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lunedì 30 ottobre 2017

Lo spazio di 2500 battute... "Tutto ciò che conta"

Scrivere. Un bisogno che non smette di farsi sentire. E si fa ancora più forte, quando si imbatte in una sfida. Un bando di concorso. Scoprirlo in ritardo, ma provarci comunque. Non a partecipare; quello no. Provare a scrivere ciò che è richiesto. Un racconto breve. Non superiore alle 2500 battute; per l’esattezza. Duemilacinquecento battute che riescano a parlare di vita contemporanea e di ciò che potrebbe essere trappola per l’uomo. Ci provo. Lo scrivo per questo piccolo, grande spazio personale. Eccolo qui…

Tutto ciò che conta

«Ok. Dammi mezz’ora».
Riapro piano la porta del bagno, convinto di essere riuscito a non farmi sentire.
Viola è davanti a me. Quel suo broncio, in grado di far tremare anche il cuore più duro.
«Nooo!». Urla, lasciando andare due lucciconi.
«Avevi promesso. Mi avevi giurato che oggi, cascasse il mondo, ci saremmo andati».
Io e il mio vizio di fare promesse, che non sono sicuro di poter mantenere.
Mi inginocchio davanti a lei e provo a farla ragionare: «Lo so, tesoro. Mi dispiace, ma… Luca ha chiamato e vuole che lo raggiunga. È per una riunione importante».
Non sono più in grado di parlare con mia figlia. Forse, non lo sono mai stato.
Passiamo del tempo insieme, è vero. Ma è come se ogni volta pensassi di avere a che fare con qualcuno di diverso da lei.
«No, papà…».
Riesco a mandare le sue proteste in sottofondo e mi concentro sulla ricerca della cravatta giusta da indossare.
Nuovi squilli.
È un lampo. Viola afferra il cellulare da sopra il letto e corre verso il bagno.
«No! Viola!». Il tappeto scivola sotto i miei piedi, ma riesco a non cadere. «Ridammelo!”.
Il mio urlo la spaventa. Riesce a chiudersi la porta alle spalle.
La sento rispondere a Luca e dirgli che sarei rimasto con lei. Sento il rumore dello sciacquone.
Un minuto. Due. Tre. Perdo il conto.
Quando riusciamo a guardarci di nuovo, il suo viso è una maschera di lacrime. I singhiozzi sono prepotenti.
Dov’è il cellulare?!?
Non ho il coraggio di domandarlo. Non ho il coraggio di andare a vedere. Lei corre in camera.
La fisso, mentre stringe con forza il suo orsacchiotto.
Dovrei abbracciarla io in quel modo. Sono un padre orribile. Assente e orribile.
Squilla il secondo cellulare. Quello che Viola non conosce e che mi aiuta a non mescolare troppo le telefonate di lavoro con quelle personali.
«Lo so… mi dispiace… Viola non si rende conto…». È un balbettio di scuse, il mio.
Luca non mi lascia il tempo di finire neppure una frase.
«Ci sono in ballo un sacco di soldi!», grugnisce prima di sbattermi il telefono in faccia.
Lo so. Mi dispiace.
Provo a risolverla con Whatsapp. Luca capirà. Conosco il dolore per il divorzio dei suoi genitori, quando era piccolo. So che riuscirà a mettersi nei panni di Viola.
Corro da lei.
«Tesoro». La strappo via dall’orsacchiotto e la tiro addosso a me. «Scusami». Le accarezzo i capelli. «Hai ragione, avevo promesso».
La costringo a guardarmi, mentre cerco di regalarle un sorriso rassicurante: «Andiamo a prenderlo?».
«Miaooo!». Schizza in bagno per prepararsi.

Lo prendo per un sì.

