sabato 24 dicembre 2011
domenica 11 dicembre 2011
La raccolta delle Olive (Seconda Parte)
Il tempo, fino al momento di andare a dormire di nuovo, passò come il solito, tra una partita a carte ed una semplice chiacchierata. Il letto, nella loro camera, fu di nuovo il custode dei loro sogni, delle loro speranze e delle semplici aspettative che sembravano aver riempito la mente di entrambi su quella che sarebbe stata la raccolta del giorno che doveva arrivare e dei tanti altri, fino al momento della molitura che, seppur parve non farsi sentire minimamente, arrivò presto.
Da quando avevano iniziato al quindici dicembre, infatti, il tempo sembrò aver messo le ali.
Le produzioni d’ogni singola giornata di raccolto rimasero, nel complesso, sugli stessi livelli della prima, per un totale di circa novanta quintali d’oliva.
La mattina del quindici, Roberto si alzò presto, diede un bacio a sua moglie promettendole che avrebbe fatto il possibile per tornare ad un’ora decente per la cena, dopodiché si diresse, con un piccolo rimorchio pieno di quanto avevano raccolto sistemato dietro all’auto, fino al frantoio che, da casa loro, distava ben 25 km.
Una volta giunto a destinazione fu subito accolto dai due operai che si occuparono dello scarico delle sacche dalla vettura.
Entrando dentro, seppur non fosse la prima volta, fu enormemente colpito e affascinato allo stesso tempo, da tutto ciò che significava un vero e proprio sistema di molitura a freddo.
Seppur il rumore fosse assordante per un orecchio poco abituato, a lui sembrava non dare minimamente fastidio, anzi.
I suoi occhi si persero nell’osservare il perfetto giro delle macine di granito, il perfetto attrito che avevano con il pianale, dello stesso materiale, posto al di sotto di loro, il meccanismo, fin troppo laborioso, utilizzato dagli addetti per impilare le presse ed infine, pur saltando qualche passaggio, la bellezza nel vedere, come per magia, per mezzo di uno strano e caotico mezzo, il separarsi dell’acqua dall’olio.
Attese con calma il suo turno, per nulla dispiaciuto di dover indugiare di fronte a tanto ingegno e bellezza.
Nel momento in cui l’orologio appeso al muro segnò l’una precise, vide avvicinarsi il proprietario dell’intero stabile: “Ci dispiace averla fatta attendere, purtroppo in lavori come questi non si sa mai a quale contrattempo si può incorrere. Comunque adesso stiamo iniziando la lavorazione della sua oliva, preferisce rimanere per tutto il tempo, oppure tornare una volta che avremo finito?”.
Roberto sorrise a quella domanda, poi, ringraziando per la cortesia, rispose: “Non c’è problema. Ho già avvisato a casa che sarei tornato solo per l’ora di cena, se non le dispiace preferirei rimanere qui tutto il tempo. Non per sfiducia nei vostri confronti, tutt’altro, sono semplicemente affascinato da tutti questi meccanismi, tutto qui”.
A sua volta anche il frantoiano sorrise, più che felice di sapere che a qualcuno piaceva tutto ciò che nel tempo aveva costruito.
Osservando che aveva un po’ di tempo libero e che il signor Roberto sarebbe stato il penultimo cliente della giornata, disse: “Mi fa piacere sentirglielo dire. Una volta tanto, in mezzo a tutte le lamentele che ricevo per l’insopportabile rumore, è bello ascoltare una campana discordante dal coro”. Fece una breve pausa per riprendere fiato, dopodiché parlò di nuovo: “Ho notato che il cliente che dovrebbe esserci dopo di lei non è ancora arrivato, che ne direbbe di fare un accurato giro di perlustrazione, magari potrei farle vedere tutte le fasi di questo tipo di produzione, dalla prima all’ultima, cosi, tanto per passare un po’ di tempo, anche se in realtà non è la prima volta che viene qua”.
Roberto accettò con piacere.
Saltando la fase in cui il cliente arriva con il frutto, anche se fondamentale, per così dire, iniziarono con quella in cui il frutto è dato alle macine attraverso un sistema di cattura dal basso, d’aspirazione e di rigetto dall’alto. La seconda, come già accennato, invece, fu la molitura.
Il proprietario, perso nelle sue accurate descrizioni, gli spiegò che, all’incirca, l’oliva era fatta schiacciare per bene per una mezz’ora.
Più sbrigativa fu la spiegazione delle fasi successive e delle modalità utilizzate per la preparazione, con la pasta d’oliva appena ottenuta dalla macinazione, della pila posta sopra di un carrello, sorretta da un forte fulcro in ferro, destinato, a sua volta, alla compressione mediante una pressa. Ciò che ne usciva fuori era l’olio misto ad acqua, insomma, il prodotto allo stato grezzo.
Come ultima fase si ritrovò davanti a quel macchinario tanto rumoroso che all’inizio lo aveva colpito, il separatore.
Roberto cercò di capire meglio che poté il funzionamento di quello strano marchingegno, alla fine, però, si limitò ad ammirarne solo il risultato.
