“Stefano ha lasciato
questo per te alla reception. Ha detto di non potersi fermare, che andava di
fretta”.
Non so se il sorriso di
Anna, la mia collega, sia più benevolo per la bellissima sorpresa che Stefano
mi ha fatto, o più invidioso perché – fino a prova contraria – la bellissima sorpresa consiste in un bellissimo mazzo di rose rosse.
“Ah! Qualora ti interessi
e senza farti perdere tempo per una sciocchezza del genere, sono venticinque…
le ho contate personalmente”. È invidia, decisamente.
Non avrei mai detto che
Anna potesse arrivare a essere invidiosa di qualcuno, tanto meno di me. Lei che
è la perfezione fatta donna. Che sta benissimo con i tacchi ai piedi e il
rossetto rosso alle labbra anche con trentanove di febbre (giuro, non lo dico
per dire… ho le prove). Lei che non becchi mai con un capello fuori posto,
nemmeno in quelle giornate in cui il vento sembra avercela a morte con tutti e
diventa il peggior nemico dei parrucchieri e della acconciature fresche di
fattura. No… non può essere invidiosa.
Cerco di ignorare la
stretta allo stomaco che, immancabilmente, arriva a torturarmi ogni volta che
mi ritrovo ad avere a che fare con atteggiamenti che detesto e, sfoggiando il
mio sorriso migliore (i miei denti sono pure freschi di pulizia dal dentista e
non ho ancora bevuto caffè, quindi deve per forza essere bellissimo) afferro
con decisione il mio regalo floreale.
Stefano è il mio
migliore amico. Ci conosciamo da una vita e ci siamo sempre supportati,
crescendo.
Arrivati entrambi alla
soglia dei trent’anni, devo ammettere che… è la primissima volta che mi regala
dei fiori. Non che la cosa mi imbarazzi. Solo… sono stupita.
Da aspirante poeta,
quale ritiene di essere, Stefano ha un animo romantico e nobile. Eppure…
innumerevoli scatole di cioccolatini a parte (di Baci, perlopiù, che sono in assoluto i miei cioccolatini preferiti)
e centinaia e centinaia di fogli con su scritte le poesie che un giorno (dice!)
avrà il coraggio di mettere tutte insieme e di pubblicare, non l’ho mai sentito
nominare i fiori pensando a un qualunque regalo, per me o per altri, nemmeno
per sbaglio.
Cerco fra le rose un
biglietto, sicurissima che non possa proprio mancare. Eppure… guardato dietro a
ogni petalo, dietro a ogni foglia e accanto a ogni gambo di quelle meravigliose
venticinque rose… niente. Nemmeno un’etichetta che lasci intendere il negozio
di provenienza. Niente di niente.
“Certo che è strano…”.
Anna è magicamente riapparsa di fronte a me e stringe in mano due tazze colme
di un caffè. Mi sono sempre chiesta perché, pur essendo in Italia, precisamente
a Gubbio, una piccola realtà nel cuore verde del Paese, in ufficio beviamo
tutti caffè all’americana e anzi andiamo orgogliosissimi della nostra
caffettiera nuova di zecca. Personalmente, lo trovo troppo lungo, insipido e
stancante da sorseggiare, ma… per quieto vivere, diciamo che mi sono adeguata.
Se ci riducessimo a discutere per un caffè, come si andrebbe a finire per le
cose davvero importanti?
“Cos’è che non ti
torna, di preciso?”. Afferro la mia tazza e rimango a fissare Anna, fino a che
non si decide di degnarmi di una risposta.
“Non lo so… Stefano è
passato di persona, non capisco perché abbia preferito lasciare i fiori alla
reception, piuttosto che portarteli”.
Mi stringo nelle
spalle. In effetti, nemmeno io so spiegarmi il perché di un atteggiamento tanto
strano.
“Eh! Ce l’avesse Paolo,
un pensiero tanto carino… in un giorno qualunque!”.
Sono del parere che
Anna si lamenti sempre del brodo grasso e che Paolo, che lei ammonisce in
continuazione, vattelapesca per quale ragione, sia un uomo eccezionale e un
marito molto, molto premuroso. Sto per rispondere che non ha motivo di sentirsi
trascurata, ma il rumore del cellulare, che vibrando si sposta leggermente
sopra al piano della scrivania, mi blocca i pensieri e le parole.
