sabato 4 novembre 2017

L'ultimo Post, poi... OblòBlog!!!

"Il Rumore dei Tasti" sta per andare in pensione. 

C'ho pensato a lungo, prima di decidermi. Poi, però... eccomi qui. Ricominciare. Continuare. Sperimentare.
E' un primo, nuovo passo. Un primo, nuovo post. Un posto nuovo dove scrivere... :-) OblòBlog!

PS: qualche amico di viaggio l'ho portato con me... 


Ci vediamo lì! 
Alla prossima!!!

lunedì 30 ottobre 2017

Lo spazio di 2500 battute... "Tutto ciò che conta"

Scrivere. Un bisogno che non smette di farsi sentire. E si fa ancora più forte, quando si imbatte in una sfida. Un bando di concorso. Scoprirlo in ritardo, ma provarci comunque. Non a partecipare; quello no. Provare a scrivere ciò che è richiesto. Un racconto breve. Non superiore alle 2500 battute; per l’esattezza. Duemilacinquecento battute che riescano a parlare di vita contemporanea e di ciò che potrebbe essere trappola per l’uomo. Ci provo. Lo scrivo per questo piccolo, grande spazio personale. Eccolo qui…

Tutto ciò che conta

«Ok. Dammi mezz’ora».
Riapro piano la porta del bagno, convinto di essere riuscito a non farmi sentire.
Viola è davanti a me. Quel suo broncio, in grado di far tremare anche il cuore più duro.
«Nooo!». Urla, lasciando andare due lucciconi.
«Avevi promesso. Mi avevi giurato che oggi, cascasse il mondo, ci saremmo andati».
Io e il mio vizio di fare promesse, che non sono sicuro di poter mantenere.
Mi inginocchio davanti a lei e provo a farla ragionare: «Lo so, tesoro. Mi dispiace, ma… Luca ha chiamato e vuole che lo raggiunga. È per una riunione importante».
Non sono più in grado di parlare con mia figlia. Forse, non lo sono mai stato.
Passiamo del tempo insieme, è vero. Ma è come se ogni volta pensassi di avere a che fare con qualcuno di diverso da lei.
«No, papà…».
Riesco a mandare le sue proteste in sottofondo e mi concentro sulla ricerca della cravatta giusta da indossare.
Nuovi squilli.
È un lampo. Viola afferra il cellulare da sopra il letto e corre verso il bagno.
«No! Viola!». Il tappeto scivola sotto i miei piedi, ma riesco a non cadere. «Ridammelo!”.
Il mio urlo la spaventa. Riesce a chiudersi la porta alle spalle.
La sento rispondere a Luca e dirgli che sarei rimasto con lei. Sento il rumore dello sciacquone.
Un minuto. Due. Tre. Perdo il conto.
Quando riusciamo a guardarci di nuovo, il suo viso è una maschera di lacrime. I singhiozzi sono prepotenti.
Dov’è il cellulare?!?
Non ho il coraggio di domandarlo. Non ho il coraggio di andare a vedere. Lei corre in camera.
La fisso, mentre stringe con forza il suo orsacchiotto.
Dovrei abbracciarla io in quel modo. Sono un padre orribile. Assente e orribile.
Squilla il secondo cellulare. Quello che Viola non conosce e che mi aiuta a non mescolare troppo le telefonate di lavoro con quelle personali.
«Lo so… mi dispiace… Viola non si rende conto…». È un balbettio di scuse, il mio.
Luca non mi lascia il tempo di finire neppure una frase.
«Ci sono in ballo un sacco di soldi!», grugnisce prima di sbattermi il telefono in faccia.
Lo so. Mi dispiace.
Provo a risolverla con Whatsapp. Luca capirà. Conosco il dolore per il divorzio dei suoi genitori, quando era piccolo. So che riuscirà a mettersi nei panni di Viola.
Corro da lei.
«Tesoro». La strappo via dall’orsacchiotto e la tiro addosso a me. «Scusami». Le accarezzo i capelli. «Hai ragione, avevo promesso».
La costringo a guardarmi, mentre cerco di regalarle un sorriso rassicurante: «Andiamo a prenderlo?».
«Miaooo!». Schizza in bagno per prepararsi.

Lo prendo per un sì.

lunedì 23 ottobre 2017

Cosce di pollo al curry... bruciate!