Il giro era finito.
Per quanto lo avesse voluto, ora il proprietario non aveva proprio più tempo da dedicargli, cosi, rimuginando su tutto ciò che aveva appena appreso, se ne tornò al suo posto in attesa di vedere anche il suo olio distinguersi dall’acqua.
Il momento non tardò poi molto ad arrivare, o così gli sembrò.
L’orologio segnava le sei e mezza del pomeriggio.
Avvicinandosi al separatore, Roberto assisté, orgoglioso, alla fuoriuscita delle sue prime gocce d’olio.
Come un bambino alle sue prime esperienze, non poté evitare di infilare la punta di un dito sotto a quel raggio denso al tatto e verde acceso alla vista. Il sapore, come ogni anno, lo stupì, ricordandogli di quanto si possa essere sempre troppo poco abituati al pizzicore e al gusto forte del olio appena prodotto.
Era felice, non c’era che dire.
La sua gioia aumentò ancora di più nel momento in cui si trovò in macchina, sulla strada che lo avrebbe presto riportato a casa da sua moglie che lo attendeva.
Anche per quel tragitto inverso il rimorchio era pieno.
Questa volta, a sostituirsi al frutto d’origine, c’era il prodotto finale, un buonissimo prodotto finale, alla faccia di chi non c’aveva creduto per niente, pensò.
Il tempo fu un lampo.
Attendendolo sulla soglia di casa, Lucia lo abbracciò forte, consapevole di essersi sentita fin troppo sola in quella grande casa vuota, poi chiese: “Allora, come è andata?”.
Gli occhi di Roberto che la stavano fissando le risposero prima della sua voce. Il loro incessante brillare fu accompagnato dalle parole di lui: “È andato tutto molto bene. Oserei dire benissimo. Ogni quintale d’oliva ha prodotto circa 20 chili d’olio”.
Non si dissero altro, entrarono a casa, si abbracciarono di nuovo, dopodiché, affamati, provvidero alla cena.
Ovviamente, per assaggiare il risultato di tanto impegno e dedizione, non mancò anche una fetta di bruschetta ciascuno, tra le altre tante cose che Lucia, sicura d’avere qualche cosa da festeggiare al ritorno del marito, aveva preparato durante tutto il pomeriggio.
La mattina dopo si svegliarono presto come sempre, pur non avendo nulla in particolare da fare.
Con l’occasione, si dedicarono alla preparazione dei doni di Natale per i parenti ed amici e alla preparazione dell’albero.
A metà mattinata si recarono al vivaio per acquistarne uno piccolo, comprarono anche qualche nuovo addobbo, dopodiché tornarono a casa, dove già in sala c’era un posto vuoto ad attendere il giovane sempreverde.
Erano l’una e mezza e già tutto era finito di sistemare.
Prima di procedere con il pranzo, Lucia si fissò ad osservare il bel lavoro fatto e, guardando anche Roberto, con voce tremolante, disse: “Sai, è da un po’ di tempo che dovrei dirti una cosa. Vista la gioia di questi giorni, questo mi sembra il momento migliore”.
Fece una breve pausa, poi continuò: “Aspetto un bambino, o meglio…aspettiamo un bambino”.
Roberto rimase in silenzio, complice anche il fatto che nemmeno Lucia sapeva più cosa dire.
La baciò e la strinse a sé fino a farle mancare quasi il respiro, dopodiché disse: “È il regalo di Natale più bello che avresti mai potuto farmi”.
Lei era contentissima di sentirglielo dire.
Attesero ancora un po’, non volendo guastare la magia che si era creata, poi andarono a mangiare.
Questa volta il pasto non fu silenzioso come di solito succedeva, anzi.
La bellissima novità aveva portato un fervore in casa che da tempo non si avvertiva più nella felice monotonia d’ogni singolo giorno.
Seduti intorno al tavolino, poco distanti dal camino, ora entrambi stavano fantasticando su che cosa sarebbe diventata la loro vita con un pargoletto in casa.
Non riuscendo a trattenere le risa che i suoi buffi pensieri gli provocavano, Roberto esplose dicendo: “Pensa quanto sarebbe bello se fosse un maschietto. Un piccolo ometto di casa. Sarebbe fantastico potergli un giorno imparare a prendersi cura del nostro modesto oliveto e della casa, non credi?”.
Lucia sorrise, consapevole del fatto che suo marito da sempre era più incline a voler un figlio maschio, poi però, pensando anche all’altro cinquanta per cento delle possibilità, disse: “E se invece fosse una femmina, ti dispiacerebbe? In quel caso potrei essere io ad impararle tante piccole cose, a cucinare, cucire, lavorare a maglia. Sono sicura che, alla fine, suo padre sarebbe contento di ricevere in dono i piccoli oggetti che lei confezionerebbe, tutti solo ed esclusivamente per lui, il primo uomo della sua vita”.
Era vero, anche nel caso di una femminuccia la prospettiva non sarebbe stata molto diversa, in fondo l’amore che li legava a quella casa e a quella terra sarebbe stato trasmesso in ogni modo.