È un sms. È Stefano. Spero che le rose ti siano piaciute... Niente
di più. Rispondo di sì e lo ringrazio tantissimo. Allora… Che ne diresti di cenare insieme, stasera? Proviamo il sushi al San
Benedetto? Rispondo ancora di sì. Anche se… che strano. Stefano ha sempre
proposto cene a base di hamburger per le nostre uscite e solo una volta, una
soltanto, sono riuscita a corromperlo con un kebab piccante. Il sushi,
nonostante le insistenze, non c’è mai stato verso di farglielo andare giù. Lui
ama poco il pesce in generale, a meno che non si tratti di graziosi pesciolini
che sguazzano dentro a un acquario. In particolare, detesta con tutto sé stesso
l’idea di ingoiare pesce crudo.
Comincio ad avere il
dubbio che possa aver battuto la testa da qualche parte stamattina e che possa
non ricordare più chi è, in realtà. Cosa si dovrebbe fare, in questi casi? Sono
seriamente tentata di attaccarmi al telefono e di provare a rintracciare nel
minor tempo possibile il migliore psichiatra della zona. Certo, potrei anche
limitarmi a chiedergli se va tutto bene... invece di rimanere con il dubbio.
Andata! Scrivo veloce il
messaggio e lo invio, prima che il mio dovere di addetta alla contabilità in un
pizzosissimo ufficio, di una pizzosissima azienda di servizi, mi chiami e mi
tenga occupata per le prossime quattro ore, fino alla pausa pranzo.
Anche Stefano, che
nella vita di tutti i giorni è un insegnante, deve essere rimasto impegnato con
i suoi ragazzi per tutta la mattinata, perché la risposta alla mia domanda
preoccupata arriva solo dopo il suono della campanella delle tredici e venti.
Sì,
tutto ok… non preoccuparti! Ci vediamo questa sera alle otto e mezza. Puntuali!
Sorrido del messaggio
in generale e di quell’ultima precisazione, in particolare. Dei due, sono io
quella che fa sempre a botte con l’orologio. È più forte di me. Sono fermamente
convinta che il tempo sia qualcosa che mi rema contro.
Oddio! Certo, certo… il
tempo rema un po’ contro a tutti, ma… credo di non sbagliare affermando che: a
me, di più! Per quanto io mi impegni a rimettere la sveglia all’ora giusta, non
un minuto dopo per poter dormire di più, per quanto io cerchi di prendere ‘per
tempo’ qualunque impegno (previsto o improvviso che sia) che ogni giornata ha
da affidarmi, non c’è verso che le lancette giochino almeno una volta a mio
favore. Al lavoro è un miracolo ogni volta che riesco a timbrare l’entrata con
soli sessanta secondi di ritardo rispetto agli altri e, in generale, è ormai
risaputo da chiunque voglia avere a che fare con me che: io sono un po’ come le
lezioni dell’università, ho bisogno del mio buon quarto d’ora accademico, prima
di cominciare qualunque cosa io abbia in programma di fare.
Quindi, non mi stupirei
affatto se Stefano avesse già messo in conto di rimanere a battere i denti
fuori del ristorante per quindici minuti buoni, ma… cercherò comunque di
stupirlo arrivando puntuale.
Otto
e mezza… puntuali! J Invio il messaggio, finisco il panino
al prosciutto cotto e maionese che avevo portato per pranzo, bevo la mia
lattina di thé al limone fino all’ultimo goccio e provo a marciare svelta fino
alla scrivania.
Già so che dovrò lottare
con la mia mente, perché rimanga concentrata sul lavoro da portare a termine
entro la fine della giornata, invece di distrarsi pensando a cosa indossare
stasera per l’occasione. Ma, cosa posso farci…
In compenso, sarò salva
dai commenti di Anna e dal possibile, triste battibecco che ne sarebbe nato.
Lei detesta il mio modo di vestire e sono sicura che, non fosse per il fatto di
non essere più al lavoro insieme a me, per aver chiesto mezza giornata di ferie
da più di quindici giorni, avrebbe provato a convincermi a cambiare anche
stavolta.
Che posso farci, se
adoro i jeans e se penso che possano essere indossati in qualunque occasione;
escludendo i matrimoni.
Già mi immagino dentro a
quelli decorati con strass sui fianchi, che non ho avuto modo di sfoggiare il
venerdì passato e penso che la maglia dolcevita verde di cashmere che mi hanno
regalato a novembre per il compleanno possa proprio essere l’abbinamento
perfetto. Aspetterò di essere di fronte allo specchio, per gli accessori. Non
esco mai senza aver indossato prima i giusti accessori, è più forte di me.
“Chiara potresti
raggiungerci in sala riunioni, per favore?”.
Oddio! Spero di non
averne combinata qualcuna delle mie o… che non sia arrivato del lavoro da
sbrigare all’ultimo minuto, che mi costringa a rimanere in ufficio fino a
tardi. L’ultima volta che mi è capitato di essere chiamata in sala riunioni di
venerdì pomeriggio, poi con Anna c’è toccato fare le nove della sera al lavoro.
