domenica 3 novembre 2013

Tra le pagine di un’agenda

Novembre. 
La mente viaggia tra tanti pensieri. 
Forse perché novembre è il mese delle celebrazioni per i Cari defunti, o forse perché novembre è il mese che precede quello ultimo dell'anno. 
Forse perché è quella giusta via di mezzo tra l'essere ormai prossimi al Natale e l'esserne ancora distanti. 
O forse perché... essere a poche settimane dal 2014, novembre significa lasciarsi andare ai bilanci. 
Che siano personali o non, economici o emotivi... poco importa. Nell'assenza di frenesia che è tipica delle feste, novembre è il mese giusto per concedersi con calma a qualche ragionamento.
Novembre è' il mese dell'attesa, quello dei progetti e delle idee possibili (prima ancora che il tempo sarà volato in fretta e ci accorgeremo solo poi di essere riusciti nella metà - se siamo fortunati - di ciò che avevamo immaginato).... in vista di...
Allora, succede di trovare già pronte le vetrine di alcuni negozi. Mentre gli scaffali dei supermercati già abbondano di torroni, torroncini, pandori e panettoni. 
E' Novembre. Già si respira aria di Natale (e si pregusta l'intensificarsi che verrà) e, cercando di ignorare il clima mite fuori della porta, già si immagina di svegliarsi con la neve a render tutto bianco, con il silenzio che - almeno in zone di campagna - è tipico dell'inverno, con il freddo che è pungente, ma che il ricordo delle tribolazioni estive forse saprà rendere più sopportabile e con il cuore pieno di emozioni.
Adoro il Natale.
Non per i pacchetti sotto l'Albero. Anche se è piacevole trovarne, con il proprio nome scritto sopra.
Adoro il Natale per l'opportunità che offre, di stare in famiglia.
Preparare le pop corn, prima di guardare un film della tradizione. Lasciare che lo stereo suoni un cd di canzoni natalizie, mentre i biscotti nel forno stanno cuocendo... piccolo esperimento delle intenzioni mangerecce del 25 dicembre. Sbucciare un'arancia accanto alla stufa accesa e lasciare che la buccia si surriscaldi sopra la superficie in ghisa rovente... la stanza si riempie di un odore buono e pare inevitabile respirare a pieni polmoni. Preparare una cioccolata calda e provare per la prima volta ad aggiungere un pizzico di peperoncino. Buona.
Magari prendere un libro dallo scaffale, ignorare il fatto che il nome scritto sulla copertina sia lo stesso riportato all'interno della carta d'identità e raggiungere senza esitazione una pagina precisa.
Un lavoro a quattro mani che ha saputo sconfiggere la barriera del tempo. Leggo e, come sempre, penso a te... nonno!

Tra le pagine di un’agenda
(con il contributo di: Ennio Vagnarelli)


26 dicembre 2011.
Il giorno di Santo Stefano. Il giorno dopo Natale. Il giorno in cui suo padre – anni prima – aveva deciso di smettere di lottare contro la malattia; lasciandolo solo con sua madre.
Lui, all’epoca venti anni e poco più. Lei, cinquanta compiuti da poco. Entrambi, nonostante gli avvertimenti dei dottori, per nulla pronti a rinunciare a quella figura. A quel padre e a quel marito che, pensavano, ci sarebbe stato per sempre.