Alla luce di tutte quelle nuove considerazioni Roberto e Lucia si rilassarono, accoccolati accanto al fuoco.
In fondo nessuno dei due aveva la capacità di prevedere il futuro.
L’unica cosa che sembrava essere certa era che sarebbe stato radioso, perché, anche se non avevano mai avuto una vita troppo mondana e sfarzosa, era nella semplicità e nel dare il valore alle piccole cose che loro, insieme al loro amore e alla loro voglia di stare sempre uniti, erano riusciti a vivere in una serenità e felicità immense che pochi conoscono.
In realtà erano più ricchi di qualsiasi altro, possedendosi sempre l’un l’altro.
Fine
mercoledì 30 novembre 2011
La Raccolta delle Olive
La pioggia, che da giorni ormai sembrava voler allagare le campagne, aveva finalmente cessato di battere sopra i tetti della piccola Gubbio. A rubarle la scena, ora c’era un fortissimo vento gelido.
Gli infissi della finestra della camera da letto di Roberto e Lucia non sembravano accennare nemmeno ad una leggera pausa, tra un tonfo e l’altro. Il vetro era costantemente colpito dai tanti turbinii di foglie ormai secche, che - dai prati poco distanti dal casale di campagna - si alzavano continuamente, mosse dal respiro del cielo, come se volessero festeggiare quella piccola tregua, dopo aver nuotato per troppo tempo in litri e litri d’acqua, con una danza sublime e allo stesso tempo accattivante.
L’orologio sul grande comodino in legno di noce segnava già la mezza notte.
Nonostante l’ora tarda, la camera era ancora perfettamente inanimata, piena soltanto del buio di fuori e dell’ululare del vento che gli spessi doppi vetri non riuscivano a tener fuori.
Di sotto, nella calda e piccola cucina, accanto al fuoco che, ormai quasi del tutto spento, sembrava voler esulare in fretta l’ultimo respiro nel grande e vecchio camino, c’erano loro.
Stretti in una soffice coperta di lana, ragionavano su che cosa sarebbe stato il giorno dopo, fin troppo consapevoli che la ricorrenza di santa Caterina, 25 novembre, era oramai passata. I tempi della raccolta delle olive erano maturi.
Stettero lì ancora un po’, poi, con una sola mezza candela fra le mani, si diressero di sopra.
Pochi istanti dopo spensero anche quell’ultimo barlume, lasciando spazio solo al loro bisogno di dormire e all’ormai fin troppo persistente rumore dell’inverno che, seppur anticipatamente, sembrava essere arrivato già da un po’.
Il mattino dopo furono svegliati dalla flebile luce del sole appena sorto e dal gracchiare, anche un po’ stonato rispetto a quello che sarebbe dovuto essere, dell’attempato gallo del loro pollaio.
Si alzarono di buona lena, si vestirono in fretta, fecero una breve e frugale colazione, dopodiché iniziarono i preparativi per l’imminente raccolto.
Come prima cosa si diressero in garage, a prendere quei pochi teli che avevano per sistemarli sotto le piante e qualche balla per poter riportare ciò che sarebbero stati i risultati del loro lavoro.
L’oliveto, da molti anni ormai, sembrava aver riacquistato il suo solito splendore. Il verde uniforme e fin troppo fitto su quei grandi rami e la presenza nera del frutto maturo, erano i segni più evidenti e felici degli ottimi risultati che la loro cooperazione aveva portato.
Cosi cominciarono.
Durante quelle ore di lavoro non si dissero niente, ognuno occupato nella sua specifica mansione, ognuno contento di godere di quella pace naturale.
Mentre Roberto si adoperava con agilità in braccio alle sue amate olive, Lucia si occupava della sistemazione dei teli sotto alle stesse e alla pulizia accurata dei rami più bassi, non volendosi pericolare troppo altrove.
Acino dopo acino era già arrivata l’ora di pranzo.
Volendo approfittare della bellezza di quella giornata di sole, Lucia tornò a passo svelto verso casa, preparò come meglio poté un cestino colmo di vivande, dopodiché torno dove era Roberto.
Seduti sotto l’ombra di una pianta, interruppero finalmente il silenzio.
Sempre con il pensiero rivolto all’attività che stavano portando avanti, fu Roberto a parlare per primo.
Indicando tutta la vastità che avevano di fronte, disse: “Che ne dici, credi che ci vorranno più di dieci giorni per completare il lavoro?”.
Osservando anche lei ciò che la circondava, Lucia rispose: “Non saprei cosa dirti. Quest’anno, a differenza degli altri, sembra esserci un’abbondante produzione. Fare un conto più o meno preciso del tempo che occorrerà per pulire tutte le piante è un po’ difficile. Ciò che è certo è che, comunque vada, per finire in tempi ragionevoli, occorrerà impegnare sia mattina che sera, non possiamo permetterci delle pause”.