Come non detto. L’ho
sempre saputo di essere un asso in fatto di speranze infrante. Per via di un cliente
che ha richiesto una consulenza finanziaria dell’ultimo minuto, mi tocca
lavorare oltre l’orario.
Non mi rimane che
sperare di riuscire almeno a non andare oltre alle otto. Ho un appuntamento
alle otto e trenta e devo essere puntuale!
Cerco di impegnarmi,
fino a raggiungere quasi lo stremo delle forze. Il cliente non è facilissimo da
soddisfare e – in confidenza – non sto nemmeno capendo il perché di alcune sue
richieste, ma… quando l’orologio digitale appeso sulla grande parete bianca
della sala riunioni arriva a segnare le sette e quarantacinque della sera,
abbiamo finito.
Ho un quarto d’ora e
poco più a disposizione per tornare a casa, per farmi una doccia al volo, per
vestirmi in maniera altrettanto rapida e per darmi una sistemata con il trucco
davanti allo specchio. Non c’è più il tempo per la scelta nel dettaglio degli
accessori, ma almeno una spolverata di fard che dia un po’ di colore alle
guance deve esserci. Quando sono stanca, e dopo più di nove ore di lavoro lo
sono per forza, comincio a somigliare a un fantasma, per il pallore.
Otto e dieci. In bagno
e con la spazzola ancora in mano per un ultima sistemata ai capelli, sono in
leggero ritardo sulla tabella di marcia. Correre. Correre. Correre.
Ci manca poco che mi
scapicolli giù per le scale, ma ce la faccio comunque ad arrivare sana e salva
al cappotto appeso all’appendiabiti. Afferro le chiavi della macchina e la
borsa e mi precipito fuori della porta. Se non riesco ad arrivare puntuale
nemmeno oggi che Stefano me lo ha chiesto a chiare lettere, me lo sento che mi
ammazza.
Per le strade la
situazione non è mai insopportabile durante il resto dell’anno, ma a dicembre
le corse dell’ultima ora al regalo e le uscite in massa dai negozi e dai centri
commerciali, riescono ad annullare anche la quiete del traffico.
Quando passo davanti al
ristorante, sono già le otto e trenta. Stefano è già arrivato e io devo ancora
parcheggiare. Anche se non è di buon costume, allora, suono il clacson nella
speranza che si giri verso di me e che mi veda salutarlo. Ma, niente da fare. Non
mi rimane che inviargli un messaggio.
Sto
arrivando! Non mi hai vista passare, ma sono incastrata nel traffico J
Mi immagino Stefano
scoppiare a ridere, convinto che sia una scusa. L’unico modo che ho per
smentire la sua tesi è presentarmi di fronte a lui il prima possibile.
Quando riesco a
spegnere il motore, il cellulare segna le otto e quaranta. Ho consumato quasi del
tutto il mio quarto d’ora accademico, devo sbrigarmi.
Pure con il fiatone e
con i capelli che non hanno più un verso, riesco a essere di fronte a Stefano alle
otto e quarantacinque.
“Ciao, scusami per il
ritardo! Ti giuro che ce l’ho messa veramente tutta per essere qui puntuale,
ma… io e la puntualità si vede che non siamo fatte proprio l’una per l’altra”.
Stefano non risponde.
Mi guarda soltanto e allunga una mano chiusa a pugno verso di me. Oddio… vuole
rifilarmi un cazzotto.
Sto per chiudere gli
occhi. Cerco di ignorare il timore di non riuscire a evitare il colpo. Ma… che
è impazzito?
Il cuore, nel petto, lo
sento battere fortissimo. L’istinto mi porta ad allontanarmi di un passo.
“Ma… che ti prende, si
può sapere?”.
Le sue dita si
schiudono all’improvviso e un golosissimo bacio appare davanti ai miei occhi.
La mia bocca si spalanca fino all'inverosimile. Guardo il cioccolatino e guardo
Stefano che, invece, continua a guardare me.
Non dice una parola.
Non batte ciglio. Per un attimo ho perfino il dubbio che stia continuando a
respirare. Giusto un attimo, però. Perché poi, prima che io riesca a
riprendermi dallo stupore e riesca a mettere in fila le parole nella mente per
comunicare qualcosa che sia un minimo sensato, lo sento dire: “Ho pensato che
non avrebbe avuto più senso aspettare”.
“Aspettare, per cosa?”.
La sua risposta è solo un sorriso.