giovedì 18 agosto 2016

Dodici minuti dalle Dodici

Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che, imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta, anche se poi arrivava sempre quel pensiero cattivo a ricordarle che i desideri non si avverano; solo perché gli occhi catturano l’immagine di due numeri gemelli dentro un display. O perché due lancette, una più veloce dell’altra, a un certo punto si ritrovano a segnare lo stesso valore.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che,  imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Lo faceva con la stessa noncuranza con cui, almeno una volta la settimana, entrava in tabaccheria per chiedere un ‘gratta e vinci’. Perché non si può sperare di essere fortunati, se non si è disposti a dare una possibilità – anche più di una – alla fortuna. Anche se poi non le era ancora mai capitato di vincere qualcosa e gli unici soldi che era riuscita a mettere nel portafogli, che non provenissero dal suo stipendio, li aveva effettivamente incontrati per strada, in fondo a una via solitaria, poco lontano da una cicca di sigaretta sporca di rossetto.
Una piccola banconota da cinque euro. Non certo quel che basta per dare una svolta alla vita.
Incontrarla a pochi metri da un bar, con lo stomaco che aveva appena cominciato a brontolare per la fame e con la consapevolezza che l’ora di pranzo fosse ancora abbastanza lontana da non riuscire a resistere fino ad allora, l’aveva convinta che potesse essere il momento giusto per uno spuntino. Cinque euro sono più che sufficienti per un cornetto alla marmellata, per un cappuccino, di quelli con il supplemento di schiuma e di polvere di cacao che non si dimenticava mai di chiedere ovunque fosse, e per un ‘gratta e vinci’ che, a giudicare dall’insegna blu sopra la porta, con molta probabilità avrebbe trovato appesi in lunghe file dietro il bancone.
Ci sono bar che, a una certa ora, riescono a essere più affollati di una piazza in un giorno di mercato e bar che – come quello – preferiscono garantire alla clientela una giusta quiete costante. Erica era felice di essersi imbattuta in un posto del genere. Poté poggiare su una sedia le sue buste degli acquisti, senza che a qualcuno venisse in mente di chiederle un attimo dopo se per caso quella fosse una sedia libera e se, per gentilezza, avrebbe potuto prenderla.
Poté allontanarsi dal tavolo, senza portare con sé il timore che qualcuno avrebbe potuto approfittare della sua assenza per toccare le sue cose o, e non seppe stabilire se sarebbe stato peggio, rubarle il posto. Poté rimanere davanti il bancone delle cose da mangiare per tutto il tempo che reputò necessario, senza per questo sentirsi in imbarazzo davanti al barista. Senza rischiare di essere strattonata da altri affamati; più affamati di lei. E potendo scegliere (senza fretta) effettivamente quello che avrebbe voluto scegliere, scegliendo con gli occhi.
Grazie alla calma del luogo si accorse infatti di essere entrata – sì – per un cornetto alla marmellata e per un cappuccino con tanta schiuma, ma di voler chiedere un panino con prosciutto cotto e maionese e un bicchiere di spremuta d’arancia.
Chiedeva sempre una spremuta d’arancia, anche se poi – il più delle volte – in molti bar si ritrovava costretta a ripiegare sul succo in bottiglietta; che non ha niente a che vedere con il sapore delle arance appena spremute.
L’uomo dietro il bancone impiegò pochissimi secondi a spaccare i tre frutti necessari per riempiere un bicchiere e a Erica parve che l’aria dentro il locale s’impregnasse all’improvviso di quel buon odore di agrumi.
Tornò a sedersi insieme al suo panino e non riuscì a evitare di sorridere imbattendosi nel suo riflesso dentro a uno specchio a muro un po’ segnato dal tempo.
«Ecco a lei». A giudicare dalla pelle delle mani Erica avrebbe detto che quel barista non potesse essere tanto in là con l’età, ma le rughe sul viso tradivano una vita già vissuta per la maggior parte e la luce negli occhi, seppur ancora presente, sembrava essere una di quelle luci non più fresche come quelle che si trovano in gioventù o, comunque, nel buono degli anni.
Quel bar era il bar giusto anche per questo. Segno che i cinque euro trovati per strada non si erano fatti trovare davanti ai suoi piedi per caso. Per la prima volta qualcosa l’aveva spinta ad entrare proprio lì, in quel posto che aveva sempre ignorato. E si era ritrovata ad avere a che fare con una persona sconosciuta, ma che – a pelle – già godeva di tutta la sua fiducia. Una persona che, in qualche modo, la faceva sentire bene.
«Grazie!». Prese il bicchiere dal piccolo vassoio d’acciaio, cercando di nascondere il tremore delle mani che alle volte era in grado di procurarle un disagio. Aveva sentito diversi medici al riguardo e, per fortuna, tutti i controlli fatti avevano portato a credere che non ci fosse nulla fuori posto. Così, visto che le mani continuavano a ballare una danza tutta loro  di tanto in tanto, alla fine ad Erica era stato detto che – con molta probabilità – poteva trattarsi di una reazione emotiva. Reazione a che cosa? Non era dato sapere. Emotivamente parlando, però, Erica avrebbe preferito non dover aggiungere anche quello alla sua lunga lista di ‘difetti’.