Roberto annuì, dandole ragione, poi continuò: “Non vorrei essere in ritardo con la consegna al frantoio. Come ogni anno ho prenotato per i primi giorni di dicembre, diciamo intorno al 15 o 16 del mese, giusto per prendercela un po’ con comodo”.
Finirono in breve tempo di mangiare ciò che Lucia aveva preparato, mentre continuavano a ragionare insieme sul da farsi.
Alle due e mezza del pomeriggio diedero di nuovo il via alla raccolta e al silenzio, fino al momento dell’imminente avvicinarsi del tramonto.
Al calare del buio sulla grande distesa di piante, ripresero tutto ciò che si erano portati dietro e tornarono a casa, impazienti più che mai di sapere quanto erano riusciti a staccare, oliva dopo oliva, dalle cinque piante che, in quella prima giornata, avevano sistemato.
I loro occhi s’illuminarono di gioia quando videro il peso segnato dalla bilancia posta in garage. Facendo un rapido conto, ogni pianta, mediamente parlando, aveva prodotto quasi un quintale di frutto.
Rincasarono soddisfatti.
domenica 6 novembre 2011
Di getto...
- che vuoi scoprirlo.
lunedì 10 ottobre 2011
Un sogno realizzato!
domenica 2 ottobre 2011
Mai dire...
“Mamma, io esco. Vado a fare un giro”.
Sull’ultimo scalino, con una mano già appoggiata alla maniglia del portone, aspetto di sentire arrivare la risposta dalla camera da letto.
Non ho voglia di uscire. Ma, non ho nemmeno voglia di rimanere in casa.
Di tutte le domeniche passate, questa è la prima dell’anno in cui mi ritrovo in piedi prima della sveglia. Chissà perché, poi.
Di solito, io adoro la domenica.
So che la domenica posso dormire.
So che posso alzarmi quando il sole è già altro in cielo e fare colazione con caffelatte, biscotti, yogurt, pane tostato e marmellata. Invece della solita tazzina di caffè bevuta al volo.
So che posso andarmene in giro con i capelli in disordine ed indossando una semplice tuta, senza che qualcuno mi stia a ripetere ogni dieci minuti che è l’immagine quello che conta.
So che posso abbuffarmi, a pranzo, senza pensare alla linea. Un “pallino” che, una volta preso, non ti molla più.
Quello che non sapevo ancora, della domenica, è che può essere peggio di un qualsiasi giorno lavorativo.
Può farti dormire poco.
Può farti trovare con lo stomaco chiuso.
Può farti sentire in totale conflitto con lo specchio e con il guardaroba.
Può farti…
Può farti desiderare che finisca il prima possibile.
Ecco.
Per me, questa è una domenica della seconda specie. La prima dell’anno.
Allora…
Allora, mi vesto praticamente ad occhi chiusi. Afferro la borsa, gli occhiali da sole e le chiavi della macchina. Ed esco.
Vado a fare un giro.
Non ho la più pallida idea né del dove, né del perché, ma…
L’importante è che almeno gli altri non si accorgano del mio umore nero di domenica mattina.
In famiglia, il mio “ottimismo festivo” è praticamente un dato di fatto.
Così, zittito lo stereo perché anche la musica mi da fastidio, mi lascio la casa alle spalle ed imbocco la strada principale.
Dove vanno le persone, quando sono di umore nero?
In un primo momento, penso che starmene all’ombra di una pianta del parco cittadino potrebbe fare al caso mio.
Poi, però, immaginandomi circondata da bambini urlanti, da cani irrequieti, da genitori e padroni sull’orlo di una crisi di nervi per riuscire a tenere sotto controllo ogni genere di situazione; decido di abbandonare subito l’idea.
No. Il parco, di domenica, non fa per me. Ho l’umore nero.
Allora, rimettendo in moto il cervello, mentre la macchina continua ad andare, vaglio rapidamente altre possibilità.
Andare al solito bar, in cerca degli amici: No. Perché, non sono in vena di chiacchiere.
Andare al lavaggio auto per far fruttare almeno un po’ la mattinata e spuntare un’incombenza dalla “lista delle cose da fare”: No. Perché dovrei, come minimo, affrontare più di mezz’ora di fila.
Andare in libreria, aperta a domeniche alterne, e vedere cosa ha da offrire nel settore novità: No. Perché, ci manca poco che mi tocca chiedere la licenza edilizia; per la catasta di letture arretrate che c’è sul comodino.
Andare… Andare…
Ecco! Trovato.
Potrei andare al centro commerciale, aperto tutti i giorni dell’anno all’infuori di poche festività, infilarmi nel negozio di belle arti ed acquistare dei nuovi colori ed una nuova tela.
Sì!
Con il ticchettio della freccia a destra come unico sottofondo ai miei pensieri, parcheggio e mi avvio verso l’ingresso della bottega.
È un posto che sa farmi sentire bene. Un rifugio sicuro per ogni artista, credo.
Non dipingo per lavoro, ma… Sul fatto che io mi senta ugualmente un’artista a trecentosessanta gradi, non ci piove. Anche se…
Volendo essere proprio del tutto sincera, non ho la più pallida idea di cosa potrei iniziare a dipingere; in una domenica come questa.