Asciugandosi di nascosto una lacrima, Luigi si alzò dalla tavola per un attimo. Lasciando gli altri a parlare di regali ricevuti, di regali solo desiderati e conservati in un angolino della mente per una ragione o per un'altra e di tutto il resto.
Si dovrebbe essere felici a Natale.
Eppure…
Eppure, Luigi sentiva nel cuore un peso. Come fosse stato schiacciato da un’incudine.
Non c’era verso di evitarlo. Non c’era verso di ignorarlo.
Veloce raggiunse il salotto e la scatola di sigari, che solo di tanto in tanto si concedeva.
Suo padre era stato un fumatore. Pure lui, non assiduo. Ma, Luigi ricordava ancora alla perfezione l’odore di fumo di sigaretta che – in qualunque stanza della casa si trovasse – si mescolava con quello del suo dopobarba; in note e aromi sempre inediti.
La soffitta. La soffitta era la stanza della casa dove suo padre amava fumare. Un po’, perché era quell’angolino tutto suo dove potersi sbizzarrire con le mille idee e i mille progetti che sempre gli animavano la mente. Un po’, perché – almeno – se fumava in soffitta, la mamma non avrebbe trovato niente da ridire e si evitava di dover correre da una parte all’altra della casa per aprire le finestre e fare uscire la puzza di fumo.
Sì. Immaginò che anche Letizia si sarebbe arrabbiata, se l’avesse trovato a fumare in salotto il giorno di Santo Stefano. Con gli ospiti ancora a tavola, nella stanza accanto.
Così, armeggiando per un po’ con accendino e tagliasigari, alla fine Luigi si decise a prenderne uno, a salire le scale e a raggiungere la soffitta.
Non ricordava il numero di volte che c’era andato, nei giorni successivi a quello del funerale. Respirare l’aria di quella stanza lo aiutava a illudersi che nulla fosse cambiato. Che suo padre fosse ancora su quella terra vivo e vegeto e che, presto, l’avrebbe sentito rincasare dal lavoro con la solita smania di sapere che cosa si sarebbe mangiato per pranzo o per cena.
Ma, l’illusione era comunque durata poco. Poi, nonostante le finestre rimaste sigillate in quell’angolo della casa, l’odore del padre aveva cominciato a farsi sempre più debole. Fino a sparire.
Allora, il cuore di Luigi aveva chiuso le porte con un tonfo sordo. Chiuse. Sigillate anche loro. Perché il dolore non riuscisse a distruggerlo. Perché l’amore non riuscisse a farlo sentire debole.
Era successo spesso, che gli altri glielo facessero notare. Era successo spesso che, accanto al suo nome, si sentissero parole come: freddo, glaciale, distante, pezzo di ghiaccio.
Ma, a Luigi non importava.
Anche se suo padre non avrebbe approvato, in quei trenta anni passati da quel lontano 26 dicembre non era riuscito a riaprirsi di nuovo alla vita e alle bellezze che, ogni giorno, nasconde in sé.

Tagliò la punta del sigaro con un gesto meccanico e, altrettanto meccanicamente, lo accese.
Non era sicuro che sarebbe riuscito a goderselo in santa pace, fino alla fine. Ma, cercando di non pensare al pranzo che continuava ad andare avanti due piani più sotto, prese la sedia che era stata di suo padre e si accomodò al tavolino.
Immediatamente, i ricordi si fecero di nuovo avanti nella mente. Prepotenti. A tratti, dolorosi.
Ripensò a tutte le volte in cui, da bambino, era salito fin lassù con i libri della scuola. A tutte le volte in cui si era seduto su quelle ginocchia, che aveva sempre considerato robuste. A tutte le volte in cui, sotto allo sguardo attento di quel babbo amorevole, aveva ripreso a fare i compiti. Quegli stessi, dannatissimi compiti che fino a un attimo prima proprio sembravano non volerne sapere di giocare a suo favore.
“Babbo, il problema di matematica non torna…”.
“Babbo, il riassunto di italiano è troppo lungo…”.
“Babbo…”.
Quante volte. Quante.
Luigi lasciò scendere dagli occhi l’ennesima lacrima. Avrebbe dato qualsiasi cosa, perché suo padre potesse essere ancora lì a dargli consiglio.
“Babbo…”.
Quella dolce, piccola parola gli sfuggì dalle labbra prima che riuscisse a serrarle.
Il sigaro acceso in mano, allora, non contò più. Il rumore della vecchia sveglia, che continuava a ticchettare sullo scrittoio poco lontano, si annullò all’improvviso.
26 dicembre 2011.
Luigi si alzò dalla sedia lentamente, quasi incerto.
Si rimise in piedi, avanzò ancora di più in direzione della scrivania e arrivò con la mano fino ad afferrare l’agenda che, nonostante i trenta anni passati, sia lui che la mamma non si erano mai sentiti di gettare via.
Era come ricordava. Di pelle. Un po’ usurata sugli angoli. Alcune pagine sgualcite.
Anche in quel caso, non avrebbe saputo dire quante volte aveva immerso il naso in quel piccolo mondo di carta. Quante volte, aveva scorso e riscorso con gli occhi quei fiumi di inchiostro nero.
Suo padre amava scrivere.
Pagine di diario contenenti la sua e la loro vita. Poesie. Ma, anche racconti.
Fu nell’imbattersi in uno di questi, che Luigi ebbe la sensazione di scoprire qualcosa di nuovo.
Sì. Anche se era più che certo che nuovo non potesse essere. Anche se aveva la piena consapevolezza di aver sfogliato quell’agenda – tutta quell’agenda – da cima a fondo e viceversa, centinaia e centinaia di volte.

