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domenica 27 settembre 2015

Ballo in Piazza

Quei piccoli ricordi che arrivano all'improvviso. Belli. Semplici. Comunque speciali.
Facebook dice che oggi Jovanotti compie 49 anni. Auguri! Cerco tra le sue canzoni la colonna sonora per questa giornata. Mica facile, le sue mi piacciono tutte. Mi imbatto in Safari e penso possa fare al caso mio. Mentre l'ascolto, come al solito divago con i pensieri e... mi ricordo di questo. 
Un'insieme di ispirazioni. La bellezza di una sua vecchia canzone scoperta per caso, la magia di un messaggio ricevuto da un'amica virtuale. Il rimanere a guardare le due cose fondersi insieme nella mente, per poi provare a raccontarle insieme. Il tutto condito con una manciata di fantasia e con una pizzico di polvere di stelle; perché è importante non smettere mai di credere nella forza dei propri Sogni!

Il racconto è uno di quelli della raccolta "Sotto l'Albero". Siamo nel 2012. La scrittura risale a un anno prima. Lo rileggo e noto delle piccole differenze, rispetto al mio stile di oggi. Una consapevolezza che porta con sé un pizzico di piacere, perché vuol dire essere riuscita a crescere in qualche modo. Ma avverto anche un pizzico di fastidio, nel sentire presente quella parte di me che, dovesse riscriverlo adesso, non userebbe le stesse parole.
Consiglio di lettura: YouTube alla mano, cercate il brano. E' bellissmo! :-D
Il titolo della canzone? Il Re. E' il 1997...
Ok! Lo cerco io per voi... ecco il Link! Basta un click.  
Buona domenica a tutti, alla prossima!

Ballo in Piazza


Hey, puoi veder la mia corona? Guarda il colore rosso del mantello
e questo trono ed il tappeto guarda
io sono il re e questo è il mio castello…

La voce di Angelo era più dolce che mai. L’orecchio di Alessandra ed il collo, piacevolmente accarezzati da quel respiro caldo. Gli occhi, fissi sul cielo stellato sopra di loro.
Alessandra stava cercando di non mettersi a piangere. Ma una lacrima dispettosa sfuggì comunque al suo controllo; per cadere dritta, dritta sopra alla giacca nuova di lui.
Respirò profondamente, prima di immergersi per l’ennesima volta nella profondità di quello sguardo che l’aveva fatta innamorare mesi prima.

…Il regno mio si estende all’infinito
Lungo le valli, i monti, il cielo e il mare
Io sono il re del tempo e della storia
Io sono il re venitemi a guardare…

Le labbra di Angelo, illuminate appena dalle luci gialle e lontane dei faretti, continuavano a muoversi su quella canzone.
Quella canzone, che lento non era. Ma che… era tutta loro.
Alessandra lo strinse ancora più forte a sé e mosse la mano piccola, in quella più grande di lui, fino ad intrecciare le dita con le sue.
Avrebbe voluto confessargli per l’ennesima volta quanto lo amava, ma tacque.
Sperando di non inciampare nei laccetti delle scarpe, che sapeva di non aver stretto bene, continuò a ballare.
Se era vero ciò che le avevano sempre detto sul primo giorno dell’anno; se era vero che era da considerarsi un po’ lo specchio di tutti i restanti, allora quel duemiladodici era cominciato sotto il migliore degli auspici.
Un desiderio che si realizza è un battito di cuore più forte degli altri.
Ricordava di aver parlato con Angelo di quel suo sogno speciale, ma… non pensava che Angelo l’avrebbe presa tanto sul serio.
Era stato l’agosto prima in spiaggia a Fregene, sdraiati sui lettini dopo una lunga nuotata.
“Perché, quel libro sempre appresso?”. Le aveva chiesto lui sorridendo, mentre lei era già pronta ad aprire per l’ennesima volta quelle pagine.
Quindi, incapace di trattenere l’entusiasmo, Alessandra aveva cominciato a raccontargli di quella sua vacanza di anni prima a Gubbio.
Insieme con i genitori era andata a trascorrere qualche giorno in Umbria e, camminando per le vie della città dei Ceri, si era imbattuta nell’immagine della copertina di quel libro.
Il manifesto annunciava alla cittadinanza una presentazione ormai passata, ma… ad Alessandra era bastato fissarsi per caso su quella che sembrava essere una bella storia d’amore, per decidere che alla prima libreria che avrebbe incontrato ne avrebbe acquistata una copia.
Da allora, rileggeva quella storia almeno una volta all’anno.
“Spero di poter vivere anch’io un amore così, un giorno”. Le aveva detto arrossendo.
Un rossore che era andato peggiorando, quando Angelo – sorridendo a sua volta – le aveva chiesto: “E quale sarebbe la parte che ti piace di più?”.
Alessandra confessò di ripensare spesso a quel sogno che la protagonista aveva fatto durante un viaggio in pullman, di perdersi nell’incanto di un romantico ballo in piazza Grande e di rimanere proprio senza fiato ogni volta che nella mente riusciva a focalizzare una scena simile.
“Ti andrebbe di leggerlo per me?”. Angelo sembrava sincero, anche se Alessandra non poteva negare di aver pensato che la stesse prendendo in giro.
Un attimo. Un solo attimo, poi quel pensiero svanì e tutto ciò che rimase fu la bellezza di poter condividere quel piccolo momento.
Aprì il libro fino a pagina trentasei e lesse sicura.
Non le era mai piaciuto leggere ad alta voce, ma… farlo per Angelo sembrava non pesarle affatto.