«Ha trovato qualcosa di interessante in libreria?». Il barista indicò le buste con un cenno, scostandosi di qualche passo in direzione del bancone. Dei tre libri che Erica aveva appena acquistato, solo di uno era assolutamente sicura e fu quello di cui gli parlò.
«Una bella storia d’amore. Una di quelle con il lieto fine sicuro, qualunque cosa accada in mezzo alle pagine». Sorrise. A ben pensarci, avrebbe potuto approfittare di quella sosta imprevista in quel bar per leggere un po’. Ma non lo fece.
Ignorando l’imbarazzo di parlare guardando dritto negli occhi il suo interlocutore, chiese invece: «A lei piace leggere?». Il bar era tanto bizzarro da non tenere in giro neppure un quotidiano, perciò c’era da credere che il barista avesse qualche tipo di avversione per la parola scritta e che gli avesse fatto quella domanda solo per dimostrarsi cordiale.
Quando Erica lo vide tornare di nuovo dietro il bancone per tirar fuori da un cassetto una vecchia agenda di pelle e una bellissima penna stilografica, non riuscì a evitare di spalancare la bocca per lo stupore.
«Mi piace scrivere, anche se non sono poi così bravo».
«Sta scrivendo qualcosa, adesso?».
Il sorriso del barista lasciava intendere di sì, ma la sua testa rispose comunque muovendosi a destra e a sinistra.
«Peccato. Mi sarebbe piaciuto poter leggere qualcosa scritto da qualcuno che…». Erica interruppe la frase a metà, consapevole che chiuderla con la parola che aveva in mente – ossia ‘conosco’ – non fosse proprio dire la verità. Sarebbe stato più giusto affermare che le sarebbe piaciuto poter leggere qualcosa scritto da una persona cui poter stringere la mano, poi, per congratularsi del lavoro fatto. Questo, sì! Anche se, a ben pensarci, anche in tal caso non era certa che le parole del barista le sarebbero piaciute al punto da congratularsi con lui.
Scelse di rimanere in silenzio, concentrandosi sull’ultimo morso del suo panino.
«Potrebbe tornare qui fra qualche giorno e chiedermi di nuovo se ho qualcosa di finito da farle leggere, sono sicuro che per allora mi sarò fatto venire in mente almeno una piccola storia». Il barista aprì le pagine della sua agenda fino a trovarne una completamente bianca e svitò il tappo della sua stilografica come a lasciar intendere che si sarebbe messo subito all’opera.
Erica non riuscì a evitare di ridere di gusto. Non fosse stato per l’imbarazzo della richiesta, gli avrebbe domandato la possibilità di fare una fotografia insieme. Lei, lui, l’agenda e quella stilografica che poteva considerarsi, senza sbagliare, la fuoriclasse delle penne.
Continuando a tenere il cellulare in tasca, però, preferì alzarsi per raggiungere la cassa e pagare il conto.
Aveva già allungato la banconota da cinque euro oltre il bancone, che si sentì dire: «12 e 12. Esprima un desiderio…». Non era sicura che valesse, così, su comando. Né era sicura che fosse valido esprimere un desiderio in quel caso, per il fatto che non erano stati i suoi occhi a catturare la coincidenza. Ma Erica preferì ubbidire, senza pensarci troppo. Era comunque un’occasione in più, che avrebbe potuto dare a tutto ciò che avrebbe voluto diventasse realtà.
Per i desideri vale un po’ quel che vale per la fortuna. Se non si è disposti a dar loro un’opportunità quando se ne presenta l’occasione, poi non ci si può lamentare del fatto che non si avverino.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che, imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Pensò fosse buffo che anche quel barista custodisse in sé la stessa mania.
Lesse lo scontrino per controllare che fosse vero. Che fossero davvero appena passati dodici minuti dalle dodici.
In quel momento lesse anche un nome… Giuseppe.
«È lei Giuseppe?». Stavolta, la testa dell’uomo si mosse in su e in giù per rispondere di sì.
Erica pensò che un tipo del genere non l’avrebbe certo rintracciato su Facebook. Per questo, si affrettò ad allungare una mano e a presentarsi: «Mi chiamo Erica…». Avrebbe voluto raccontargli del modo bizzarro in cui aveva deciso di entrare in quel bar per la prima volta, ma non lo fece.
Non chiese nemmeno il ‘gratta e vinci’ che aveva immaginato avrebbe chiesto prima di uscire.
Quei cinque euro trovati per strada le avevano appena pagato una delle colazioni più tranquille, buone e insolite della sua vita e le avevano appena regalato la possibilità di esprimere un desiderio. Non poteva chiedere di più.
Forse, la prossima volta che sarebbe tornata a trovarlo, avrebbe potuto giocare una partita con la fortuna. E, magari, Giuseppe le avrebbe fatto trovare una storia scritta ispirandosi a quel loro breve attimo insieme. Magari, Giuseppe avrebbe potuto scrivere un racconto che parlasse dei desideri che si esprimono, quando il tempo è fatto di numeri uguali. Magari, lei avrebbe fatto in tempo a finire il libro di cui gli aveva accennato e avrebbe potuto raccontarglielo con maggiore precisione. Avrebbe potuto chiedere un’altra spremuta, per respirare di nuovo l’odore del frutto fresco nell’aria, o scegliere di farsi venire i baffi bianchi; sorseggiando un cappuccino schiumoso.
Aveva la certezza che sarebbe tornata in quel posto ed era comunque tutto ciò che contava.
Alle 12 e 18 si salutarono con un: «Arrivederci!» detto all’unisono.
Pare che alcuni esprimano desideri anche in situazioni del genere, quando la stessa parola esce da bocche differenti nello stesso momento.
Loro… no! Loro avrebbero aspettato di nuovo di imbattersi in ore e minuti uguali.


