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recita: “Cento giorni di felicità è il primo romanzo di Fausto Brizzi, il quinto libro che ha pubblicato
considerando anche i romanzi che ha tratto dai suoi film”.
Per quello che mi riguarda, è il primo libro di Brizzi letto.
Lo so. Sono una ritardataria. E lo sono con tutta la consapevolezza di
esserlo, non solo perché non ho idea di come siano strutturati i quattro libri
che hanno preceduto questo capolavoro, ma soprattutto perché mi sono ritrovata
a iniziare la lettura di questo quinto appena qualche settimana fa.
L’anno di pubblicazione è il 2013. Certo, devo ammettere di non aver
avuto un approccio nemmeno lontanamente tempestivo. Anche nel riparare al fatto
di non aver mai letto prima qualcosa di suo, ho avuto i miei bei lunghi tempi
da superare.
Una cosa da tenere in considerazione, però, c’è. O, almeno, io spero che
ci sia e che riesca a giustificarmi un po’. Cento giorni di felicità
di Fausto Brizzi è un libro che
risiede sul primo scaffale della mia libreria dà più di 730 giorni (alias due
anni); ormai.
L’ho acquistato con lo stesso spirito ottimista con cui ogni volta entro
in libreria. Senza considerare mai la mole di parole che a casa mi accoglie
ogni sera e in ogni momento libero e con l’allegra convinzione che, stavolta è
la volta buona!, sarebbe stato diverso. Eh! Si dice sempre così.
Da lettrice appassionata quale ritengo di essere, nonostante altri
impegni non mi consentano sempre di esserlo esattamente come e quanto vorrei,
sapere che in un dato momento, di un certo anno, c’è un libro sulla cresta
dell’onda, è come per le api sapere che, a pochi metri di distanza dall’alveare,
c’è un prato fiorito e ricco di nettare.
Insomma, le buone intenzioni iniziali c’erano tutte. Peccato, poi, che
siano arrivati subito altri pensieri a dare il via alla procrastinazione. Una
parola che, permettetemi di fare un inciso, comincio a odiare in maniera quasi
viscerale.
Mentre sul web continuavo a interessarmi a qualunque cosa
riguardasse questi ‘Cento giorni’, ho cominciato a temere che potesse non essere
una lettura adatta a me. Certa di non svelare nulla a chi sta leggendo, la
scrivo esattamente come l’ho pensata: “Lucio Battistini ha il cancro e questo
cancro lo sta per uccidere. Poco importa che lui lo chiami ‘Amico Fritz’,
sempre di cancro si sta parlando. Vuoi veramente leggere un libro che racconta
la storia di un malato di cancro? Come andrà a finire per il tuo stomaco? E
come la mettiamo, poi, con la gastrite nervosa?”. Considerando che reggo a
malapena le notizie di un telegiornale e che non di rado, perdonate
l’ammissione di inadeguatezza a questo mondo, mi ritrovo a girare canale per
non dover sentire, un tot considerevole di pagine che, per forza di cose, mi
costringerebbe a entrare in empatia con un morituro (aggettivo calzante,
utilizzato dallo stesso Battistini in riferimento a se stesso) potrebbe non
essere una buona idea.
La prima volta che l’ho incontrato in libreria, l’ho sfogliato per un
po’ e l’ho rimesso a posto sullo scaffale. Tra le libertà di un lettore c’è
quella di scegliere. Sceglievo di non affrontare. Anche se una frase sul retro della copertina è comunque riuscita a rimanermi addosso: “L’unico rimpianto è aver dovuto scoprire di morire, per cominciare a vivere”.
Una settimana dopo, a seguito di nuovi incontri casuali con citazioni
dalla storia, sono tornata in libreria e l’ho acquistato. Avessi trovato anche
il coraggio di aprirlo, questo Post sarei riuscita a scriverlo nel già lontano
2013.
No! ‘Cento giorni’ è rimasto a fissarmi nella mia quotidianità,
sopportando con pazienza l’attenzione data ad altri volumi, per un tempo che
risulterebbe insopportabile per qualsiasi essere umano.
Come ha fatto a convincermi che fosse giunto il momento di un tête-à-tête? Tirando in ballo uno dei
diritti di un libro: quello di essere letto!