…Perché sono innamorato
E sono corrisposto
Io sono il re, io sono il re di questo posto
Senza regno né corona
Con una donna che mi vuole bene…

Quella parte della canzone… quelle parole…
Alessandra sentì una nuova lacrima rigarle il viso e la osservò morire nello stesso punto della giacca; dove era morta la prima.
“Ti amo”. Anticipò di una frazione di secondo il luccichio di un flash.
Poteva essere che turisti arrivati sin lì da chissà dove stessero immortalando l’imponente bellezza del palazzo dei Consoli; a ferma testimonianza di un orgoglioso: “Ci sono stato anch’io”.
Ma poteva anche essere che qualcuno lì avesse notati in mezzo a tutto il resto, ballare stretti come se il mondo fuori non esistesse, ed avesse deciso di immortalare quella testimonianza. Rendere indelebile un amore forte e raccontare agli amici una volta a casa – magari davanti ad una pizza e con in mano un bicchiere di birra – che si aveva avuta la fortuna di esserci; di fronte alla dimostrazione del più potente dei sentimenti.
Alessandra sorrise appena.
Poi, prendendo Angelo in contropiede, si schiarì la voce e iniziò a cantare insieme a lui.
Poco, ma sicuro, se Jovanotti li avesse sentiti in quel momento non sarebbe riuscito a farsi sfuggire un applauso; nemmeno per sbaglio.
Ma niente rende ridicoli, se la decisione di fare parte dal cuore e porta con sé le giuste motivazioni.
Alessandra avrebbe voluto gridare al mondo intero la sua fortuna.
In fondo, però, bastava che fossero due le orecchie tese ad ascoltare.

… Io sono il re, ma lo so solo io
E lo sai solo tu amore mio
Nessuno può veder la mia corona
Ma sono il re, io sono il re in persona…

Una giravolta e un’altra ancora. Angelo continuò a farla danzare, come se stessero ballando sul più importante dei palcoscenici.
I suoi occhi si persero per l’ennesima volta in quelli di lei e – in quel momento – furono sue, le lacrime a scendere.
“Ti amo. Da sempre”.

