«…e questo era il nuovo singolo di Eros Ramazzotti, da Matteo per Simona».
La radio mi distoglie dai pensieri più volte di quanto gradisca. Cerco
di non lasciar trasparire il fastidio, ma non essere i soli a muoversi in una
stanza implica la possibilità di tradirsi più facilmente di quanto si vorrebbe.
«Si può sapere cos’hai?».
Ecco. Il genere di domanda a cui non sono mai pronta a rispondere e a
cui il più delle volte riservo un: «Niente, perché?». Prima di rendermi conto
che non è sempre una buona mossa aggiungere un interrogativo del genere.
Non solo non si è in grado di prevedere come risponderanno gli altri,
ma si può rimanere colpiti dalle parole quando non si vorrebbe venir sfiorati
nemmeno da una virgola.
«Adesso mi decido a chiamare la radio e a dire che passino quella
canzone… com’è che fa? Quella che…».
Comincia a fischiettare il motivetto e la riconosco subito. È una
canzone di qualche anno fa, l’unica dei Prozac + che ricordi in effetti.
«Vorresti dire che sono acida? Cosa ho fatto per meritarmelo?». Sorride.
Capisco che sta scherzando, ma per un po’ decido di fingere di prenderlo sul
serio.
«Allora? Cos’è che faccio per essere acida, me lo dici?».
Non aspetto che risponda. È tipico di me. So quanto possa dargli sui
nervi ma continuo a parlare a macchinetta, mentre lui sembra stia seriamente
lottando per rimanere serio.
«No… dico… a parte il fatto che non mi piace essere paragonata a uno
yogurt… vogliamo parlare di te? Se io sono acida… tu cosa sei?».
«Snervato. Ma… io riconosco di esserlo, il più delle volte». Dannatissima
risposta pronta. Mai una volta, che riesca a prenderlo in castagna. Rimango a
bocca aperta e decido che l’unico modo di controbattere sia un attacco che –
già lo so – danneggerà solo me. «Allora non parlarmi, se la pensi così».
Riprende a fischiettare e io cerco di fare di tutto per ritornare immersa tra i
miei pensieri.
Niente da fare.
La radio continua a passare da una canzone all’altra, ma io non riesco
a tornare dove stavo. Ci provo. Ci provo e ci riprovo, ma… niente da fare.
«Hai mai pensato di chiamare la radio per dedicare una canzone a
qualcuno?». Ecco. Sottolineare il fatto che mi stia parlando, potrebbe essere
un buon contrattacco, ma… decido di ignorare la tentazione e rispondo
semplicemente: «Certo!». Immagino che il solo fatto di chiederlo implichi la
consapevolezza di averci pensato a sua volta, a parte il fatto di poterlo prendere
in considerazione per farmi presente che a volte sono acida.
«Per chi chiameresti, si può sapere?».
Niente da fare.
«E’ ancora lui, vero? L’innominato a cui non hai il coraggio di dire
tutta la verità».
«Non ricomincerai mica a darmi lezioni… l’importanza di non avere
rimpianti e tutto il resto?». Aggredisco, quando mi sento toccata sul vivo. Soprattutto perché c’è
la paura di soffrire e di farmi male.
Poi, prima che parole forti riescano a trovare la via per uscire di
bocca, decido di lasciare spazio ancora una volta alla fragilità. A quella
fragilità che in fondo sento bella, anche se non vorrei. A quella fragilità che
mi fa capire di non avere il bisogno di temere perché… che sia amore felice o
amore carico di dolore, da certe cose non ci si nasconde.
«Non penso sia necessario spiegare di più, sai… ogni volta che mi
guarda negli occhi ho la verità stampata in faccia. Sono sicura che non può non
averlo capito. Per quanto io parli sempre troppo, l’amore è quel sentimento
speciale che non ha bisogno di parole».
«Ma, se è così… non ti da fastidio essere totalmente indifesa davanti
a lui?».
Non so per quanto ancora riuscirò a reggere una conversazione del
genere, ma decidere di non sfuggire alla verità ha i suoi bei momenti di
tensione da sopportare. È solo l’abitudine che manca.
«Alle volte sì… alle volte vorrei non fosse così chiaro tutto il
potere che ha su di me, ma… se il rischio che corro è quello di essere felice,
allora direi che vale la pena lasciarsi leggere dentro, anche se è complicato».
«E… se così non dovesse essere? Se questa felicità che sogni non
dovesse arrivare?».
«Fa niente». Mi guarda come se fossi pazza.
Lo so. Mi darei della pazza anche io, non fosse per il fatto di non
aggiungere un altro motivo alla lista di quelli che ogni giorno mi fanno
litigare con me stessa.
«Non esiste un modo per chiedere con gli occhi di non venir feriti. Non
esiste uno sguardo in grado di chiedere tutela per il cuore. L’unica speranza è
che non esista superficialità negli atteggiamenti che si ricevono. Capire di
essere amati da qualcuno dovrebbe spingerci a non voler ferire, ma… non è
sempre così. So che rischio un dolore più grande di quanto abbia mai provato
finora, ma… scelgo di accettare l’eventualità. Non è che provare a non sentire
mi abbia portato da qualche parte, dopotutto».
«Capito». Lo guardo senza capire cosa ci sia da capire, in effetti.
«Riesci a sopportare l’idea che questo ragazzo-innominato capisca
tutto attraverso i tuoi occhi, ma non saresti in grado di dedicargli una canzone…
certo che è strano».
«Forse perché… non esiste canzone che riesca a spiegare più di uno
sguardo, ci hai mai pensato? Anche se è bello usare la musica come veicolo di
sentimenti e una canzone – in effetti – è tutto ciò a cui puoi aggrapparti in
qualunque momento della giornata».
Devo avergli ingarbugliato i pensieri, perché mi guarda senza
rispondere.
Passano alcuni secondi di silenzio, poi: «Ha un senso, certo. Ma…
dovessi dirlo con una canzone, quale sarebbe?».
«Il cielo in una stanza. Gino Paoli».
Mi allontano senza aggiungere altro.
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