Quando gli occhi ancora bagnati di lacrime si poggiarono su quel testo ordinato, per un istante credette di non averlo mai visto prima.
Iniziò a leggere e la stanza sembrò piombare in un silenzio, ancora più opprimente di quello che già c’era.

PRIMAVERA, ALLODOLE E AMORE

Correva il ruscello dagli argini rialzati, attraverso campi e prati, lambendo case, ravvivando orti e fiori…nascondendo una realtà che oggi è soltanto un sogno…Sogno splendido che il tempo non ha sfumato, sogno al quale, pur senza speranza, la mente ritorna con infinita dolcezza come ad oasi in un immenso deserto. Primavera esulta, lodole nel cielo trillano senza posa, lodole nei prati pigolano al sole di marzo, languore divino di creature in braccio all’amore…Eppure Carlo quel pomeriggio non pensava all’amore, camminava curvo con il fucile pronto a colpire, e con l’intento di far diventare 15 le 12 lodole appese alla cintura. Ma non era facile, poiché quel giorno non ne era entrata una e le poche che c’erano sembravano indemoniate; infatti anche allora con il loro pio-pio si alzarono fuori tiro. Carlo accucciato a terra, con il fischietto fra le labbra rifacente il verso, le seguiva con gli occhi sperando che si rimettessero poco lontano, o che gli passassero a tiro sulla testa, invece sorvolarono il ruscello e non le vide più nascoste dagli alti argini. Il giovane si rialzò asciugandosi il volto sudato e già abbronzato dal primo sole di marzo; accese una sigaretta e si incamminò nella direzione presa dalle lodole con quella speranza e tenacia che soltanto i cacciatori possiedono. Giunto al ruscello salì la scarpata e saltò sull’altro argine, lì inchiodato restò fermo a guardare…Sul prato sottostante, tra margherite e ciocche di viole un quadro meraviglioso giustificava la sua sorpresa, una bellissima fanciulla giaceva in dolce abbandono presa dal sonno in quel tepore di primavera. Linfa divina che violenta alimenti i giovani corpi, che prepotente addolcisci gli animi bruti immenso è il tuo potere, tuoi schiavi sono gli esseri che ti possiedono, disgraziati sono coloro che non ti conoscono. Ecco lì un uomo piegato al tuo volere, un essere di cui in un attimo hai annullato la mente, il suo cuore batte febbrile, il suo animo è una ridda di emozioni, il suo cervello non conta più…non ha che gli occhi, tutto il suo essere è concentrato negli occhi…vede una massa di capelli biondi, il sole li illumina, sembrano d’oro; due labbra vermiglie appena dischiuse sembrano pronte a baciare; un volto delizioso di bimba e bimba non è…perché no?...il cuore pazzo ripete bimba…bimba …perché no la sua bimba?...Ecco il cervello ricomincia a funzionare, ciò che prima aveva veduto limpido con una sola occhiata, ma poi dimenticato, ora l’osserva immoto e quasi calmo. Avrà forse venti ventun’anni, è assopita con la testa reclinata sopra il braccio sinistro disteso fra l’erba da poco nata, la mano stringe un libro rilegato in pelle marrone, il dito indice tiene ancora il segno; l’altro braccio è parzialmente disteso sul corpo mentre la mano sfiora le corolle di margherite, la veste è salita abbastanza sopra il ginocchio della gamba destra incrociata sulla sinistra. La pelle serica che il sole bacia per la prima volta dall’inizio dell’anno, manda riflessi indefinibili, una linea azzurra appena visibile dal ginocchio sale ad alimentare quel corpo perfetto, perdendosi nel mistero delle vesti…Carlo considera ora l’insieme di questa visione tranquillamente, con animo sereno; si siede sull’argine cautamente, timoroso di svegliarla, timoroso di ritornare nella realtà fugando una realtà che è sogno…Tiene stretto fra le mani, appoggiato sulle ginocchia, il fucile, e la sua stretta è un’inconscia carezza a questo strumento di morte una volta tanto mezzo di infinita dolcezza. Come dopo uno sforzo violento ed improvviso ora si sente stanco, spossato, forse il lungo camminare, forse la primavera, forse…la giovinezza che è in lui e che davanti a lui, immota, è pur ricca di tanta vita. Vorrebbe essere leggero come una piuma, scivolare sull’erba accanto alla fanciulla, respirare il suo alito, sentire i battiti del suo cuore…quanto è pazzo il cuore, gli ripete ancora “bimba, bimba” come se per lui bimba dovesse essere…bimba del suo cuore…ma non si sbaglia il cuore? E la realtà, e il