…Perché sono innamorato
E sono corrisposto
Io sono il re
Io sono il re di questo posto
Senza regno né corona
Con una donna che mi vuole bene
Con una donna che mi vuole bene
Con una donna che mi vuole bene…

Sorrisero. Le dita, ancora intrecciate.
Ad Alessandra parve di sentire nell’aria perfino il suono dei piatti, il rumore dei tamburi e il trillo dei flauti.
Un attimo di silenzio ancora, prima di un tenerissimo bacio.
Il tocco delle labbra. Il suono possente del Campanone che rintoccava l’ora.
Sì, Alessandra non aveva più dubbi.
Quella piazza…
Tutto e tutti, in quella piazza, stavano vivendo insieme a loro quel magico momento.
Lasciò che la lingua di Angelo la accarezzasse ancora per un po’, poi – seppur dispiaciuta – si staccò da quella bocca sorridente e chiese: “Pizza?”.
Il tempo da trascorrere in quella bellissima città rimaneva poco, ma… Alessandra sapeva esattamente dove andare.
A passo lento lungo via dei Consoli, fino ad arrivare di fronte alla fontana del Bargello.
“Il battesimo dei matti lo rimandiamo alla prossima, vuoi?”.
Era fuori discussione, che sarebbero tornati in quel posto; ogni volta che sarebbe stata loro possibile.
E Alessandra non poté fare a meno di impazzire di gioia, al solo pensiero.
Strinse ancora una volta le braccia intorno al collo di lui, si mise ancora una volta in punta dei piedi per poter arrivare a baciarlo senza che dovesse essere lui ad abbassarsi, poi – con lo stesso filo di voce con cui lo aveva accompagnato cantando – disse: “Grazie, per avermi concesso questo ballo. Sei il mio Angelo”.
Nulla di più.

In fondo, non c’era nient’altro da dire.

domenica 28 luglio 2013

Il cielo in una stanza

«…e questo era il nuovo singolo di Eros Ramazzotti, da Matteo per  Simona».
La radio mi distoglie dai pensieri più volte di quanto gradisca. Cerco di non lasciar trasparire il fastidio, ma non essere i soli a muoversi in una stanza implica la possibilità di tradirsi più facilmente di quanto si vorrebbe.
«Si può sapere cos’hai?».
Ecco. Il genere di domanda a cui non sono mai pronta a rispondere e a cui il più delle volte riservo un: «Niente, perché?». Prima di rendermi conto che non è sempre una buona mossa aggiungere un interrogativo del genere.
Non solo non si è in grado di prevedere come risponderanno gli altri, ma si può rimanere colpiti dalle parole quando non si vorrebbe venir sfiorati nemmeno da una virgola.
«Adesso mi decido a chiamare la radio e a dire che passino quella canzone… com’è che fa? Quella che…».
Comincia a fischiettare il motivetto e la riconosco subito. È una canzone di qualche anno fa, l’unica dei Prozac + che ricordi in effetti.
«Vorresti dire che sono acida? Cosa ho fatto per meritarmelo?». Sorride. Capisco che sta scherzando, ma per un po’ decido di fingere di prenderlo sul serio.
«Allora? Cos’è che faccio per essere acida, me lo dici?».
Non aspetto che risponda. È tipico di me. So quanto possa dargli sui nervi ma continuo a parlare a macchinetta, mentre lui sembra stia seriamente lottando per rimanere serio.
«No… dico… a parte il fatto che non mi piace essere paragonata a uno yogurt… vogliamo parlare di te? Se io sono acida… tu cosa sei?».
«Snervato. Ma… io riconosco di esserlo, il più delle volte». Dannatissima risposta pronta. Mai una volta, che riesca a prenderlo in castagna. Rimango a bocca aperta e decido che l’unico modo di controbattere sia un attacco che – già lo so – danneggerà solo me. «Allora non parlarmi, se la pensi così». Riprende a fischiettare e io cerco di fare di tutto per ritornare immersa tra i miei pensieri.
Niente da fare.
La radio continua a passare da una canzone all’altra, ma io non riesco a tornare dove stavo. Ci provo. Ci provo e ci riprovo, ma… niente da fare.