Martedì 3 ottobre: secondo giorno con il micio.
Con la sveglia che suona presto e una buona dose di sonno arretrato che – immagino – non riuscirò più a smaltire, mi rendo conto a stento di ciò che accade intorno, di non avere cacche sparse in giro per i pavimenti di casa, delle crocchette nella ciotola che sono sparite e del fatto che – udite, udite! – il gattino se la dorme della grossa in bagno, sopra al suo adorato pacco di carta igienica.
Rimango ad osservare il suo respiro regolare per un po’, prima di giungere alla felice conclusione che: non ha fatto un frizzo per l’intera notte. Oddio! Sempre che il sonno arretrato non abbia deciso di estinguersi rendendo pesantissimo quello dormito e le mie orecchie non si siano fatte dure, al punto da non avvertire neppure il miagolio più fastidioso. Non è un’ipotesi da escludere.
Con un piccolo dubbio a darmi fastidio, dunque, cerco di stabilire almeno qualche certezza. Ne acciuffo un paio così, su due piedi, aspettando che la macchinetta finisca di preparare il caffè. Primo: il cuscino sistemato accanto alla lettiera non è una zona relax di gradimento al gatto. Occorrerà valutare il suo attaccamento al bagno nei giorni a venire e stabilire il da farsi.
Secondo: a dispetto dei pronostici ricevuti, sempre escludendo l’ipotesi di cui sopra, per la quale le mie orecchie potrebbero non aver fatto il loro dovere, nonostante il gattino sia stato abbandonato solamente due settimane prima e per quanto quell’affido possa essere fresco, pare che abbiamo sfangato alla grande la nostra prima notte di convivenza. Fiù! Sospiro di sollievo.
Un sollievo che cerco di portare con me al lavoro e che mi sento di avere ancora, un attimo prima di girare la chiave nella serratura; al rientro.
Ok. Dannatissimo ottimismo e maledettissimo vizio di tirare conclusioni affrettate.
Mentre immagino di poter rientrare in casa, preparare una bella tazza di tè alla menta piperita, rilassarmi con una doccia calda al profumo di muschio bianco e sistemarmi comoda dentro una tuta fresca di bucato, prima di potermi accoccolare sul divano con un libro in mano, lo scenario che si presenta davanti agli occhi, al dì là della porta, è quello che sbrigativamente si potrebbe definire: l’esatto contrario.
Il tappeto dice WELCOME, ma… il bisognino marrone poco lontano da lui non sembra voler essere un messaggio altrettanto invitante.
Ok. Calma.
Magari, al gatto nemmeno la lettiera va poi così tanto a genio. O, forse, è vero che non è così semplice addomesticare un micio diffidente.
Cacca accanto al tappeto a parte… dove è Silver?
Rimane ancora il problema di non poter far conto sul fatto che risponda al suo nome, ma – poiché da qualche parte bisogna pur cominciare – inizio a girare per casa annullando il silenzio con il suono di quella parola.
Nisba! Come immaginavo.
Cerco al bagno, ma niente da fare.
Con tutte le altre porte di casa chiuse, sento arrivare di nuovo i brividi che precedono il panico, all’idea di dover passare altri trenta minuti anche stasera a dare la caccia a un gattino che non vuole farsi vedere.
Sfuma l’idea della tazza di tè. Qualunque cosa io voglia a ingerire, sento che potrei vomitare per la tensione. Cerco di rimanere ferma sul progetto di una doccia rilassante, ho l’impressione che mi servirà (e anche parecchio), dopo che sarò riuscita a concludere la mia caccia.
Sto sinceramente pensando di fregarmene del gattino e di rassegnarmi all’idea che prima o poi dovrà pur farsi vedere, quando lo sento soffiare mentre ispeziono per l’ennesima il bagno.
Stavolta è nascosto per bene, sotto l’ultimo ripiano del mobiletto, sopra la bilancia che – nonostante sia ad accensione automatica – rimane spenta. Deve essere una piuma… beato lui!
“Eccoti qui! A quanto pare ci siamo divertiti ad imbrattare la casa oggi, eh?!?”.
Ok. Livello sanità mentale drasticamente sceso al limite minimo.
Faccio domande a un gattino che neppure mi conosce e mi aspetto persino di ricevere un qualche tipo di risposta. Forse è una chiacchierata per rimandare l’inevitabile appuntamento con la cacca da asportare. Sì! mettiamola così.
Sto già andando a prendere guanti, spray disinfettante, sacchettino e carta assorbente, quando un miao fortissimo mi coglie di sorpresa.
Per essere tanto piccolo da non venir rilevato neppure dalla bilancia, ha una cassa toracica da fare invidia a quella di un tenore.
Per tutti i gatti spelacchiati del mondo!
Provo ad afferrarlo per prenderlo in braccio, ma si allontana di corsa e mi soffia.
