Quando venti minuti somigliano tantissimo a un’ora. Il mio viaggio in
macchina insieme al gattino è stato così. E, mentre tornavo a casa, cercando di
non far sballottare troppo il trasportino nel bagagliaio per non farlo
vomitare, con i pensieri sono riuscita a creare un chiodo fisso. Il nome. Ci
serve un nome. Abbiamo già acquistato lettiera, relativo occorrente, crocchette
e cuscino, ma… non abbiamo ancora in mente un nome.
Ne abbiamo parlato, certo, ma senza risultato.
È sicuro che non vorrei adoperare uno dei nomi già utilizzati in
passato per i gatti avuti in famiglia. Perciò… niente Tommy – che va sempre
fortissimo, in caso di micio – Timmy, la cui assonanza è assolutamente troppo
evidente, Mimmo, che – purtroppo – non ha avuto fortuna ed è scomparso a pochi
mesi dalla nascita, Ruby, che all’epoca era voluto essere un diminutivo di
Rubino e che – successivamente – avevamo dovuto adattare come diminutivo di
Rubina, non sapendo ancora che i gatti a tre colori possono essere solamente
femmine. Almeno, stando a quanto scritto sul libro di scienze all’epoca della
seconda media.
Cosa rimane? Assai poco, in realtà. Escludendo un Ruggine, che non saprei
come giustificare, Nerina e Minù suonano malissimo per un lui. Anche se adoro
l’idea di un nome che arrivi da un’ispirazione Disneyana. Ora che ci penso
meglio, abbiamo avuto anche una Zebry in famiglia. Trattandosi di un gatto
tigrato, potrebbe andare. Ma… no! Niente nomi già utilizzati.
Questa storia dei nomi già utilizzati ci ha già messo in crisi nel
nostro breve tentativo di scelta pre-affido.
Appena trasferiti abbiamo preso con noi un pesciolino rosso,
battezzato immediatamente: Elvis! Due
le ragioni: scoprire la passione per Elvis
durante le nostre colazioni alle sei di mattina, mentre su Paramount Channel
avevano deciso di trasmettere tutti i suoi film e ispirarsi alla storia di
Io&Marley, dove un labrador esuberante prende il nome proprio dal famoso
Bob.
Avevamo persino preparato un disegno simpatico, da appendere accanto
alla porta per avvisare i visitatori di “fare attenzione al pesce!”, ma… dopo
appena due mesi il nostro Elvis ha deciso di farsi trovare con la pancia
all’insù e il lavoro è rimasto incompiuto in un angolo del ripostiglio.
Sì… Elvis sarebbe proprio fico, come nome!
Ho guidato per gli ultimi cinque minuti fino a casa cercando un modo
per aggirare questa cosa di non voler mettere al gatto un nome già utilizzato
in passato. Unico motivo trovato: lo fanno in tanti, poi… sarebbe comunque un
bel modo per ricordare il nostro primissimo animaletto domestico.
Ok. Sto andando in paranoia per una stupidaggine, mentre dovrei
riuscire a convincermi che al gatto non gliene potrebbe fregare di meno del
dove e del perché abbiamo pescato un certo nome da affibbiargli.
Chissenefrega, dunque, Elvis può andare.
I pochi passi che separano la macchina dalla porta di casa sono quelli
in cui mi sforzo di immaginare come sarà quella sorpresa.
Il fondo del trasportino è sospettosamente caldo, perciò immagino che
il piccoletto debba aver fatto la pipì. Sorpresa, sorpresa! Serviranno
immediatamente dei fazzolettini per pulirlo. Spero solo che non ne abbia fatta
tanta da essere zuppo fin sulla testa e che il tappetino igienico messo sul
fondo abbia saputo fare il suo dovere senza farlo impiastricciare. A pensarci
bene, ci sarebbe da augurarsi che non abbia fatto anche altri bisogni, ma non
sento odori sospetti; perciò immagino che – pipì a parte – possa andare. Vorrei
tirarlo fuori di lì prima di girare la chiave nella serratura e farmelo trovare
in braccio, ma - possedendo affatto il
gene di Diabolik – i miei passi pesanti mi fanno scoprire e la porta si apre
all’improvviso.