Fa niente.
Continuo a camminare verso gli scaffali che mi interessano, ignorando tutto il resto. Dubbi inclusi.
In qualche modo devo riuscire a trascorrere la giornata, senza cadere nella tentazione di sbattere la testa contro il muro; letteralmente. Anche a costo di rimanere a fissare una tela bianca; fino a che sarà di nuovo ora di andare a dormire.
Così, cerco subito di instaurare una certa intimità con i tubetti di colore e con i pennelli dalle setole perfette.
Quando è stata l’ultima volta che ne ho acquistati di nuovi?
E chi se lo ricorda!
Continuo a farmi solleticare la punta dell’indice destro da un ciuffo di peli di bue, quando: “Francesca”.
Quella voce.
Quella voce, la ricordo. Eccome.
Sentir pronunciare il mio nome in modo tanto caldo, mi fa scorrere un brivido lungo la schiena.
Pur con la paura di farlo, allora, mi volto. Lentamente.
Dio!
Se i miei occhi avessero saputo parlare, in quel momento avrebbero di sicuro balbettato confuse idiozie.
Come era possibile – d’un tratto – sentirsi come se il tempo non fosse passato? Nonostante i sette anni trascorsi, ognuno per conto suo.
“Matteo”.
Riesco ad articolare a malapena.
Lui è più bravo di me. Nonostante il rossore in viso, tipico di una personalità timida.
Ignorando le mie mani che iniziano a tremare senza controllo, afferma: “Ti trovo bene. È da un sacco di tempo che…”.
Quel “che”, lasciato solo in quel modo, accende in me una serie di flashback.
Matteo.
Il primo batticuore.
I primi occhi da cui ho dovuto distogliere lo sguardo, per paura che potessero leggermi dentro.
Le prime mani strette alle mie.
Il primo bacio.
Il primo Amore.
Decine e decine di ricordi solo nostri tornano a farmi compagnia.
Non riesco a rispondere. Non riesco a domandare.
Tutto, di me, sembra essersi improvvisamente congelato.
Tutto, tranne le orecchie.
Quelle, per fortuna, continuano a funzionare e lo sentono chiedere: “Ti andrebbe un caffè, al bar qui vicino?”.
Eccolo lì. Matteo. Il timido che, quando vuole, sa essere intraprendente.
Aspettando che io apra bocca, continua a guardarmi con quel suo modo speciale. Sembra che anche per lui il tempo passato non abbia peso.
Sì, sì, sì. Certo, che mi andrebbe.
Mi andrebbe, ma… continuo a non proferir parola. Speriamo che un cenno del capo basti.
Sorride.
Andata.
Muovendo i piedi nello stesso istante, in un attimo siamo di nuovo fuori.
La luce del sole, che fino ad un attimo prima – potendo – avrei voluto soffocare dietro ad una spessa coltre di nubi, mi scalda in viso; regalandomi un po’ di coraggio.
“Allora, come mai da questa parti di domenica mattina?”.
“Mah! Nulla di che, solo la voglia di fare un giro. E tu?”.
“Lo stesso”, mento.
Quindi: “A casa, tutto bene?”.
Lo so.
Mia nonna, probabilmente, sarebbe riuscita a fare di meglio.
Difatti, stavolta è lui a limitarsi ad un cenno del capo.
Vorrei poter trovare un modo facile ed immediato per sembrare meno impacciata, ma…
Di fronte alla porta scorrevole del bar che si apre automaticamente, Matteo mi lascia passare.
L’intenso aroma di caffè che riempie il locale, mi arriva subito al naso.
Una volta davanti alla barista, pur senza premeditazione alcuna, ordiniamo io per lui e lui per me. Il vecchio giochino delle nostre tante colazioni insieme.
Uno sguardo.
Un sorriso.
E chi l’avrebbe mai detto…
Pensare, che mi ero alzata con il piede sbagliato.
domenica 25 settembre 2011
Amore; Essere o Apparire... Mumble! Mumble!
mercoledì 21 settembre 2011
RESIJOUX CANDY - L'attesa estrazione...
domenica 4 settembre 2011
Notte di San Lorenzo
Notte. Stelle.
L’aria è piena dell’odore della pioggia appena caduta, dell’odore della terra bagnata dopo giorni e giorni di sole ardente.
Il vento soffia leggero. Tanto leggero da non riuscire a sollevare nemmeno un granello di sabbia. Nessun mulinello.
I capelli di Ilaria si muovono delicati, le accarezzano il viso. Una chioma fondente che, come una mano invisibile, la solletica sulla pelle dorata.
Sorride Ilaria.
Note indistinte le arrivano all’orecchio dal locale poco lontano. Si mischiano al rumore di sonore risate.
La spiaggia è deserta. Gli ombrelloni ormai chiusi somigliano ad una schiera di militari sull’attenti davanti al comandante. Il mare è il comandante.