Mi allontano io, miagola di nuovo e con insistenza.
“Se mi dai modo di pulire, di sistemarmi un po’ e ti lasci prendere, magari poi possiamo stare un po’ insieme sul divano. Che ne dici, ti va?”.
Come se un gattino abbandonato possa avere la più pallida idea di cosa sia un divano. Il mio livello di sanità mentale deve stare scendendo in picchiata.
“MIAOOOOO! MIAOOOO! MIAOOOO!”.
Ok. Io ho dei progetti chiari in testa, ma lui non è disposto a collaborare.
Panico!
Dopo i primi quindici minuti di miagolii ininterrotti, dove ho pulito il pavimento alla velocità della luce nel tentativo di riuscire ad afferrarlo per calmarlo un po’ e dove mi sono chiesta almeno un’infinità di volte perché mai avessimo deciso di annullare la tranquillità della nostra routine quotidiana in quel modo, a momenti non mi metto a urlare anche io per sovrastare i suoi lamenti.
I pesci non miagoleranno, vero, ma alle volte può essere anche meglio.
Serve un pezzetto di formaggio per convincere il micio a fidarsi di me e a lasciarsi prendere.
Provo con del groviera. Nisba!
A trenta minuti di ‘MIAOOO’ ininterrotti, mi ricordo dei vicini di casa ed esco un attimo fuori della porta per capire quanto quel piccolo, nuovo arrivato riesca a farsi sentire fuori di lì. Fortuna che, almeno le mura, sembrano reggere bene tutti quei lamenti. Non corro il pericolo di passare per una torturatrice di gatti. Magra consolazione, ma… ottimismo!
Alle sette in punto comincia a vacillare anche il progetto della doccia rilassante. Quel che serve è mettersi prima ai fornelli per preparare la cena: Cosce di pollo al curry.
Preparate una sola volta nella mia vita, spero di avere ancora nel cellulare gli screen della ricetta presa da internet.
L’occorrente c’è tutto. Pochi minuti e la pentola, ben coperta, già borbotta sul fuoco. Nei quarantacinque minuti di tempo che serve per la cottura potrei ancora riuscire a preparare un tè e a fare una doccia veloce, ma il micio non è dell’avviso di lasciarmi in pace.
Non si fa prendere. Scappa via ad ogni tentativo di approccio e miagola, miagola, miagola.
Rettifica della certezza numero due: forse è un po’ vero che approcciarsi a un gattino appena preso non è poi così facile.
“Guarda che, se continui così, ti riporto di  corsa dove ti ho preso”.
Una nuova sequenza di miagolii assordanti, per farmi intendere di non aver capito o che – semplicemente – se ne frega. Per un attimo mi torna in mente una scena particolare di “Io & Marley” e spero solamente di non ritrovarmi anche io a impazzire in giro per casa, gridando a tutta voce: “Sbarazziamoci di quel gatto!”.
No! Posso ancora resistere. L’odore del curry che sta invadendo la cucina è rilassante quasi quanto quello del muschio bianco che avrei dovuto annusare sotto la doccia.
Ma, sì! Il micino ha solo bisogno di abituarsi a questa sua nuova condizione. È solo questione di tempo.
Alle diciannove e trenta non riesco più ad essere lucida.
Faccio la doccia.
No! Non la faccio.
Faccio la doccia.
No! Non la faccio.
Potrei rimandare a più tardi, aspettando di non essere più sola con lui in casa.
Cerco di nuovo di afferrarlo e, stavolta, ci riesco.
Riesco a portarlo con me sul divano, anche se è difficile farlo fidare al punto da stare appoggiato sulle mie gambe.
Gli piace il cuscino rosso con i cuori bianchi e, almeno per un po’, sembra riuscire a tranquillizzarsi.
Riesco ad accarezzarlo con ritmo regolare. Niente fusa, ma… almeno, ha smesso di miagolare.
Sono dieci minuti di quiete bellissimi, prima di…
“Cos’è questa puzza?”.
Oramai parlare da sola, ad alta voce, è già abitudine.
Mi avvicino alla pentola sul fuoco con il timore di sollevare il coperchio. Silver scappa di nuovo e ricomincia a piangere.
“No! Non è possibile. Il timer non è suonato, non può essere”.
Cosce di pollo al curry… bruciate.
La chiave che gira nella serratura. Non ho il tempo di fare niente.
Silver che si affaccia dal bagno e sembra lo faccia per salutarlo. Il diavoletto che sembrava essersi impossessato di lui è sparito.
Non piange più, almeno quello è un sollievo. Continua a non farsi prendere, ma rientra nella norma.
“Come ve la siete cavata voi due?”.
“Alla grande!”, mento.
“Cos’è questa puzza?!?”.
“Hmm… niente! Tra le diverse cose da sistemare e Silver che si è fatto coccolare un po’… ho bruciato la cena”.
Guarda in pentola. Le cosce di pollo al curry hanno un aspetto pietoso.
“Che peccato!”.
“Sarà per la prossima. Che ne dici di una pizza da scongelare?”.
Ho dieci minuti di tempo per fare una doccia.