Mi investe un: “Mi stavo preoccupando”, ma riesco a evitare la
ramanzina sollevando il trasportino a mezz’aria con uno squillante: “Sorpresa!”.
Poi, parto a macchinetta perché temo possa essersi offeso del fatto che abbia
deciso io tutto quanto da sola e mi affretto a dire che è un micino troppo bello
per riuscire a lasciarlo lì una notte di più.
Gli occhi che mi guardano e brillano, sopra un sorriso felice, mi
confermano di non aver sbagliato.
“Vuoi provare a prenderlo in braccio?”.
Sì!
È questione di un attimo, forse anche di meno. Il secondo dopo aver
aperto la porta del trasportino, siamo già in giro per casa a cercare il
gattino che – al contrario di me – sembra per davvero un mago del non farsi
sentire.
Oddio! Speriamo non arrivi un attacco di panico. Devo ammetterlo,
quando capitano imprevisti del genere, non sono bravissima a gestire la
situazione. C’è anche da dire che la mia mente aveva già prodotto un lieto fine
per quella serata, che non è esattamente ciò che stavamo vivendo.
Almeno di una cosa potevamo essere certi: il gatto non può essere
finito nel ripostiglio. La porta chiusa, speravamo, a patto di non ritrovarci
ad avere a che fare anche con uno stregone di altissimo livello, avrebbe dovuto
essere la certezza di doversi limitare a cercare il micino in camera (ho
passato tutto il tempo ad augurarmi che non la scegliesse come suo primo bagno
personale, prima di riuscire a preparargli la lettiera), in bagno e in quel
piccolo spazio nel mezzo che voleva somigliare a una cucina, con piccola zona
relax.
A ripensare ai miei venti minuti di macchina, in compagnia di una
marea inutile di dilemmi per la scelta del nome, mi viene ora da ridere sapendo
che un gattino appena arrivato e già chissà dove in giro per la casa, non
avrebbe risposto a nessuno dei possibili; che sia Elvis, o Pinco Pallino,
importa… niente. Nisba!
Quel che può servire in certi casi, invece, è sforzarsi di ragionare
come un gatto. Impaurito, piccolino, in una casa nuova e insieme a persone
estranee… dove sarei andata a nascondermi, fossi stata io al suo posto?!?
Il sotto del letto, pieno di scatole per ogni cambio di stagione,
rimane il posto migliore dove io, fossi stata in lui, avrei scelto di sparire.
Spostate le scatole, niente micio.
Ok. Escludendo il sotto del divano per lo spazio che, almeno a
vederlo, sembra troppo stretto per poterci passare e quello del mobile della
cucina, grazie a un battiscopa che arriva a toccare il pavimento, rimane il comodino della macchina del caffè, il retro
del frigorifero e il sotto e il retro del mobile del microonde.
Nisba! Niente micio nemmeno da queste parti e io comincio a sentire
per davvero che l’ipotesi di un attacco di panico non è poi così tanto da
scartare. Cosa avrei detto alla ragazza dell’Enpa, se per caso le fosse venuto
in mente di telefonare, per domandare come stessero andando i nostri primi
minuti in tre?!?
Non riesco a pensarci e per poco non sbatto il cellulare contro il
muro, nel tentativo di zittirlo, appena sento lo squillo di due messaggi Whattsapp. Sicuro è lei. Panico!
Adotto la tecnica della non visualizzazione, nella speranza di
guadagnare tempo e di uscire da quella situazione, sempre più vicina
all’incubo, il prima possibile.
Come può essere che un gattino sia in casa e riesca a farsi non vedere
e non sentire in quel modo?
Cerco di ricostruire i fatti. Ho aperto la grata del trasportino, poi…
niente. Per quanto mi sforzi di ricordare, non sono riuscita a vedere altro che
il vuoto immediato davanti a me.
“Tu, almeno, sei riuscito a vedere da che parte è andato? Così,
magari, riduciamo il raggio di azione”.
Niente.
Niente, niente, niente.
Quel gatto ce la stava facendo proprio sotto il nostro naso e, forse,
se la stava anche spassando un mondo.
L’attacco di panico è alle porte, una crisi di pianto – forse – anche.