«Hai mai pensato di chiamare la radio per dedicare una canzone a qualcuno?». Ecco. Sottolineare il fatto che mi stia parlando, potrebbe essere un buon contrattacco, ma… decido di ignorare la tentazione e rispondo semplicemente: «Certo!». Immagino che il solo fatto di chiederlo implichi la consapevolezza di averci pensato a sua volta, a parte il fatto di poterlo prendere in considerazione per farmi presente che a volte sono acida.
«Per chi chiameresti, si può sapere?».
Niente da fare.
«E’ ancora lui, vero? L’innominato a cui non hai il coraggio di dire tutta la verità».
«Non ricomincerai mica a darmi lezioni… l’importanza di non avere rimpianti e tutto il resto?». Aggredisco, quando mi  sento toccata sul vivo. Soprattutto perché c’è la paura di soffrire e di farmi male.
Poi, prima che parole forti riescano a trovare la via per uscire di bocca, decido di lasciare spazio ancora una volta alla fragilità. A quella fragilità che in fondo sento bella, anche se non vorrei. A quella fragilità che mi fa capire di non avere il bisogno di temere perché… che sia amore felice o amore carico di dolore, da certe cose non ci si nasconde.
«Non penso sia necessario spiegare di più, sai… ogni volta che mi guarda negli occhi ho la verità stampata in faccia. Sono sicura che non può non averlo capito. Per quanto io parli sempre troppo, l’amore è quel sentimento speciale che non ha bisogno di parole».
«Ma, se è così… non ti da fastidio essere totalmente indifesa davanti a lui?».
Non so per quanto ancora riuscirò a reggere una conversazione del genere, ma decidere di non sfuggire alla verità ha i suoi bei momenti di tensione da sopportare. È solo l’abitudine che manca.
«Alle volte sì… alle volte vorrei non fosse così chiaro tutto il potere che ha su di me, ma… se il rischio che corro è quello di essere felice, allora direi che vale la pena lasciarsi leggere dentro, anche se è complicato».
«E… se così non dovesse essere? Se questa felicità che sogni non dovesse arrivare?».
«Fa niente». Mi guarda come se fossi pazza.
Lo so. Mi darei della pazza anche io, non fosse per il fatto di non aggiungere un altro motivo alla lista di quelli che ogni giorno mi fanno litigare con me stessa.
«Non esiste un modo per chiedere con gli occhi di non venir feriti. Non esiste uno sguardo in grado di chiedere tutela per il cuore. L’unica speranza è che non esista superficialità negli atteggiamenti che si ricevono. Capire di essere amati da qualcuno dovrebbe spingerci a non voler ferire, ma… non è sempre così. So che rischio un dolore più grande di quanto abbia mai provato finora, ma… scelgo di accettare l’eventualità. Non è che provare a non sentire mi abbia portato da qualche parte, dopotutto».
«Capito». Lo guardo senza capire cosa ci sia da capire, in effetti.
«Riesci a sopportare l’idea che questo ragazzo-innominato capisca tutto attraverso i tuoi occhi, ma non saresti in grado di dedicargli una canzone… certo che è strano».
«Forse perché… non esiste canzone che riesca a spiegare più di uno sguardo, ci hai mai pensato? Anche se è bello usare la musica come veicolo di sentimenti e una canzone – in effetti – è tutto ciò a cui puoi aggrapparti in qualunque momento della giornata».
Devo avergli ingarbugliato i pensieri, perché mi guarda senza rispondere.
Passano alcuni secondi di silenzio, poi: «Ha un senso, certo. Ma… dovessi dirlo con una canzone, quale sarebbe?».
«Il cielo in una stanza. Gino Paoli».

Mi allontano senza aggiungere altro. 

mercoledì 3 luglio 2013

Tra musica e parole... l'Amore!