lunedì 16 ottobre 2017

Che ne pensi di Silver?!?

Quando venti minuti somigliano tantissimo a un’ora. Il mio viaggio in macchina insieme al gattino è stato così. E, mentre tornavo a casa, cercando di non far sballottare troppo il trasportino nel bagagliaio per non farlo vomitare, con i pensieri sono riuscita a creare un chiodo fisso. Il nome. Ci serve un nome. Abbiamo già acquistato lettiera, relativo occorrente, crocchette e cuscino, ma… non abbiamo ancora in mente un nome.
Ne abbiamo parlato, certo, ma senza risultato.
È sicuro che non vorrei adoperare uno dei nomi già utilizzati in passato per i gatti avuti in famiglia. Perciò… niente Tommy – che va sempre fortissimo, in caso di micio – Timmy, la cui assonanza è assolutamente troppo evidente, Mimmo, che – purtroppo – non ha avuto fortuna ed è scomparso a pochi mesi dalla nascita, Ruby, che all’epoca era voluto essere un diminutivo di Rubino e che – successivamente – avevamo dovuto adattare come diminutivo di Rubina, non sapendo ancora che i gatti a tre colori possono essere solamente femmine. Almeno, stando a quanto scritto sul libro di scienze all’epoca della seconda media.
Cosa rimane? Assai poco, in realtà. Escludendo un Ruggine, che non saprei come giustificare, Nerina e Minù suonano malissimo per un lui. Anche se adoro l’idea di un nome che arrivi da un’ispirazione Disneyana. Ora che ci penso meglio, abbiamo avuto anche una Zebry in famiglia. Trattandosi di un gatto tigrato, potrebbe andare. Ma… no! Niente nomi già utilizzati.
Questa storia dei nomi già utilizzati ci ha già messo in crisi nel nostro breve tentativo di scelta pre-affido.
Appena trasferiti abbiamo preso con noi un pesciolino rosso, battezzato immediatamente: Elvis! Due le ragioni: scoprire la passione per Elvis durante le nostre colazioni alle sei di mattina, mentre su Paramount Channel avevano deciso di trasmettere tutti i suoi film e ispirarsi alla storia di Io&Marley, dove un labrador esuberante prende il nome proprio dal famoso Bob.
Avevamo persino preparato un disegno simpatico, da appendere accanto alla porta per avvisare i visitatori di “fare attenzione al pesce!”, ma… dopo appena due mesi il nostro Elvis ha deciso di farsi trovare con la pancia all’insù e il lavoro è rimasto incompiuto in un angolo del ripostiglio.
Sì… Elvis sarebbe proprio fico, come nome!
Ho guidato per gli ultimi cinque minuti fino a casa cercando un modo per aggirare questa cosa di non voler mettere al gatto un nome già utilizzato in passato. Unico motivo trovato: lo fanno in tanti, poi… sarebbe comunque un bel modo per ricordare il nostro primissimo animaletto domestico.
Ok. Sto andando in paranoia per una stupidaggine, mentre dovrei riuscire a convincermi che al gatto non gliene potrebbe fregare di meno del dove e del perché abbiamo pescato un certo nome da affibbiargli.
Chissenefrega, dunque, Elvis può andare.
I pochi passi che separano la macchina dalla porta di casa sono quelli in cui mi sforzo di immaginare come sarà quella sorpresa.
Il fondo del trasportino è sospettosamente caldo, perciò immagino che il piccoletto debba aver fatto la pipì. Sorpresa, sorpresa! Serviranno immediatamente dei fazzolettini per pulirlo. Spero solo che non ne abbia fatta tanta da essere zuppo fin sulla testa e che il tappetino igienico messo sul fondo abbia saputo fare il suo dovere senza farlo impiastricciare. A pensarci bene, ci sarebbe da augurarsi che non abbia fatto anche altri bisogni, ma non sento odori sospetti; perciò immagino che – pipì a parte – possa andare. Vorrei tirarlo fuori di lì prima di girare la chiave nella serratura e farmelo trovare in braccio, ma -  possedendo affatto il gene di Diabolik – i miei passi pesanti mi fanno scoprire e la porta si apre all’improvviso.
Mi investe un: “Mi stavo preoccupando”, ma riesco a evitare la ramanzina sollevando il trasportino a mezz’aria con uno squillante: “Sorpresa!”. Poi, parto a macchinetta perché temo possa essersi offeso del fatto che abbia deciso io tutto quanto da sola e mi affretto a dire che è un micino troppo bello per riuscire a lasciarlo lì una notte di più.
Gli occhi che mi guardano e brillano, sopra un sorriso felice, mi confermano di non aver sbagliato.
“Vuoi provare a prenderlo in braccio?”.
Sì!
È questione di un attimo, forse anche di meno. Il secondo dopo aver aperto la porta del trasportino, siamo già in giro per casa a cercare il gattino che – al contrario di me – sembra per davvero un mago del non farsi sentire.
Oddio! Speriamo non arrivi un attacco di panico. Devo ammetterlo, quando capitano imprevisti del genere, non sono bravissima a gestire la situazione. C’è anche da dire che la mia mente aveva già prodotto un lieto fine per quella serata, che non è esattamente ciò che stavamo vivendo.
Almeno di una cosa potevamo essere certi: il gatto non può essere finito nel ripostiglio. La porta chiusa, speravamo, a patto di non ritrovarci ad avere a che fare anche con uno stregone di altissimo livello, avrebbe dovuto essere la certezza di doversi limitare a cercare il micino in camera (ho passato tutto il tempo ad augurarmi che non la scegliesse come suo primo bagno personale, prima di riuscire a preparargli la lettiera), in bagno e in quel piccolo spazio nel mezzo che voleva somigliare a una cucina, con piccola zona relax.
A ripensare ai miei venti minuti di macchina, in compagnia di una marea inutile di dilemmi per la scelta del nome, mi viene ora da ridere sapendo che un gattino appena arrivato e già chissà dove in giro per la casa, non avrebbe risposto a nessuno dei possibili; che sia Elvis, o Pinco Pallino, importa… niente. Nisba!