Oddio! Ho portato un gattino a casa per fare una sorpresa e l’ho già
perso. Ho portato un gattino a casa e non ho la più pallida idea di dove sia
finito.
La mia voce interiore è incavolata nera. Nessun biasimo.
Mi ritrovo ad aprire anche le scatole dei cambi stagione, nel dubbio
che in qualche modo possa essere riuscito a infilarcisi, bravissimo, senza fare
rumore, quando tre parole arrivano a salvarmi.
“Eccolo è qui!”.
“Qui dove?”
“In bagno!”.
Avevo già guardato in bagno e non c’era. Dietro la lavatrice, dietro
la cesta della biancheria sporca, dietro il wc, dietro il bidet, dietro il
lavandino. Niente.
Come caspita aveva fatto a trovare un posto in bagno, senza che io
riuscissi a vederlo?!?
Corro e lo trovo schiacciato tra un pacco di carta igienica e il
secondo ripiano del piccolo scaffale dove teniamo saponi, shampoo e affini.
Come mai gli sarà venuto in mente di infilarsi proprio lì? Come ho
fatto a non vederlo? Nel cercare di rispondere a queste domande, mi rendo conto
che non è nemmeno dei colori giusti per mimetizzarsi.
Poi ripenso a tutte le volte in cui mi è capitato di cercare il
cellulare, una penna, il termometro, la calcolatrice, un paio di forbici, la
spillatrice, una spazzola, un paio di scarpe, ecc… ecc… ecc… senza vedere che
ce li avevo proprio davanti al naso. Il classico, uggiosissimo, si vede solo
ciò che si vuol vedere. Ripenso anche a quella volta in cui stavo cercando gli
occhiali da vista e, chissà come, non mi ero resa conto di averli già indosso.
Gli strani giri della mia mente.
Scoppio a ridere. È una risata liberatoria. “Coraggio! Prendilo e
vediamo cosa fa in braccio a te”.
Il gattino si lascia sottrarre dal suo nascondiglio, ma ha l’aria
tipica di chi è spaventato a morte.
Ok. Ha solo bisogno di tempo. Abbiamo solo bisogno di tempo. Perché è
una novità e, forse, non sarà facile, tanto quanto avevo pensato.
“Per il nome ho pensato che…”.
Sto per dire di aver scelto Elvis, così da poter cominciare
immediatamente ad abituare il micino al suo di quella parola tutta per lui,
quando vengo anticipata: “Che ne pensi di Silver?!?”.
Silver.
Argento.
Intuisco immediatamente da dove possa essere arrivata l’ispirazione e
mi stupisco di non averci pensato prima.
La prima foto inviata dalla ragazza dell’Enpa ci consentiva a malapena
di scorgere il piccoletto in mezzo agli altri gatti, ma la descrizione diceva:
‘è un bellissimo gattino argento, abbandonato da due settimane e per questo un
po’ diffidente’. Mi aveva persino colpito l’uso di quella parola, per
descrivere un comunissimo gatto tigrato di un bel grigio, ma non era scattato
niente che potesse essere d’ispirazione per la ricerca di un nome.
Silver. Mi piace. Ha un suono semplice e adatto al caso.
“Benvenuto nella tua nuova casa, Silver!”, dico allungando una mano
per fargli una carezza.
L’attimo dopo è di nuovo schizzato via per tornare al suo adorato
pacco di carta igienica.
Ho capito. Sarà difficile schiodarlo di lì. Nel tentativo di
riuscirci, però, proviamo comunque ad allestire un invitante angolo relax tutto
per lui. Prima o poi, dovrà pur uscire di lì. Le coccole, tutti seduti sul
divano, sono ancora da rimandare. Mi decido a visualizzare e a rispondere al
messaggio della ragazza Enpa. “È tutto a posto, grazie! Il micino ha già fatto
il giro di tutta la casa e ora sta riposando un po’. Abbiamo deciso di
chiamarlo Silver”. Magari, quando saremo di nuovo di persona, gli racconterò di
quei nostri primi trenta minuti fra le quattro mura, stasera no. Comincia a
essere tardi, sarà meglio mettersi all’opera per la cena.