Tornato silenzioso dopo la mareggiata, si diverte a giocherellare con quelle poche conchiglie sul bagnasciuga. Avanti, indietro e ancora avanti.
Ilaria è incantata a guardare lo spettacolo. Le piace quel posto, le è sempre piaciuto.
Il profumo di salsedine la fa sentire viva. Rinvigorita nell’anima.
Ricordi di tempi passati le tornano alla mente.
È tornata bambina. È insieme al suo papà. Stanno giocando a costruire castelli di sabbia.
“Coraggio! Vediamo chi riesce a farlo più bello. Chi vince si aggiudica un gelato al cioccolato”.
Un grand’uomo il suo papà. Il suo primo amore. Il più immenso. Quello che, veramente, dura tutta la vita. Per sempre.
Le manca. Le manca da morire.
Vorrebbe averlo accanto. Vorrebbe sentirsi stringere forte come solo lui sapeva fare. Vorrebbe farsi consolare per quella giornata andata non troppo bene. Vorrebbe sentirsi incoraggiare.
Sì. Ha bisogno di coraggio. Per vivere. Per riuscire a vivere i suoi sogni.
Ne ha tanti Ilaria. Tanti sogni e desideri speciali che in testa non lasciano spazio a nient’altro.
L’acqua, capricciosa, le arriva a bagnare i piedi. Sta camminando Ilaria. Sopra la schiuma del mare.
Orme piccole e precise rimangono per un po’ dietro di lei. Non un’ombra, una testimonianza del suo passaggio.
Non ha voglia di tornare in albergo. È una bella serata. Una serata di stelle.
Non le importa di sapere che domani, come ogni giorno ormai da più di tre mesi, la sveglia suonerà prestissimo. Non le importa di sapere che domani dovrà di nuovo indossare quel grembiule, di nuovo correre tra un tavolo e un altro. Tra gente che non sa niente di lei. Che a volte la rispetta e a volte no. Non le importa.
Continua a camminare Ilaria. Silenziosa. Sola.
Per quella sera almeno vuole sentirsi diversa. Vuole sentirsi una principessa. Un po’ come Cenerentola. Non pensa alla mezza notte che prima o poi scoccherà. Vive il momento.
Peccato che per lei non ci sia nessun principe azzurro nei paraggi. Davvero un peccato.
Vuole sentirsi amata Ilaria. Forse questo è il suo desiderio più grande.
Di nuovo un ricordo.
Di nuovo suo padre.
“Anche se non potrò essere con te in carne ed ossa, sappi che non ti abbandonerò mai. Sei il regalo più bello che la vita abbia potuto offrirmi. Il gioiello più prezioso. Il diamante più splendente. Non permettere mai a niente e nessuno di offuscare la tua bellezza. Vivi, vivi con il cuore. Sempre”.
Ci aveva provato Ilaria. Tante, tantissime volte. Non è facile.
Il mondo non è come lo avrebbe voluto. Le persone, spesso, non sono come si vorrebbero.
Se lo ripete nella testa… nessun principe azzurro nei paraggi.
Continua a mandare i piedi uno avanti all’altro Ilaria. Non è stanca.
Molto probabilmente il sonno, per quella sera, non sarebbe più arrivato.
Allora tanto vale continuare. Avrebbe aspettato l’alba. Avrebbe vissuto la notte in tutti i suoi particolari. Continuando a pensare. Era un’altra cosa che le piaceva.
Nulla di particolare in mente. Solo il continuo sibilo di una voce profonda e insistente. Forse sconosciuta. Non lo sa Ilaria.
La incita a cercare. Un cuore che batte non può battere a vuoto. Vuole far battere il suo per qualcuno.
Si mette a giocherellare con la sabbia bagnata Ilaria. Con le dita dei piedi solleva da terra piccoli riccioli. Piccole onde marroni che, presto abbandonate dall’umidità, tornano ad essere solo granelli. Tanti granelli.
Quel posto la affascina anche per questo. Per tutti quei granelli. Immagina il lavorio che c’è voluto per un simile risultato. Non è questione di poco. Secoli probabilmente.
Le piace riflettere sulle origini di ciò che la circonda. A volte cambia la realtà, mischiandola insieme alle sue fantasie, a volte no. Dipende dal momento.
La spiaggia. Per lei solo il risultato di un’enorme clessidra rotta. Il mare… l’insieme di tante lacrime. Non lacrime umane. Lacrime d’angelo.
Mentre osserva ancora i piccoli, quasi minuscoli cerchi che, fitti fitti, sono disegnati su quella distesa, marrone come i suoi occhi, le torna in mente quella convinzione.
Sì. Una convinzione singolare in vero. Qualcosa che riguarda la pioggia. Qualcosa in tema con quella giornata insomma.
Gocce dal cielo, gocce fredde… lacrime d’angelo. Questo pensava. Questo pensa.
La pioggia non è altro che la tristezza degli angeli che si fa acqua. La tristezza di piccole creature alate che vivono nelle nuvole e ci osservano da lontano. Ci guardano, e ridono di noi e gioiscono per noi e piangono. Piangono perché in questo mondo quasi nulla va come dovrebbe. Perché è un mondo che sempre più spesso lotta per le cose sbagliate e lascia perdere le “guerre” giuste.