Quel che può servire in certi casi, invece, è sforzarsi di ragionare come un gatto. Impaurito, piccolino, in una casa nuova e insieme a persone estranee… dove sarei andata a nascondermi, fossi stata io al suo posto?!?
Il sotto del letto, pieno di scatole per ogni cambio di stagione, rimane il posto migliore dove io, fossi stata in lui, avrei scelto di sparire.
Spostate le scatole, niente micio.
Ok. Escludendo il sotto del divano per lo spazio che, almeno a vederlo, sembra troppo stretto per poterci passare e quello del mobile della cucina, grazie a un battiscopa che arriva a toccare il pavimento, rimane  il comodino della macchina del caffè, il retro del frigorifero e il sotto e il retro del mobile del microonde.
Nisba! Niente micio nemmeno da queste parti e io comincio a sentire per davvero che l’ipotesi di un attacco di panico non è poi così tanto da scartare. Cosa avrei detto alla ragazza dell’Enpa, se per caso le fosse venuto in mente di telefonare, per domandare come stessero andando i nostri primi minuti in tre?!?
Non riesco a pensarci e per poco non sbatto il cellulare contro il muro, nel tentativo di zittirlo, appena sento lo squillo di due messaggi Whattsapp. Sicuro è lei. Panico!
Adotto la tecnica della non visualizzazione, nella speranza di guadagnare tempo e di uscire da quella situazione, sempre più vicina all’incubo, il prima possibile.
Come può essere che un gattino sia in casa e riesca a farsi non vedere e non sentire in quel modo?
Cerco di ricostruire i fatti. Ho aperto la grata del trasportino, poi… niente. Per quanto mi sforzi di ricordare, non sono riuscita a vedere altro che il vuoto immediato davanti a me.
“Tu, almeno, sei riuscito a vedere da che parte è andato? Così, magari, riduciamo il raggio di azione”.
Niente.
Niente, niente, niente.
Quel gatto ce la stava facendo proprio sotto il nostro naso e, forse, se la stava anche spassando un mondo.
L’attacco di panico è alle porte, una crisi di pianto – forse – anche.
Oddio! Ho portato un gattino a casa per fare una sorpresa e l’ho già perso. Ho portato un gattino a casa e non ho la più pallida idea di dove sia finito.
La mia voce interiore è incavolata nera. Nessun biasimo.
Mi ritrovo ad aprire anche le scatole dei cambi stagione, nel dubbio che in qualche modo possa essere riuscito a infilarcisi, bravissimo, senza fare rumore, quando tre parole arrivano a salvarmi.
“Eccolo è qui!”.
“Qui dove?”
“In bagno!”.
Avevo già guardato in bagno e non c’era. Dietro la lavatrice, dietro la cesta della biancheria sporca, dietro il wc, dietro il bidet, dietro il lavandino. Niente.
Come caspita aveva fatto a trovare un posto in bagno, senza che io riuscissi a vederlo?!?
Corro e lo trovo schiacciato tra un pacco di carta igienica e il secondo ripiano del piccolo scaffale dove teniamo saponi, shampoo e affini.
Come mai gli sarà venuto in mente di infilarsi proprio lì? Come ho fatto a non vederlo? Nel cercare di rispondere a queste domande, mi rendo conto che non è nemmeno dei colori giusti per mimetizzarsi.
Poi ripenso a tutte le volte in cui mi è capitato di cercare il cellulare, una penna, il termometro, la calcolatrice, un paio di forbici, la spillatrice, una spazzola, un paio di scarpe, ecc… ecc… ecc… senza vedere che ce li avevo proprio davanti al naso. Il classico, uggiosissimo, si vede solo ciò che si vuol vedere. Ripenso anche a quella volta in cui stavo cercando gli occhiali da vista e, chissà come, non mi ero resa conto di averli già indosso. Gli strani giri della mia mente.
Scoppio a ridere. È una risata liberatoria. “Coraggio! Prendilo e vediamo cosa fa in braccio a te”.
Il gattino si lascia sottrarre dal suo nascondiglio, ma ha l’aria tipica di chi è spaventato a morte.
Ok. Ha solo bisogno di tempo. Abbiamo solo bisogno di tempo. Perché è una novità e, forse, non sarà facile, tanto quanto avevo pensato.
“Per il nome ho pensato che…”.
Sto per dire di aver scelto Elvis, così da poter cominciare immediatamente ad abituare il micino al suo di quella parola tutta per lui, quando vengo anticipata: “Che ne pensi di Silver?!?”.
Silver.
Argento.
Intuisco immediatamente da dove possa essere arrivata l’ispirazione e mi stupisco di non averci pensato prima.
La prima foto inviata dalla ragazza dell’Enpa ci consentiva a malapena di scorgere il piccoletto in mezzo agli altri gatti, ma la descrizione diceva: ‘è un bellissimo gattino argento, abbandonato da due settimane e per questo un po’ diffidente’. Mi aveva persino colpito l’uso di quella parola, per descrivere un comunissimo gatto tigrato di un bel grigio, ma non era scattato niente che potesse essere d’ispirazione per la ricerca di un nome.
Silver. Mi piace. Ha un suono semplice e adatto al caso.
“Benvenuto nella tua nuova casa, Silver!”, dico allungando una mano per fargli una carezza.
L’attimo dopo è di nuovo schizzato via per tornare al suo adorato pacco di carta igienica.
Ho capito. Sarà difficile schiodarlo di lì. Nel tentativo di riuscirci, però, proviamo comunque ad allestire un invitante angolo relax tutto per lui. Prima o poi, dovrà pur uscire di lì. Le coccole, tutti seduti sul divano, sono ancora da rimandare. Mi decido a visualizzare e a rispondere al messaggio della ragazza Enpa. “È tutto a posto, grazie! Il micino ha già fatto il giro di tutta la casa e ora sta riposando un po’. Abbiamo deciso di chiamarlo Silver”. Magari, quando saremo di nuovo di persona, gli racconterò di quei nostri primi trenta minuti fra le quattro mura, stasera no. Comincia a essere tardi, sarà meglio mettersi all’opera per la cena.