martedì 19 aprile 2016

A chilometri di distanza: "Doversi divorziare"

Ecco che finisce anche qui… la mia prima ‘storia Wattpad’!
Scelgo di fare con il blog quello che alle volte è tipico di alcuni canali Tv… replico; differisco.
In un modo o nell'altro, spero di poter raggiungere il maggior numero di persone possibile. Magari, qualcuno potrebbe incuriosirsi. Magari, a qualcuno potrebbe piacere. Magari, qualcuno potrebbe decidere persino di iscriversi a Wattpad e… chissà! Potrebbe essere divertente…
Lascio qui questa primissima, piccolissima parte. La storia ne conta già quattro, ma ci sarà ancora un bel daffare, prima di riuscire ad arrivare alla fine. Vi va di dare un’occhiata? Magari di dirmi che cosa ne pensate?
Lo lascio qui… alla prossima!  





PARTE 1: 
Doversi divorziare

Trent'anni compiuti il mese scorso.
Un primo giorno di primavera che non mi aspettavo di vivere in maniera tanto triste. Forse sarebbe meglio dire in maniera tanto solitaria; ecco. Escludendo la compagnia dei pensieri. Quelli soliti, quelli deprimenti, che non mancano mai.
Parenti e amici avrebbero voluto poter festeggiare tutti insieme. Sono stata io a rifiutarmi in maniera praticamente categorica e, per la prima volta nella vita, sono riuscita a farmi dare ascolto.
Non si può festeggiare i trent'anni con una torta, con le candeline, con lo spumante e con i palloncini dopo aver deciso di doversi divorziare.
Doversi. Proprio così.
Fosse stato per me, avrei continuato a scegliere quella strada che di solito si percorre, in un matrimonio, andando incontro al tradizionale – forse, oggi nemmeno troppo – finché morte non ci separi. Invece, a separarci ci ha pensato una Bionda.
Pare sia una di quelle cose per cui ci si ritrova costretti a dire che è la vita. Che può capitare e che non ce ne se può fare un cruccio. Non in eterno, almeno.
Sono passati due anni da quando l'ho scoperto, ma per davvero io non mi sarei voluta dare per vinta. È la vita, un corno!
Fosse stato per me, avrei preferito metterci una pietra sopra e provare ad andare avanti. Adesso sono di più dell'idea che avrei anche potuto mettere una pietra sopra alla Bionda, per eliminare il problema alla radice; insomma. Ma è considerato reato e forse il tempo in galera non passa in maniera tanto agevole, rispetto alla vita di fuori.
No. Non sarebbe stato un buon piano. Forse è meglio farsene una ragione e andare avanti.
Allora, ci sto provando. Provo a considerare questo trentesimo compleanno appena trascorso come una sorta di linea di partenza e provo a ridare il via alla mia vita. Tanto per cominciare, ho deciso di cambiare città.