risveglio?...ma ecco la bimba si sveglia...Carlo immobile come una statua non pensa più, guarda…guarda e sente il cuore che ha ripreso la sua marcia furiosa, e sente come per dono divino, che qualche cosa di meraviglioso sta per accadere, qualche cosa di cui non si renderà mai conto…La bimba si sveglia, si passa appena la mano destra sugli occhi, poi ha uno scatto, ora è seduta e lo guarda impaurita, Carlo è sempre immobile. Il sogno finirà, la fanciulla sparirà all’improvviso come all’improvviso è comparsa alla sua vista, questo aspetta, questo teme lui che non cede al suo cuore, ma il cuore non sbaglia…È meraviglioso, la fanciulla non ha più paura, solo un briciolo nel fondo degli occhi, occhi castani dai riflessi dorati come i capelli, occhi che parlano il loro linguaggio rapidamente, con decisione, inconsciamente. Ciò che era avvenuto per Carlo al suo apparire sull’argine, ora avveniva per la bimba al suo risveglio. Attimi eterni, attimi che l’uomo non può descrivere perché sono di Dio. Poi la bimba si riprese, schiuse le labbra al sorriso e una voce calda come il sole di marzo avvolse Carlo e lo attirò a sé. Ora i due giovani erano seduti uno accanto all’altro sul prato, lei parlava lentamente quasi soffocata da qualche cosa che non capiva, cercava di spiegare l’assopimento, cercava di spiegare il risveglio, ma non erano che parole, un desiderio folle si faceva strada nel suo animo e capì che era ciò che la soffocava; desiderio di appoggiare la testa sulla spalla del suo compagno, desiderio di sentire quella mano bruna sul suo volto…ed anche lei seppe con certezza che quando lui avesse parlato ciò sarebbe avvenuto…Ebbe di nuovo paura e incominciò a parlare più in fretta di cose futili, mentre pensava che non era ben fatto stare lì; capì che doveva andarsene capì che era ancora in tempo…ma non lo fece, Carlo le stava chiedendo il nome, Carlo le stava dicendo cose che altri non le avevano mai dette…Si chiamava Nadia, aveva ventidue anni ed era molto bella, abitava poco lontano in una villa dal tetto rosso, leggeva Kipling, e cosa inaudita per i suoi orecchi, stava ascoltando un uomo che la definiva brutta o meglio non bella. Stupefatta lo guardava, e mentre il suo orgoglio di donna corteggiata reagiva come sotto una sferza, tutto il suo essere attendeva avido altre parole, forse altre crude verità da quest’uomo rude che la dominava con la sua voce sincera, con la sua voce che tramutava in parole ciò che aveva nel cuore. Il suo orgoglio taceva per far posto all’ansia di udire ancora altre cose, che mai avrebbe pensato uomo avesse osato dirle in viso, ma erano cose tanto nuove e deliziosamente piacevoli. I suoi occhi non si staccavano da quella bocca che parlava, e non si accorse che non udiva più…vedeva solo quella bocca e sapeva solo che l’avrebbe baciata. Il giovane tacque come se avesse intuito il desiderio e i due volti furono a contatto, ma la bimba si ritirò leggermente evitando le labbra, schermaglia d’amore, tattica di donna che attende una dolce violenza. Ma l’uomo era un presuntuoso, come poi lei gli disse sorridente, e non la costrinse al bacio; ricominciò a parlare più sincero di prima, più rude di prima, quasi brutale, le gettò in viso come scudisciata il desiderio che aveva intuito, le disse che non l’avrebbe baciata sebbene lo desiderasse immensamente, perché anche lei immensamente lo desiderava e di spontanea volontà doveva farlo. La fanciulla non piegò presa da quel gioco inusitato ed eccitante, sviò il discorso, mentre l’animo invocava quel bacio che stava diventando un tormento. E nel tepore di marzo, mentre due corpi bruciavano, si parlò di caccia, di libri, di pesca, di donne e poi…ancora di amore. Ora le due bocche  si avvicinarono insensibilmente poi tacquero, le labbra furono sulle labbra unite in un bacio che fu il trionfo della giovinezza e il mutuo passaggio di mute parole fra gli animi. Da dietro l’argine, a volo radente sbucò uno stormo di lodole, videro i giovani, videro aperto sul prato il fucile, videro gli ottoni lucenti delle cartucce come due occhi di fuoco, e trilli di gioia solcarono l’aria verso il cielo, nella certezza che almeno per quel giorno, avrebbe taciuto inerte lo strumento di morte, abbandonato tra i fiori vinto dalla più formidabile potenza che esista nel mondo: l’Amore.