lunedì 9 ottobre 2017

I pesci non fanno MIAO!

Nove, meno due, sette. Sono già passati sette giorni. Ore 19.30. Sono sette giorni esatti. Mi sforzo di ricordare com’è che tutto è cominciato. È stato più di sette giorni fa. Seduti sul divano, guardando un film in dvd appena noleggiato e non particolarmente interessante, ci siamo lasciati distrarre dal rumore di sassolini che si muovevano sul fondo del piccolo acquario a palla che abbiamo in casa. Non potendo trattarsi di una lotta per il cibo, ho provato ad immaginare che i nostri due pesciolini stessero improvvisando una sorta di danza subacquea. Mai sentito parlare di qualcosa del genere; però.
Ad ogni modo, è stato il rumore dei sassolini sul fondo dell’acquario a farci sentire la mancanza di qualcosa di più. Per quanto possa essere bello, un pesce rimane pur sempre un pesce e… beh! Dopo cinque minuti che lo osservi nuotare per i fatti suoi, ne hai già abbastanza e il desiderio di un po’ di ‘compagnia non-umana’ rimane intatto lì dov’è, da qualche parte in mezzo ad altri pensieri e – perché no! – in un piccolo angolino di cuore.
«Perché non prendiamo un gatto?».
Non mi strozzo con il tè alla cannella solo perché sono riuscita ad ingoiare un attimo prima di arrivare a quell’interrogativo.
«Un gatto?!?». Stento a capire se l’ho urlato, oppure no.
Con gli occhi sgranati per la sorpresa aggiungo anche: «E dove caspita pensi che potremmo metterlo un gatto? In questa casa entriamo a malapena noi due!».
Ok. I pesci erano stati un mio desiderio, ancor prima di girare la chiave di casa nella serratura per la prima volta. Anche la chiocciola africana (si rimandano ad altri post ulteriori delucidazioni in merito), che – con la sua piccola scatola trasparente – è arrivata a tenerci compagnia appena un mese fa è stata, per così dire, il coronamento di un sogno di bambina. Stando alle regole della buona convivenza, se adesso lui si fa avanti con il desiderio di avere un gatto… a rigor di logica… trattandosi di una democrazia e non di altro… no! Non posso oppormi.
Insomma… so di non potermi opporre, ma provo comunque a dissuadere. E riesco a tener testa al discorso con le mie argomentazioni per un po’, fino a che non lo vedo armeggiare con il cellulare in cerca della pagina Facebook dell’Enpa e – di fronte ad una carrellata di fotografie di cucciolini incantevoli – non mi rimane altro da fare che gettare la spugna ed accettare.
Penso di avere almeno un po’ di tempo per abituarmi all’idea e per organizzare la casa il minimo indispensabile.
Nisba.
Nel sabato libero, in un casuale giro per negozi, a un certo punto mi ritrovo a spingere un carrello con dentro una lettiera, un sacco di crocchette per gatto, un sacco di cristalli di silicio per i bisogni del micio e un cuscino morbido quanto un peluche.
La sera sono con il telefono in mano pronta a contattare una delle volontarie Enpa. Gentilissima, mi accorda la possibilità di incontrarci il lunedì.
2 ottobre 2017. Ore 19.
Sono appena uscita dal lavoro e mi sbrigo a seguire con la macchina le indicazioni ricevute. Quando arrivo a destinazione è come arrivare in una scena de “La Carica dei 101”, a parte il fatto che quelli davanti a me non sono quattro zampe di razza canina e non hanno il manto bianco a macchie nere. Non sono nemmeno 101, a voler essere onesti. Ma l’effetto “Carica” è più o meno lo stesso.
Chissà dove è il micino di cui mi hanno parlato? Dalle foto ricevute non ho potuto vederlo bene, perciò è come essere lì per un incontro al buio. Per quanto mi sforzi di cercare, gli occhi non fanno che imbattersi in gatti ormai adulti. Fino a che vedo qualcosa muoversi tra i rami di una pianta in vaso a foglie larghe. Eccolo. È lui.
Mi dicono che è molto diffidente, poiché è stato abbandonato da poco, ma la cosa non mi spaventa. Non cerco nemmeno di afferrarlo da sola e lascio che ci pensi la ragazza che è con me a farci conoscere.
«Se decidi di prendere lui, possiamo provare ad abituarlo alla vita domestica per un po’, prima di consegnartelo», mi dice con il sorriso di chi – immagino – ha già capito che per gli altri mici non ci sarà partita.
Provo ad allungare le mani e lo afferro per appoggiarmelo addosso. Ha la coda ben nascosta, ma non sta tremando. Anzi, stando alle parole della responsabile Enpa, sembra stranissimo il fatto che si fidi di me al punto da non sentire l’esigenza di graffiarmi e scappare via.
«Ok! Visto che sembrate aver già fatto amicizia, se vuoi lasciamo perdere con i giorni di addestramento alla vita domestica e te lo lasciamo portare via subito».
Non. Posso. Crederci.
«Non ho niente con me», dico un po’ balbettando. Ma questo non sembra fermarla nel raggiungimento di quel lieto fine che la sua mente deve aver già elaborato.
«Ho un trasportino a disposizione, se vuoi te lo presto e me lo riporti con calma. Però, non devi sentirti obbligata a prenderlo stasera».
Obbligata. No! Nessun obbligo addosso.
Certo, non è come me l’ero immaginata io. Avevo pensato di scattare una fotografia e di tornare con calma in due a prenderlo, ma… Ok. Può andare lo stesso, ne sono sicura.
Sollevo il gattino a mezz’aria per guardarlo negli occhi e domando: «Che ne dici, gli facciamo una sorpresa?».
Solleva gli occhi al cielo e potrebbe essere un accenno di esasperazione, ma… potrebbe anche darsi che voglia dire: sì.
Vada per il sì!