sabato 2 aprile 2016

Pianeta Wattpad: A chilometri di distanza

È da un po’ che ci stavo girando intorno. Sapevo che non sarei  riuscita ad aspettare troppo, prima di provarci anch’io. La storia vive esattamente nella dimensione in cui è presente on-line. Stracciando l’idea di bozze, di appunti vari e di capitoli scritti in anticipo. Fregandosene del fatto che non sia l’unico ‘progetto di parole’ del momento. Quando l’altro giorno l’ho sentita arrivare, in mezzo ad altri pensieri, ho deciso di rischiare insieme a lei. Con lei. Non ci si prepara prima. Non ci si arrovella troppo sul: “Chissà che cosa ne penseranno?”. Si improvvisa. Si va in scena, nel momento stesso in cui si prende forma dentro alla Fantasia. Ci si diverte o, quantomeno, si prova a farlo. Chissà…

Vi lascio il link... 


Cosa ne pensate?
Alla prossima!!!

domenica 27 settembre 2015

Ballo in Piazza

Quei piccoli ricordi che arrivano all'improvviso. Belli. Semplici. Comunque speciali.
Facebook dice che oggi Jovanotti compie 49 anni. Auguri! Cerco tra le sue canzoni la colonna sonora per questa giornata. Mica facile, le sue mi piacciono tutte. Mi imbatto in Safari e penso possa fare al caso mio. Mentre l'ascolto, come al solito divago con i pensieri e... mi ricordo di questo. 
Un'insieme di ispirazioni. La bellezza di una sua vecchia canzone scoperta per caso, la magia di un messaggio ricevuto da un'amica virtuale. Il rimanere a guardare le due cose fondersi insieme nella mente, per poi provare a raccontarle insieme. Il tutto condito con una manciata di fantasia e con una pizzico di polvere di stelle; perché è importante non smettere mai di credere nella forza dei propri Sogni!

Il racconto è uno di quelli della raccolta "Sotto l'Albero". Siamo nel 2012. La scrittura risale a un anno prima. Lo rileggo e noto delle piccole differenze, rispetto al mio stile di oggi. Una consapevolezza che porta con sé un pizzico di piacere, perché vuol dire essere riuscita a crescere in qualche modo. Ma avverto anche un pizzico di fastidio, nel sentire presente quella parte di me che, dovesse riscriverlo adesso, non userebbe le stesse parole.
Consiglio di lettura: YouTube alla mano, cercate il brano. E' bellissmo! :-D
Il titolo della canzone? Il Re. E' il 1997...
Ok! Lo cerco io per voi... ecco il Link! Basta un click.  
Buona domenica a tutti, alla prossima!

Ballo in Piazza


Hey, puoi veder la mia corona? Guarda il colore rosso del mantello
e questo trono ed il tappeto guarda
io sono il re e questo è il mio castello…

La voce di Angelo era più dolce che mai. L’orecchio di Alessandra ed il collo, piacevolmente accarezzati da quel respiro caldo. Gli occhi, fissi sul cielo stellato sopra di loro.
Alessandra stava cercando di non mettersi a piangere. Ma una lacrima dispettosa sfuggì comunque al suo controllo; per cadere dritta, dritta sopra alla giacca nuova di lui.
Respirò profondamente, prima di immergersi per l’ennesima volta nella profondità di quello sguardo che l’aveva fatta innamorare mesi prima.

…Il regno mio si estende all’infinito
Lungo le valli, i monti, il cielo e il mare
Io sono il re del tempo e della storia
Io sono il re venitemi a guardare…