«Ho chiamato per assicurarmi che non avessi schiantato la sveglia nel muro e non ti fossi rimessa a dormire beata. Lo so che è sabato e che vorresti riposarti, ma è da un secolo che organizziamo questa cosa e non puoi proprio mancare».
Da quando ho preso l’abitudine a non spegnere il cellulare di notte, è già la seconda volta che Ilenia chiama alle sei e trenta del mattino. L’altra volta avevo la febbre e voleva sapere come stavo. Stavolta è tutta in agitazione per una gita al mare tra amici che… sì! È da un secolo che la stiamo organizzando.
«Sono sveglia, sono sveglia. Anzi… sono sveglissima e già pronta con il costume addosso, i jeans corti che abbiamo comprato l’ultima volta, la t-shirt che mi hai regalato per il compleanno e la borsa fatta».
«Mi raccomando, non dimenticarti la crema solare ad altissima protezione. Non vorrei che finisci per diventare un peperone, come l’ultima volta». Niente da fare. Quando è così, potrei anche dire di essere in compagnia di un alieno.
«Ripeto… ho fatto la borsa e c’ho messo dentro tutto, crema fattore cinquanta compresa».
«Benissimo! Allora… ecco… cinque minuti e sono da te».
No.  Non mi convince. Primo: perché Ilenia detesta la parola benissimo. Lei è quel tipo di persona che tiene l’ottimismo a larga distanza. Secondo: perché Ilenia non è il tipo da pause quando parla. Se è riuscita a infilarne due in una frase di  nove parole, vuol dire che c’è qualcosa che non va.
«Che c’è?». Lo chiedo con lo stesso tono di una mamma, quando sospetta che il figlio abbia combinato qualche marachella.
«Niente! ». La risposta non è veloce, è un razzo. C’è qualcosa che non va. Serve il piano B.
«Ti conosco da più di quindici anni e so riconoscere al volo quando mi stai nascondendo qualcosa». Di solito, tirare in ballo il fatto dell’amicizia di lunga data funziona sempre.
«Ok. Tanto, lo scopriresti lo stesso poi. C’è anche lui».
Non c’è bisogno che a quel ‘lui’ aggiunga un nome. Quando si parla di ‘lui’, per me c’è un solo ‘lui’.
«Tutto qui?». Cerco di fare la disinvolta, ma ho il cuore in gola. E non fosse per il fatto che sono seduta sopra il letto, sono sicura che le gambe non mi reggerebbero.
«Non… non ti da fastidio doverlo avere attorno per un giorno intero?».
Apprezzo il fatto che Ilenia si preoccupi per me, ma… «In fondo, sapevamo che poteva esistere un rischio del genere. Quando gli ho parlato, sapevo esattamente che un giorno avrei potuto ritrovarmi occhi negli occhi con lui, da semplici amici. Non vedo quale dovrebbe essere il problema. Per caso è a lui che darebbe fastidio la mia presenza?».
Giuro che se Ilenia risponde di sì schianto il cellulare nel muro. Non mi va l’idea di essere un problema per qualcuno. Specie se questo qualcuno è ‘lui’.
«Ma… no! Che vai a pensare. Solo che… secondo me non avresti dovuto parlargli, lo sai. Non si meritava quelle parole».  Quando ci si mette, Ilenia è davvero spietata. Ma, lo so che lo fa perché mi vuole bene.
«Adesso dici così, solo perché le cose non sono andate come speravamo. Lo so che lo fai per il mio bene e perché non vorresti vedermi soffrire, ma io non sono pentita di averglielo detto. Anche se mi dispiace per come è adesso la situazione…. Fossi riuscita a farmi volere bene, a quest’ora tu saresti pazza di gioia per me e lo adoreresti perché è un bravo ragazzo».
«Sta di fatto che tu adesso non stai bene, perciò non adoro proprio nessuno».
«Ascoltami… ma, ascoltami sul serio. È l’ultima volta che te lo ripeto. Non si vive con un rimpianto del genere. Se io non avessi detto niente, sarei rimasta con il dubbio per il resto della vita. Invece… Così… il dubbio non c’è più. Gli ho detto che è importante per me e non è successo niente. Tutto ciò che posso fare è andare avanti e augurarmi sia per me che per lui di essere felici».
«No… dai… tu non lo pensi veramente», il tono di Ilenia è talmente stupito che stento a riconoscere il suono della sua voce. «Non vorrai mica farmi credere che qualunque cosa accadrà in futuro, tu speri che sia felice? Non puoi volerlo con te e volerlo felice anche senza di te, non è possibile».
«Invece sì! Le cose stanno così, fattene una ragione. Lui per me è importante, non sono pentita di averglielo detto e vorrei che qualunque cosa accada fosse felice. Si chiama amore».
«Credo che a casa mia questo si chiami di più… pazzia. Ma, come vuoi. Ti conosco da più di quindici anni e lo so che la tua testa alle volte è più dura di un muro di cemento armato».
«Ma… qui la testa non c’entra niente, credimi. È tutto un fatto di cuore». In due scoppiamo a ridere, prima di decidere che trenta minuti di telefonata potevano anche bastare.
«Passo a prenderti tra dieci minuti. Il tempo di sistemare le ultime cose in casa e arrivo».