“Almeno provaci! Se proprio non ci riesci, vorrà dire che farai un passo
indietro e lo lascerai perdere”. È un mantra personale, che da un po’ di tempo
a questa parte accompagna le mie giornate. Poche parole, che mi spronano a entrare in azione.
Potrei dirvi che il resto di questa particolare ‘amicizia’ è facilmente
immaginabile, ma lasciate comunque che ve lo racconti. Cercherò di essere
breve.
A un ritmo di venticinque-trenta pagine per sera (peccato non riuscire a
resistere al sonno un po’ di più e avere la sveglia che suona la mattina sempre
troppo presto), ‘Cento giorni’ è riuscito a tenermi compagnia per due settimane
circa. Un libro che è un countdown carico di vita, contrariamente a quanto si
possa pensare. Un insegnamento a ogni riga. Leggerezza, nello scrivere di una
‘questione’ seria. Un’esplosione di emozioni. Come un fuoco d’artificio di
mille colori. Ho sorriso, ho riso di gusto, ho sentito le parole lette rimanere
attaccate ai pensieri e non volersene andare, non sono mancate le strette allo
stomaco che immaginavo avrei dovuto affrontare. Con una maestria narrativa non
facile da trovare, Brizzi ha saputo sorprendermi. E quel libro tanto temuto,
acquistato per poi essere ignorato per tantissimo tempo, ha saputo diventare
esperienza indimenticabile. Ho sofferto. Come se Lucio fosse un amico vero,
come se Lucio fosse uno di famiglia. Ho sperato fino alla fine di leggere un
‘ho sconfitto il male’, ma niente da fare. Del resto, Lucio lo aveva anticipato
già alle prime pagine: “Era una domenica inutile e tropicale, durante la quale
non successe niente degno di nota. Se escludiamo il fatto che alle 13.27 circa
ho preso un bel respiro e sono morto”. Ho sperato comunque in un colpo di scena.
Ho sperato si fosse trattato di una bugia, detta per stupire sul finale con effetti speciali.
Invece, no! Lucio è morto per davvero.
Allora ho pianto, fino a farmi venire il singhiozzo. Ho faticato a
razionalizzare il fatto di stare solo leggendo un libro. Lo
stomaco mi ha torturata.
L’attimo dopo è stato semplicissimo pensare a quel libro, come a un buonissimo
libro. Raro. Come sono rari quelli che sanno scuotere fin nel profondo
dell’anima.
Una volta chiuso per non riaprirlo, l’ho rimesso al posto che aveva sul
primo scaffale della libreria. L’ho guardato per la prima volta, senza temerlo
più. Ero già pronta ad afferrare la lettura successiva quando, mentre con la
mente mi stavo imponendo di scegliere un lieto fine, mi sono ritrovata a
domandarmi: “Sono proprio sicura, sicura, che ‘lui’ non ce lo abbia avuto?”.
Ok. Lucio è morto, su questo non si discute. Ma rimane vero anche che
Lucio è riuscito a vivere i suoi ultimi ‘Cento giorni’ dando loro un senso. Facendoli
diventare: “Cento giorni di felicità”.
Mi ricordo allora di quella pagina che ho contrassegnato con un’orecchietta,
per non perderla di vista (lo so, atteggiamento atroce nei confronti di un
libro). Riprendo il libro. Lo riapro.
“Quanti sono i giorni che ricordate bene della vostra vita? Quelli
speciali che potreste raccontare anche a tanti anni di distanza. E quanti sono
invece quelli normali in cui non accade
niente degno di nota e che scivolano via anonimi? I secondi sono molti di più.
Mi accorgo che ricordo soltanto un centinaio di giornate memorabili, a fronte
di oltre 14.000 invisibili. Esco dall’ospedale con un pensiero fisso. Voglio che
oggi sia un giorno da mettere al fianco dei tre che vi ho raccontato all’inizio
di questa storia. […] È stato un campanello d’allarme sovrannaturale: «Ehi
Lucio, tu credi di dominare il tuo destino e di avere ancora quaranta giorni di
vita, ma non è detto che sarà così».
Procrastinazione. Ho detto di odiare questa parola (e il concetto che
rappresenta) in maniera quasi viscerale. Ora mi accorgo che
è per una ragione ben precisa. Per quel ‘non è detto che sarà così’.
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Non collezionare rimpianti.
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Quelli che trasformano giornate normali in giornate speciali.
Vivere, prima di morire. :-D
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