Le labbra di Angelo, illuminate appena dalle luci gialle e lontane dei faretti, continuavano a muoversi su quella canzone.
Quella canzone, che lento non era. Ma che… era tutta loro.
Alessandra lo strinse ancora più forte a sé e mosse la mano piccola, in quella più grande di lui, fino ad intrecciare le dita con le sue.
Avrebbe voluto confessargli per l’ennesima volta quanto lo amava, ma tacque.
Sperando di non inciampare nei laccetti delle scarpe, che sapeva di non aver stretto bene, continuò a ballare.
Se era vero ciò che le avevano sempre detto sul primo giorno dell’anno; se era vero che era da considerarsi un po’ lo specchio di tutti i restanti, allora quel duemiladodici era cominciato sotto il migliore degli auspici.
Un desiderio che si realizza è un battito di cuore più forte degli altri.
Ricordava di aver parlato con Angelo di quel suo sogno speciale, ma… non pensava che Angelo l’avrebbe presa tanto sul serio.
Era stato l’agosto prima in spiaggia a Fregene, sdraiati sui lettini dopo una lunga nuotata.
“Perché, quel libro sempre appresso?”. Le aveva chiesto lui sorridendo, mentre lei era già pronta ad aprire per l’ennesima volta quelle pagine.
Quindi, incapace di trattenere l’entusiasmo, Alessandra aveva cominciato a raccontargli di quella sua vacanza di anni prima a Gubbio.
Insieme con i genitori era andata a trascorrere qualche giorno in Umbria e, camminando per le vie della città dei Ceri, si era imbattuta nell’immagine della copertina di quel libro.
Il manifesto annunciava alla cittadinanza una presentazione ormai passata, ma… ad Alessandra era bastato fissarsi per caso su quella che sembrava essere una bella storia d’amore, per decidere che alla prima libreria che avrebbe incontrato ne avrebbe acquistata una copia.
Da allora, rileggeva quella storia almeno una volta all’anno.
“Spero di poter vivere anch’io un amore così, un giorno”. Le aveva detto arrossendo.
Un rossore che era andato peggiorando, quando Angelo – sorridendo a sua volta – le aveva chiesto: “E quale sarebbe la parte che ti piace di più?”.
Alessandra confessò di ripensare spesso a quel sogno che la protagonista aveva fatto durante un viaggio in pullman, di perdersi nell’incanto di un romantico ballo in piazza Grande e di rimanere proprio senza fiato ogni volta che nella mente riusciva a focalizzare una scena simile.
“Ti andrebbe di leggerlo per me?”. Angelo sembrava sincero, anche se Alessandra non poteva negare di aver pensato che la stesse prendendo in giro.
Un attimo. Un solo attimo, poi quel pensiero svanì e tutto ciò che rimase fu la bellezza di poter condividere quel piccolo momento.
Aprì il libro fino a pagina trentasei e lesse sicura.
Non le era mai piaciuto leggere ad alta voce, ma… farlo per Angelo sembrava non pesarle affatto.

…Perché sono innamorato
E sono corrisposto
Io sono il re, io sono il re di questo posto
Senza regno né corona
Con una donna che mi vuole bene…

Quella parte della canzone… quelle parole…
Alessandra sentì una nuova lacrima rigarle il viso e la osservò morire nello stesso punto della giacca; dove era morta la prima.
“Ti amo”. Anticipò di una frazione di secondo il luccichio di un flash.
Poteva essere che turisti arrivati sin lì da chissà dove stessero immortalando l’imponente bellezza del palazzo dei Consoli; a ferma testimonianza di un orgoglioso: “Ci sono stato anch’io”.
Ma poteva anche essere che qualcuno lì avesse notati in mezzo a tutto il resto, ballare stretti come se il mondo fuori non esistesse, ed avesse deciso di immortalare quella testimonianza. Rendere indelebile un amore forte e raccontare agli amici una volta a casa – magari davanti ad una pizza e con in mano un bicchiere di birra – che si aveva avuta la fortuna di esserci; di fronte alla dimostrazione del più potente dei sentimenti.
Alessandra sorrise appena.
Poi, prendendo Angelo in contropiede, si schiarì la voce e iniziò a cantare insieme a lui.
Poco, ma sicuro, se Jovanotti li avesse sentiti in quel momento non sarebbe riuscito a farsi sfuggire un applauso; nemmeno per sbaglio.
Ma niente rende ridicoli, se la decisione di fare parte dal cuore e porta con sé le giuste motivazioni.
Alessandra avrebbe voluto gridare al mondo intero la sua fortuna.
In fondo, però, bastava che fossero due le orecchie tese ad ascoltare.

