tempo di voltarmi per rispondere che “non c’è di che”.
Sono le sette e venti. Mancano
dieci minuti allo scoccare dell’ora x. Devo sbrigarmi.
Mentre supero l’ufficio postale
chiuso e accelero il passo lungo via Gioia, sento un’ansia terribile assalirmi.
Perché? Perché l’ansia arriva a rovinare sempre l’attesa dei momenti belli?
Non potrei semplicemente essere
un ragazzo felice e sereno? Un ragazzo che sta camminando per la città, per
raggiungere la ragazza che ha invitato a bere un caffè insieme, per il loro
primo appuntamento?
No! Io sono un ragazzo felice,
perché sta per avere un primo appuntamento con una ragazza stupenda, e… ansioso
per lo stesso motivo.
«Ciao! È molto che aspetti?». Mi
precipito davanti a Lucia che, sollevando gli occhi verso l’orologio della
Piazza, aspetta di vedermi riprendere un po’ il fiato: «No! Non sei in ritardo,
non preoccuparti. Sono io che ho l’abitudine di arrivare in anticipo. Così, non
rischio di fare tardi». In due sorridiamo di quel bizzarro gioco di parole.
Poi, guardandoci intorno decidiamo di attraversare piazza Quaranta Martiri e di
raggiungere il quartiere di San Martino.
Ecco. Anche se Gubbio è una
realtà modesta e con possibilità di svago non sempre alle altezza delle mie
aspettative, adesso è l’unico posto in cui vorrei essere insieme a Lucia.
Perché, quando vuole, Gubbio sa essere magica. E sa riempirsi di magia in quel
modo speciale che ti fa venir voglia di prendere carta e penna e di scrivere
una poesia, o di stringere tra le mani una chitarra e di intonare una canzone.
Mi immagino seduto sulla scalea del palazzo dei Consoli e mi sento cantare a
Gubbio, come una celebre canzone fa a Roma, per chiederle di aiutarmi. Gubbio…
non fa la stupida, stasera…
«Cosa hai pensato stamattina,
quando ti ho chiesto di uscire?». Dal modo in cui Lucia mi sta guardando,
intuisco che la mia non deve essere stata una grande mossa per rompere il
ghiaccio.
Un sorriso. Gli occhi puntati nei
miei. Poi, niente. Non so per quanti secondi rimango ad aspettare che il
silenzio tra noi muoia.
«Niente».
Come sarebbe a dire?
Non che mi aspettassi chissà
cosa. Ma, almeno di sapere se ne è stata felice.
Raggiungiamo l’ingresso del bar,
la lascio passare e la seguo fino ad un tavolino in mezzo alla sala. Avrei
preferito una posizione un po’ più periferica, ma non importa.
Adesso anche sopra i tavolini dei
bar ci sono i menù. Cioccolata per tutti i gusti, tè e tisane per tutti i gusti
e caffè versato in tazza in cinquanta modi diversi.
Io continuo ad essere convinto
che la miglior scelta stia nel caffè corto. Eppure, quando il barista si
avvicina per prendere il nostro ordine, Lucia sorride mentre chiedo: «Due caffè
macchiati al cioccolato, grazie!».
«Tazza grande o piccola?».
«Grande». Immagino che avere più
caffè da bere significhi avere maggiore tempo per rimanere seduti al tavolo.
Solo io e lei, senza la gente che ci cammina intorno e senza il rischio che
qualcuno che conosciamo si avvicini per attaccare bottone e rovinarci la
serata.
«E tu? Perché mi hai chiesto di
uscire?». La curiosità di Lucia è forte, glielo leggo negli occhi.
Sono tentato di rimanere sul
vago, soprattutto per il desiderio di ripagarla con la stessa moneta. Ma, dopo
un po’ mi sento stupido a fissarla senza dire niente. Allora, confesso: «Perché
quando ti vedo mi tremano le gambe e anche se non sono sicuro di ciò che
potrebbe nascere tra me e te, ho pensato di non aspettare di vederti con
qualcun altro, per poi scoprire magari che sono innamorato e che mi rode
tantissimo vederti felice con lui». Più sincero di così.