Ma si può dire che una guerra è giusta? Ilaria non lo sa.
Tante cose non sa, ma questo non è mai stato un problema.
Ilaria continua a camminare. Ancora sola. Ancora con la testa piena di tanto, forse di troppo.
Sa perfettamente di essersi allontanata di molto dal suo alloggio, ma non le importa.
Vuol continuare ad andare avanti. Quella sera. Nella vita. Sempre.
È fatta così. Lei. Tutto il suo mondo. Quel suo strano modo di passare il tempo.
A chi verrebbe in mente di camminare al buio in riva al mare?
Chi penserebbe di passare in quel modo una piacevole sera d’estate?
Molti affollano le discoteche. In tanti se ne stanno seduti ai banconi dei bar con la speranza che il cameriere si accorga di loro e gli dia qualcosa per placare la sete. Altri ancora, magari, decidono di rimanere a casa in compagnia della tv. Lei no. Lei si sente estranea a tutto questo. Preferisce il mare. Ama il mare.
Una passione presa dai suoi genitori. Si erano conosciuti proprio su quelle coste. Proprio di fronte a quello stesso panorama.
Sa a memoria la storia del loro incontro. Se la faceva raccontare, da bambina, ogni volta che non le riusciva di addormentarsi.
Che romantico. Un inizio da favola. Ogni istante da favola.
Sua madre le raccontava di essersi trovata in vacanza lì poche settimane dopo aver sostenuto l’esame di maturità. Era riuscita a diplomarsi con il massimo dei voti. Alle magistrali.
Suo padre, invece, più grande di tre anni, lavorava in spiaggia come stagionale. Un bagnino dal fisico non troppo vistoso, ma bello nel complesso, nei suoi centonovanta centimetri d’altezza.
Un incontro indimenticabile. Era una sera d’agosto proprio come quella.
Il sole era da poco calato. Il caldo che aleggiava nell’aria era quasi insopportabile. Sua madre Maria stava tornando a casa dopo essersi concessa una lunga nuotata rinfrescante, quando un inaspettato soffio di vento le portò via il pareo che teneva distrattamente in mano, insieme ad altre cose.
Buffo a pensarci.
Ebbene, quel piccolo pezzo di stoffa multicolore andò a finire proprio ai piedi della postazione di vedetta di Luigi. Suo padre.
Nel cielo sembrarono saettare milioni di fulmini quando gli sguardi si incontrarono. Marrone contro blu. Terra contro acqua. Fu fatale. Non scoccò la scintilla, sembrò essere esplosa una bomba.
Questo le diceva sua madre ogni volta. Ogni volta con le lacrime agli occhi. Ogni volta con una felicità immensa nel cuore.
Dio quanto vuole anche lei provare una felicità simile.
A venticinque anni comincia a sentirsi fin troppo triste quando pensa a certe cose.
Perché l’amore non può arrivare quando più lo si desidera? Perché colpisce quando meno te lo aspetti?
Interrogativi. Ancora interrogativi.
Pazzi, folli, troppi, confusi. Ha smesso di cercare di razionalizzare la cosa. È inutile. Quella è la sua testa. Così è fatta.
Continua a camminare Ilaria. Aumenta l’andatura. Sa che sono passate più di due ore dal momento in cui ha mosso il primo passo.
Ancora è buio, ma presto, molto presto sarà un nuovo giorno.
È stanca di quell’oblio. Presto il sole tornerà a reclamare la scena. Proprio come l’estate era tornata a reclamare il suo ruolo di protagonista dopo quelle ultime quarantotto ore di pioggia ininterrotta.
Un fenomeno strano per essere agosto. Ilaria ricorda di più la violenza dei temporali estivi. Per lei è spontaneo, come forse anche per altri, abbinare le lunghe giornate grigie e bagnate con i mesi più freddi. Novembre, dicembre, gennaio. Questi. Non agosto.
Nessuna intenzione di fermarsi. Vuole arrivare agli scogli poco più in là Ilaria. Quelli che conosce bene. Quante cozze staccate da lì…quante spaghettate fra parenti…
La sabbia, man mano, si fa più fina e asciutta. Non più agglomerati.
Piccole manine di bambini addormentati non aspettano altro. Di poter giocar di nuovo con quella polvere particolare, di potercisi rotolare come fossero fette di carne da panare, di potersela tirare per dispetto, di poterla modellare con secchiello, paletta ed altre formine. Proprio come faceva lei un tempo con suo padre.
Magari anche lei, l’indomani, avrebbe trovato il modo di tornare in quel paradiso incontaminato. Lontana dai rumori del posto di lavoro, lontana da quel tizio tanto autoritario. Il suo principale.
Magari si sarebbe finalmente licenziata e sarebbe corsa in spiaggia a godersi la giornata.
È stanca di camminare al buio. Stanca.
Guarda gli scogli ben distinti a pochi metri di distanza. Sorride Ilaria.