… Io sono il re, ma lo so solo io
E lo sai solo tu amore mio
Nessuno può veder la mia corona
Ma sono il re, io sono il re in persona…

Una giravolta e un’altra ancora. Angelo continuò a farla danzare, come se stessero ballando sul più importante dei palcoscenici.
I suoi occhi si persero per l’ennesima volta in quelli di lei e – in quel momento – furono sue, le lacrime a scendere.
“Ti amo. Da sempre”.

…Perché sono innamorato
E sono corrisposto
Io sono il re
Io sono il re di questo posto
Senza regno né corona
Con una donna che mi vuole bene
Con una donna che mi vuole bene
Con una donna che mi vuole bene…

Sorrisero. Le dita, ancora intrecciate.
Ad Alessandra parve di sentire nell’aria perfino il suono dei piatti, il rumore dei tamburi e il trillo dei flauti.
Un attimo di silenzio ancora, prima di un tenerissimo bacio.
Il tocco delle labbra. Il suono possente del Campanone che rintoccava l’ora.
Sì, Alessandra non aveva più dubbi.
Quella piazza…
Tutto e tutti, in quella piazza, stavano vivendo insieme a loro quel magico momento.
Lasciò che la lingua di Angelo la accarezzasse ancora per un po’, poi – seppur dispiaciuta – si staccò da quella bocca sorridente e chiese: “Pizza?”.
Il tempo da trascorrere in quella bellissima città rimaneva poco, ma… Alessandra sapeva esattamente dove andare.
A passo lento lungo via dei Consoli, fino ad arrivare di fronte alla fontana del Bargello.
“Il battesimo dei matti lo rimandiamo alla prossima, vuoi?”.
Era fuori discussione, che sarebbero tornati in quel posto; ogni volta che sarebbe stata loro possibile.
E Alessandra non poté fare a meno di impazzire di gioia, al solo pensiero.
Strinse ancora una volta le braccia intorno al collo di lui, si mise ancora una volta in punta dei piedi per poter arrivare a baciarlo senza che dovesse essere lui ad abbassarsi, poi – con lo stesso filo di voce con cui lo aveva accompagnato cantando – disse: “Grazie, per avermi concesso questo ballo. Sei il mio Angelo”.
Nulla di più.

In fondo, non c’era nient’altro da dire.

mercoledì 23 settembre 2015

Sveglia presto e... 'incontri curiosi'!

Ricordarsi di non tralasciare niente, quando si tratta di spolverare. 5.45 del mattino. Già all'opera davanti al computer,  mi piace sempre di più questa nuova abitudine. La lampada sul comodino è accesa e, subito, cattura l'attenzione di una cimice verde. Io odio le cimici! (Penso sia un odio piuttosto diffuso in giro). Cerco di ignorarla, anche se il rumore del suo ronzio è talmente tanto forte che disturba i miei primi pensieri precari. Aspetto che se ne vada di lì, sarà questione di poco. Niente da fare. Continua a ronzare e... a sollevare polvere. Come caspita c'è finita tutta quella polvere nella lampada? Urge trovare una risposta a interrogativi insistenti: 1 - quando è che ho spolverato l'ultima volta? Non ho appuntato la data sul calendario, ma guardando il comodino mi rendo conto che non è passato molto tempo. 2 - perché mi sono dimenticata della lampada? Ricordarsi di non farlo mai più.  3 - a parte farmi rischiare un feroce attacco di starnuti, la cimice verde vorrà morire arrostita come fosse un kebab sullo spiedo? Forse è una cimice che, oltre che darsi da fare con le pulizie che io ho saltato, sa leggere nel pensiero. Perché solleva un’ultima manciata di granelli con le zampine, che non attecchiscono facilmente sulla superficie verniciata e liscia della lampada, e se ne va. Non riesco a vedere dove va a finire, ma – vista l’ora e considerato il ritorno del silenzio – la immagino volare via con atteggiamento stizzito e con l’intenzione di nascondersi bene per schiacciare un pisolino, prima che sorga il sole. Torno alle mie pagine virtuali, alle mie parole. Chissà se anche la mia protagonista si troverà mai ad avere a che fare con una cimice? L’idea mi solletica non poco e la descrizione di una scena in particolare affiora nella mente. Non è il momento di inserirla, ma spero di ricordarmene quando sarà il tempo giusto. Sorrido. Mi piace quando le idee nascono da ispirazioni momentanee, da casualità, da fatti piccini, piccini, picciò… non abbastanza, però, per passare inosservati. È un buon inizio di giornata!