Arrivato fino a quell’ultimo punto, Luigi scansò alla svelta quelle pagine da sotto gli occhi, per evitare che le lacrime – cadendo – rovinassero quel capolavoro.
Suo padre. La sua incrollabile fede nella vita. La sua assoluta certezza, riguardo all’immenso potere dell’amore.
Bastava soffermarsi su quell’ultima parola, per capirlo. Una A maiuscola.
Rimase con l’agenda aperta in mano, per qualche secondo ancora. Fino a che si sentì chiamare dal piano di sotto.
La voce di Letizia sembrava tutto, fuorché tranquilla.
Svelto, allora, Luigi lasciò la soffitta. Dimenticandosi del sigaro e di tutto il resto, ma portando con sé l’agenda del padre.
Quando gli altri lo videro tornare a tavola, le due rampe di scale scese di corsa gli avevano lasciato un discreto fiatone. Gli occhi rossi rivelarono subito che aveva pianto.
“Ma, si può sapere…”.
Luigi non diede modo alla madre di terminare la frase, alzando una mano per zittirla.
Quindi, bevuto un piccolo sorso d’acqua, ignorò completamente la fetta di torta poggiata sul piatto e, guardando tutti intorno a sé, disse solamente: “Vorrei leggervi una cosa”. Ricominciò d’accapo.

Primavera, Allodole e Amore è un racconto scritto da Ennio Vagnarelli. Tratto da “In bocca al Lupo” mensile di caccia e pesca della sezione prov. Cacciatori di Perugia (dicembre 1952)

Tutto d'un fiato, fino all'ultimo punto. Per poi ricominciare d'accapo.