Mentre arrivano i nostri due
caffè al cioccolato vedo Lucia mordicchiarsi il labbro inferiore e innervosirsi
un po’. Oddio! Ci sarà mica qualcun altro? Vado in paranoia nel tempo reale di
un microsecondo. E la morsa dell’ansia sullo stomaco non si allenta nemmeno
quando la sento controbattere: «Non sono un tipo così richiesto». Sorride, ma
non capisco di che cosa. Significa che ha accettato di uscire con me per
disperazione?
Non posso chiederlo. Perché le
cose che si vorrebbero sapere per non impazzire, sono sempre difficilissime da
formulare in una domanda?
Provo comunque ad aggirare
l’ostacolo: «Sono più che sicuro che una ragazza bella come te fa impazzire i
ragazzi, ogni volta che entra in un locale». È un complimento, ma non solo.
Il cuore nelle tempie comincia a
pulsarmi forte, quando la sento affermare: «Non sono proprio il tipo da locali
e da vita notturna. Bere un caffè, seduta al tavolino di un bar e in buona
compagnia, è quanto di meglio io possa sperare per una bella serata».
Fantastico!
«E… che fai nel tempo libero,
quando decidi di non uscire?».
«Dipingo».
Me la immagino davanti ad una
tela, con un pennello tra i capelli e le mani imbrattate di colori.
Ama dipingere i paesaggi.
Soprattutto perché, dice, non sono capricciosi come le persone. Sono ispiranti
e sanno rimanere a disposizione dell’artista per tutto il tempo necessario.
Io non ho mai riflettuto sulla
possibilità di fare qualcosa di artistico nella mia vita. Ma, se ci penso, mi
sarebbe piaciuto recitare. Ho la sensazione che un attore sia maggiormente in
grado di fronteggiare le situazioni imbarazzanti o scomode di ogni giorno. Non
che ciò significhi dover fingere. Semplicemente, avere la faccia giusta per
ogni momento.
«Mi piacerebbe poter vedere
qualche tuo lavoro». Sorrido per l’ennesima volta, nella speranza che raccolga
l’input per un possibile, futuro, secondo appuntamento. Ma, vivere in un mondo
ipertecnologico significa avere sempre a portata di mano un cellulare carico di
fotografie. E ritrovarmi immerso nei
suoi mondi di colori e nei prati verdi dei suoi lavori è più immediato di
quanto volessi. «Sono stupendi, complimenti!».
Uno in particolare cattura tutta
la mia attenzione. È una distesa di margherite.
Lucia lo capisce e si blocca su
quell’immagine. «Questo l’ho realizzato l’anno scorso, dalle parti della
fabbrica». Anche questa sarebbe una buona occasione per chiedermi di fare
qualcosa insieme, ma il tempo continua a passare parlando dei suoi quadri, di
musica, di libri e di film, senza che Lucia lasci intendere in qualche modo di
volere uscire di nuovo con me.
Una volta fuori dal bar sono
deluso, anche se cerco di tenere la delusione per me. Con le auto parcheggiate
in due posti diversi occorre salutarsi lì e darsi la buona notte. Ci baciamo
sulle guance, ci stringiamo la mano e ci allontaniamo ognuno nella propria
direzione.
Sono già piuttosto lontano
dall’ingresso del bar, quando sento la sua voce forte: «Stefano! Stavo
pensando… posso offrirti un caffè?».
«Credevo l’avessimo appena preso.
Vuoi fare il bis?». Sento un lampo accendersi negli occhi e in un attimo le
sono di nuovo vicino. Sorride. È bellissima. È il motivo per cui non vorrei
tornare a casa e quello per cui non vorrei chiudere gli occhi e abbandonarmi al
sonno.
Pur di non perderla di vista
nemmeno per un secondo, sarei disposto a fare orario continuato per la veglia e
a rimandare l’appuntamento con il sonno ad un altro momento.
«Lo so, che lo abbiamo appena
preso. È che mi chiedevo se ti andrebbe di uscire con me una delle prossime
sere, per un altro caffè. Magari… stavolta ci mettiamo alla ricerca di un bar
che faccia un ottimo espresso. Che te ne pare, come idea?».
Non è un tour tra le sue opere,
non è una merenda all’aperto sdraiati in un prato di margherite, ma va
benissimo lo stesso.
Sento il cuore fare le capriole
dalla felicità. «Mi sembra un ottimo programma!».
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