«Lo prendo!».


martedì 26 settembre 2017

La musica fa crescere i pomodori

Ho incontrato il libro per caso. Non ero entrata in libreria per lui e non era proprio ciò che stavo cercando.
Come in una lunga passeggiata per stradine di campagna, dove il più delle volte ci si ritrova a camminare con l’unica compagnia della propria solitudine e può capitare di incontrare qualcuno giusto appena ad un passo dal tornare a casa, ho incontrato il libro quando già ero certa che – nonostante il girovagare per gli scaffali della libreria – per quel giorno non sarei uscita di lì con un sacchetto di carta in mano; pieno di tesori d’inchiostro.
È stato un incontro strano. Non di quelli che si possono definire ‘amore a prima vista’. Nella prima occasione in cui i miei occhi si sono poggiati sulla copertina, devo ammettere di aver distolto alla svelta lo sguardo e di aver continuato a cercare, cercare e cercare altrove. Possibile che tra le miriadi di storie d’amore che vengono pubblicate ogni giorno non ce ne fosse una lì, ancora tutta da scoprire, che facesse al caso mio?
Mi sono persino sforzata di ricordare i titoli dei libri visti in qua e in là su Facebook, ma niente da fare.
Ero già certa che me ne sarei andata con la promessa di inviare tramite mail la mia lista di desideri, come già tante altre volte è successo, quando mi ritrovo di nuovo a fissare quella copertina.
No! Non è il mio genere. Non amo proprio i libri autobiografici, le biografie in genere o – comunque – quelle pubblicazioni che nascono per voler raccontare parti della propria vita più o meno interessanti, o periodi più o meno lunghi di intensa attività professionale; se si è un personaggio noto o famoso; che dir si voglia.
Proprio, no! Non amo…
Mentre il pensiero cerca di convincermi per la seconda volta che non è proprio una tragedia uscire di lì a mani vuote  e che – sbrigativamente parlando – sarà per la prossima, ho già il libro sconosciuto in mano e i miei occhi stanno scorrendo velocemente il retro di copertina.

“La musica non è solo stimolo cerebrale. La musica ha la capacità di entrare nel fondo di noi. Può parlare alle nostre cellule e con una parte di noi che non conosciamo”.

Interessante. Rigiro il libro e sorrido, finalmente, a quel viso conosciuto.