Quando arriviamo al parcheggio, davanti al bar delle solite colazioni della domenica mattina, gli altri sono già arrivati. C’è anche lui, anche se mi sarei aspettata di vederlo arrivare in ritardo.
Mentre scendiamo dalla macchina, ignoro di proposito lo sguardo di Ilenia. È dura fare finta di niente, ma sarebbe stato peggio continuare a fare finta di niente all’altra maniera. Per certi versi è vero che la verità rende liberi. Anche se ci sono situazioni in cui ha la tendenza a incasinare la vita. Prima di parlarli, avevo preso il bruttissimo  vizio ad abbassare lo sguardo ogni volta che me lo ritrovavo davanti. Dover sostenere una normale conversazione fra amici, poi… un casino. Dopo avergli parlato, le cose sono cambiate. All’inizio mi sarei voluta seppellire viva da qualche parte, ma a distanza di mesi… sì. Riesco a sostenere il suo sguardo senza vergogna. Gli ho detto che è importante, non che avrei voluto vederlo morto.
«Chiara… come va?». Rispondo con un cenno della testa, per lasciare intendere che è tutto ok. Stringo la sua mano, prima di finire il giro di saluti.
Beh! A dire il vero, una cosa la spero. Spero di non finire in macchina insieme con lui.
Siamo in dodici, con sette macchine a disposizione. Non avrebbe senso muoverle tutte per più di cento chilometri. Meglio prenderne tre.
Quando Andrea mi invita a salire insieme con loro, ho un tuffo al cuore. «Tu e Ilenia potrete parlare fitto, fitto sotto all’ombrellone… adesso vieni con noi, dai. Così, Sara non si sentirà sola». Sara è la sua ragazza. Stanno insieme da poco, ma è come se fosse da una vita.
Lui mi lascia passare e io fingo di non accorgermi di essere diventata rossa in viso. Sento il corpo bruciare e spero di non svenire da un momento all’altro.
Il silenzio più totale è tutto ciò che ci accompagna per i primi venti minuti di macchina. Ed è tutto ciò che avrei voluto continuasse, prima di sentirlo cominciare a canticchiare: «Mai le dirò… che muoio per lei…». Non mi disturba il suono della sua voce, ma… la canzone sì. Io muoio per lui e gliel’ho anche detto. «Perché non accendiamo la radio?», la butto lì con freddezza e spero che capisca.
Luca mi accontenta e per il resto del viaggio io sono a posto. Ascolto Sara che mi racconta della loro intenzione di sposarsi a breve (niente di pomposo, giusto una firma in comune e una cena tra amici per festeggiare). Di tanto in tanto dico la mia sull’argomento, mentre cerco di mantenermi calma e di arrivare in spiaggia rilassata.