Sono costretta a
ripetere: “Stefano… aspettare per cosa?”, prima di sentirlo dire: “Mi rendo
conto solo adesso che… non ti ho mai detto che ti amo!”.
Di nuovo, solo un
attimo. Una frazione di secondo. Stefano si avvicina a me lentamente e mi
prende il viso tra le mani. Non so se
sono pronta per baciarlo. Eppure, vedendo i suoi occhi sempre più vicino ai
miei, non sento timori, né dubbi. Lascio che con le labbra sfiori le mie. Sento
sulla pelle il tocco caldo del suo respiro.
“Ti amo, Chiara. Volevo
dirtelo, senza più pensare alle conseguenze. Se non mi vuoi, capirò”. Nulla di
più, prima di regalarmi un bacio profondo.
La mia risposta alle
carezze della sua lingua tarda un po’ ad arrivare, ma sentire improvviso nel
cuore il desiderio di baciarlo è quanto di più bello potessi aspettarmi da
quella giornata. In pochi, rapidi pensieri, Stefano non è più solo l’amico di
sempre, il compagno di tanti momenti. È il ragazzo che non mi ha fatto mai
mancare i pasticcini per una tazza di tè caldo, ogni volta che mi è capitato di
stare poco bene. È la persona che ho potuto chiamare ogni volta, a qualsiasi
ora del giorno e della notte, a ogni guasto improvviso della macchina o a ogni
blackout del computer. Stefano è stato la ragione di ogni sorriso, dopo ogni
pianto. Il movente valido di ogni rialzarmi, dopo ogni caduta. Lo bacio ancora
e ancora.
Quando le nostre labbra
si separano di nuovo, mi sento un po’ incerta sulle gambe. “Non allontanarti. Tienimi
ancora tra le tue braccia, ti prego”. Sento la stretta di Stefano tornare
sicura intorno a me, a malapena mi rendo conto che passiamo in quel modo altri
dieci minuti.
Il suono del Campanone
arriva a rintoccare le nove e un quarto. “Io comincio ad avere seriamente fame
e tu?”. Mi sarei aspettata di prenderci per mano e di incamminarci verso
l’ingresso del ristorante. Invece…
“Penso che potremmo
raggiungere piazza Grande, per la cena”. Stefano afferra la busta che aveva
lasciato sul angolo dello scalino poco lontano. Non l’avevo notata, prima.
“Sushi?”. Lo domando
con un sorriso e Stefano annuisce.
Ci vuole poco, per
essere entrambi di fronte alla meraviglia assoluta che è il palazzo dei
Consoli. Il suono di un nuovo quarto d’ora riempie l’aria.
Vorrei riuscire a fare
mille domande, farmi spiegare per bene i tanti perché che mi frullano per la
testa. Ma, ci sono felicità che non meritano di essere disturbate dai dubbi. Per
questo, rimango in silenzio.
Come fossimo tornati a
essere solo amici, con Stefano parliamo delle nostre rispettive giornate, delle
ore passate chi a scuola e chi in ufficio e dei possibili programmi per quel fine
settimana ormai alle porte e ormai vicinissimo al Natale.
“Che ne dici di un bel film, al cinema?”.
Stefano è un vero appassionato di Tolkien, sono convinta che andare a vedere Lo Hobbit gli piacerà. Annuisce.
Altre chiacchiere. Altri
programmi. Il primo Natale insieme, come coppia, ancora tutto da progettare e…
la magica idea del primo Capodanno.
Tra una chiacchiera e l’altra
e un boccone di sushi, i minuti passano veloci. Manca un quarto d’ora alla
mezzanotte, quasi incredibile non essersene praticamente accorti.
“Hai freddo?”. Stefano
si stringe di nuovo a me. Lo accarezzo e sorrido, nel trovare quel gesto tanto
naturale. Mi allungo verso di lui e lo bacio. So che non se lo aspettava con
tanto slancio, ma non smetto di baciarlo.
Nuovi rintocchi. La
mezzanotte.
Torno a fissarmi con
gli occhi in quelli profondi di Stefano. “Felice nuovo giorno, amore”. La sua
voce è un sussurro timido. Riprendiamo a baciarci.
“Ti andrebbe di tornare
a casa insieme a me e di sistemarci in terrazza a guardare l’Albero, con due
belle tazze di cioccolata calda a tenerci compagnia?”. La mia proposta potrebbe
quasi apparire indecente, ma non vuole esserlo in realtà. Il bello di aver
appena deciso di cominciare a frequentare il tuo migliore amico, sta proprio in
questo. Ci si capisce anche nel rischio di essere fraintesi.
“Mi pare un’ottima idea”.
Bacio.
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