La musica fa crescere i pomodori.
Non c’è da avere dubbi sul fatto che il titolo sia accattivante. La curiosità mi spinge a domandarmi chissà quale sarà il sapore di un pomodoro cresciuto a suon di musica. Mi sforzo di spingere l’immaginazione un po’ più in là, ma niente da fare. Come unico risultato ottengo quello di immaginare un pomodoro con le cuffie addosso che si muove, in un inesperto tentativo di ballo, seguendo un ritmo noto solo a lui e scoppio a ridere – da sola – scatenando perplessità (spero non seria) nel papà che è appena entrato in negozio e che ha appena fatto in tempo a poggiare tutti e due i piedi sul pavimento in legno, che già chiede se per caso la libreria sia fornita di dizionari per il suo piccolo scolaro; che gli sta attaccato alle gambe e che, intuisco, sarebbe di gran lunga più entusiasta se – magari – quella visita in libreria potesse anche comprendere una piccola sosta davanti allo scaffale di libri per ragazzi, che è poco lontano.
Ma torniamo a noi.
Musica e pomodori. Un libro che parla di come Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si, Do e compagnia bella siano entrate a far parte della vita di Peppe Vessicchio e vi siano rimaste per una lunga, bellissima, piacevole, immortale storia d’amore.
Ok. Lo ammetto. Rientro in quella vastissima cerchia di persone che, ad ogni Festival di San Remo, prima si ripromette di non interessarsene, perché tanto – poi – se ne potrà avere abbastanza alla radio, poi alla sera della prima si piazza davanti al televisore con la speranza di non crollare per il sonno troppo presto e – nel fermento delle esibizioni – si ritrova a sorridere ogni volta che il presentatore di turno pronuncia le parole: “Dirige l’orchestra il maestro Peppe Vessicchio”.
Ecco. Forse è per questo che il suo libro è stato in grado di attirarmi. Il motivo per cui, questo parlare di sé, è riuscito a vincere – rispetto a tutti gli altri – e a fare breccia nella mia curiosità e nel mio interesse.
Fosse stato un romanzo d’amore mi sarei sbrigata a leggere le ultime righe della storia, giusto per essere certa di non ricevere una  fregatura e di non ritrovarmi in lacrime, a un certo punto. (sì, lo so! Atteggiamento strano, da parte mia).
Nel caso specifico, ho optato per un più tradizionale: “Vediamo un po’ di che parla”, partendo dall’inizio.

“Io di qua, lei di là. Quando ci siamo conosciuti, fra me e la musica c’erano una porta chiusa, una maniglia e una serratura”.

Sarebbe già potuto bastare. Ero più che sicura.

“Ogni suono che vibra produce una fascinazione, guardate cosa diventano gli occhi dei bambini dinnanzi a un mazzo di chiavi che tintinna, sospeso nell’aria. È quella la prima magia a cui gli pare di assistere”.

Ok. Ok. Ok. Dubbi zero. L’impressione è quella di essere seduti al tavolo di un piccolo locale accogliente, aspettando che arrivi il cameriere con i bicchieri ordinati e già parlando piacevolmente di tanta meraviglia.
Leggere questo libro è stato ascoltare un lungo, bellissimo racconto.
È stato scoprire cose che non conoscevo e sorprendersi di come, nonostante la competenza in materia, il maestro Vessicchio, con l’ausilio di Angelo Carotenuto, abbia saputo raccontarle in maniera semplice e accessibile a tutti. È stato un viaggio in un mondo che tocca costantemente il mio, attraverso gli strumenti di cui tutti disponiamo: la radio, la televisione, il lettore mp3, YouTube, un link trovato su Facebook, la suoneria di un cellulare che, inaspettatamente, ti arriva alle orecchie mentre sei al supermercato a fare la spesa e sei un po’ nervosa perché non trovi il tuo solito shampoo.
È stato un viaggio. Sono arrivata all’ultima pagina con dispiacere. Sono rimasta a fissare quel retro di copertina che si richiudeva domandandomi: “Chissà se quest’anno il maestro sarà a San Remo?”.
Poi sono uscita di casa e sono andata a comprare una raccolta musicale di Mozart. Pare che le sue opere diano risultati sorprendenti sulla crescita di pomodori e ortaggi in genere e che siano particolarmente in grado di parlare all’animo umano per quietarlo, all’occorrenza. Non ho dubbi. Voglio provare!

Alla prossima.

mercoledì 23 agosto 2017

Il primo appuntamento può aspettare

"Vale, ma... a te piacerebbe cenare qui per un primo appuntamento?".
Smetto di masticare e mi blocco per ascoltare la risposta. All'inizio stento a capire il senso della domanda.
Silenzio.
Con la coda dell'occhio riesco a vedere il tavolo vicino. Una botte con sopra un disco di legno marrone scuro, per l'esattezza.
Sono in tre. Due ragazzi e una ragazza. Intuisco possa trattarsi, allora, di una richiesta di aiuto.
"Preferiresti una cena a base di pesce?". Arriccio le labbra, in una smorfia istintiva di disappunto. Tra hamburger e patatine e un piatto al sapore di mare... hamburger e patatine tutta la vita. Io. Tra un pub in stile irlandese e un ristorante con le salviettine al profumo di limone... pub tutta la vita. Io.
Vale continua a tacere. Forse non conosce la ragazza in questione e, per questo, le riesce difficile consigliare. Per me sarebbe troppo complicato e insolito intervenire.
"Di quelli sul lungomare, quale sarebbe - secondo te - lo chalet migliore?".
La cena a base di pesce immagino stia vincendo. Mi domando il perché.
Guardo il mio bicchiere di birra ancora pieno, le olive ascolane appena arrivate e caldissime. Ascolto la musica alle casse.
Mah, sì! Una cena in un pub sul lungomare sarebbe persino qualcosa di originale.
Io: pub tutta la vita.
Loro: preferiscono mettersi a parlare del liceo che sta per ricominciare.
Il primo appuntamento può aspettare.