Correndo, lasciando che il mare l’accarezzi per l’ennesima volta, arriva fino a toccarli, fino a sedercisi sopra.
Che meraviglia. Una nuova potente ondata di salsedine le riempie le narici.
È il paradiso. Questo è il paradiso. Lo urla al cielo.
È sicura di essere sola in quel momento. In quel momento tutto per lei.
Si sbaglia.
Da dietro una voce d’uomo, di ragazzo per meglio dire, la coglie di sorpresa: “Anche fosse vero, non sa che non può stare qui a quest’ora? Non ha letto il cartello accanto alle cabine?”
Ilaria sorride senza dir niente. Continua a dondolare i piedi nell’acqua che le arriva poco sopra le caviglie.
L’altro, quasi irritato da quella sua indifferenza, ripete la domanda: “Allora? È sorda per caso? Le ho chiesto se ha letto il cartello”.
Prima si deve accontentare di un singolo cenno di diniego. Poi, anche per lui, una domanda: “Lei che vuole da me, scusi? Non ha visto che sto provando a rilassarmi? È stata una brutta giornata. In fondo non corrodo mica la pietra se me ne sto un po’ seduta qui!”
“Sono il bagnino. Da qualche tempo è severamente vietato stare in spiaggia dalle 11 di sera alle 5 di mattina”.
Ilaria non riesce a trattenere una risata. Questa si che è bella. Proprio nelle ore in cui lei può ritenersi libera, la spiaggia, il suo posto preferito in assoluto, è off limits.
Scende con grazia dalla scogliera. L’immediato contatto con la sabbia le provoca piacere. Fresco.
Allunga una mano verso il bello sconosciuto dagli occhi verdi e i capelli color miele: “Mi chiamo Ilaria. Piacere”.
Lui è Marco. Bellissimo Marco. Affascinantissimo.
Continuando a tenerla stretta per la mano, le ripete: “Non può stare qui. Gliel’ho detto”.
Ilaria continua a non badare a quello stupido particolare.
Con una familiarità disarmante per Marco, lo tira fino a dove il mare non arriva più con la sua danza.
Si siede a terra, attende che anche lui faccia altrettanto, poi, senza lasciargli il tempo di dire altro: “Mi ci voleva proprio un po’ di compagnia questa sera. Sei capitato al momento giusto”.
Si sdraia supina su quel materasso naturale Ilaria. Belle le stelle. Le fissa con un’intensità particolare. Bello il cielo in generale.
Marco sorride di quella buffa ragazza. Deve ammettere che non gli è mai capitata una situazione del genere. Di solito è lui a farsi avanti. Di solito ha a che fare con ragazze troppo timide anche per riuscire ad esprimere sentimenti piacevoli. Piacevoli come quelli che stava provando in quel momento. Sentimenti caldi, confusi, in parte sconosciuti.
Rimane a fissare Ilaria in silenzio per un po’.
Allora guarda anche lui le stelle, e di nuovo Ilaria, e di nuovo le stelle e di nuovo Ilaria.
“Se vuoi vado a prendere il binocolo in cabina. Così forse riuscirai a scorgerle meglio se dovesse caderne qualcuna”.
Che sciocca. Se ne era proprio dimenticata.
Agosto. Il 10 agosto. La notte delle stelle cadenti. La notte di San Lorenzo.
“Non serve. Le scie che lasciano sono così luminose da non passare certo inosservate. Piuttosto, sdraiati anche tu. Avrai qualche desiderio da affidare all’universo no?”
“E tu ne hai?”
Ilaria non risponde.
Poggiandosi su un gomito, torna a fissarlo negli occhi.
È bello. Nonostante l’oscurità ancora tutt’intorno, i suoi lineamenti sono ben chiari.
Un leggero movimento in avanti, la ricerca della sua mano, la ricerca del suo calore, del suo sapore… un bacio.
Tenero, nulla di più. Tanto tenero da far desiderare altro.
“Ne ho molti”.
Poi Ilaria si appoggia su quel torace muscoloso. Per nulla spaventata da quel suo comportamento. Dimentica di tutto quanto. Di tutto il resto.
Anche se di stelle ancora non ne sono cadute davanti ai suoi occhi… vuol provare a realizzare il suo desiderio più grande.
PS: Eccomi di nuovo qui, non sono sparita nel nulla. Anche se sembrava. Le giornate continuano ad essere lunghe e frenetiche e, come sono sicura capirete, il tempo per tutto questo rimane sempre troppo poco. Così, posto oggi un racconto scritto un pò di tempo fa per un concorso. Spero vi piaccia. A presto!
sabato 20 agosto 2011
Benvenuto Mat!!!
mercoledì 17 agosto 2011
ResiJoux Candy... PROROGATA LA SCADENZA!
domenica 31 luglio 2011
Se la pioggia va in vacanza & Co.
...che espressione "particolare"!! (che disastri quando ci si ostina a voler fare da soli... una vera impresa, tenere la macchinetta, essere il soggetto e riuscire a scattare una foto decente :-)))