Raggiungere l’ombrellone è una pena. Sono solo le dieci e mezza di mattina e la sabbia scotta come se fosse la piastra rovente di una stufa.
Sono l’unica ad avere tolto le scarpe, prima di sistemarci con le sdraio. Perciò, mi ritrovo a saltare come fossi un canguro impazzito.
«Allora… come è andata questa convivenza forzata?» Ilenia cerca di essere spiritosa, ma lo vedo che è preoccupata per me. «Ti prego, Chiara. Quando ti ho consigliato di non dirgli niente e di aspettare che fosse lui a parlare non mi hai ascoltata. Adesso, almeno… ti prego. Non permettergli di massacrarti. Sorridi. Sorridi sempre e si forte e non permettergli di usare contro di te quello che sa». Non posso risponderle come vorrei perché gli altri si avvicinano a noi e non mi lasciano il tempo di fare uscire le parole, ma apprezzo la sua vicinanza. «Tranquilla!», le strizzo l’occhio e le regalo un sorriso. Ilenia sa che con lei non potrei mai fingere. Mi sto tutelando ed è vero.
«Ok! È ancora presto per inaugurare la stagione dei bagni, ma per una passeggiata mi sembra il momento perfetto». Mi cospargo di crema per essere sicura che il sole non mi freghi al primo impatto, indosso il berretto con la visiera che avevo messo nella borsa e mi avvio verso l’acqua.
Da piccola ero in grado di passare ore, a giocare con le conchiglie in riva al mare. Da grande non gioco più, ma camminare a passo lento con l’acqua che carezza i piedi solo di tanto in tanto e quanto di più bello e rilassante possa esserci.
Saluto gli altri, che già stanno programmando una mega sfida a briscola, e mi avvio.
Oltrepassate diverse file di ombrelli comincio a non rendermi più conto di quanto possa aver camminato. Anche questo è un aspetto che mi piace del camminare in riva al mare. Il più delle volte lo si fa tanto per fare, senza la pretesa di raggiungere una meta o di percorrere chissà quale distanza.
L’idea è quella di  non fermarsi mai e di tenere a freno la tentazione di mettersi ad esaminare i sassolini e le conchiglie che giocano con la spuma delle onde. Ma quando gli occhi mi cadono su una bambina alle prese con un castello pericolante, non riesco a trattenermi.
«Che bello…. L’hai fatto tu?». La piccola annuisce, facendo danzare la coda di cavallo nella quale ha raccolto i splendidi capelli biondi. «Però… non è proprio così che l’avevo immaginato». Mi inginocchio vicino a lei, mentre riprende a darsi da fare perché essere un castello di sabbia non significhi per forza essere fragile.
«Non preoccuparti… alle volte le cose non vanno come ci aspettiamo, ma non per questo è tutto da buttare». Prendo le conchiglie che ha appoggiato vicino al secchiello vuoto e ne sistemo un po’ a coprire il leggero spacco che rovina il suo lavoro. Dopo che ho finito, l’aspetto è decisamente migliore.
«Visto… ho o non ho ragione?». La bimba sorride e mi abbraccia senza pensarci due volte.

«Posso complimentarmi con voi?». È lui. Riconoscerei la sua voce anche fossi dentro a una discoteca rumorosa e con i tappi alle orecchie. La bimba si spaventa, ma è giusto un attimo. «Non preoccuparti, è un mio amico». Mi alzo e le sorrido di nuovo, prima di decidere che forse è meglio lasciarla ai suoi giochi. «Ora devo proprio andare, ma mi ha fatto piacere conoscerti e poter giocare un po’ con te».
Riprendo a camminare, ma la sabbia sotto i piedi non ha più lo stesso sapore.
«Si può sapere che vuoi?». Lo aggredisco, nella speranza che il suo orgoglio abbia la meglio, che volti le spalle e che torni in fretta all’ombrellone. Niente da fare. Io sono cocciuta, ma quando vuole lui lo è di più.
«Ho bisogno di parlare un po’ da solo con te».
«È questo ciò che hai detto agli altri? Che provavi a raggiungermi perché vorresti parlarmi da solo?». Storce il naso, prima di rispondere: «No! Ho detto che andavo a fare una nuotata per sgranchirmi un po’, ma…», si blocca giusto un attimo, mentre io cerco di reggere il suo sguardo. «Ilenia ha capito e mi ha guardato male. Immagino sia stato il suo modo di chiedermi di lasciarti in pace».
«Già! L’ho addestrata bene». Scoppio a ridere, ma tutto ciò che vorrei fare sarebbe mettermi a piangere.
«Non me ne andrò, nemmeno se me lo chiedi». È sicuro di sé e per un attimo fatico a reprimere la forte tentazione di cadergli tra le braccia. «Voglio sapere perché non hai detto altro, dopo quel giorno». Ecco. Questa sì, che è bella!
«Come, prego… forse, perché non toccava a me parlare?». Potrei essere scambiata per una bandiera italiana. Verde per la rabbia, bianca per lo sforzo immenso di non svenire e rossa per il caldo.
«Ti ho detto di essere importante per me, cos’altro ci sarebbe stato da dire?».
«Un ‘sei importante’ non è un ‘ti amo’, però. Non dà la certezza di cosa provi per me. E se domani…».
Se. Che orrenda parola… se. Nella vita non ho sempre tutto chiaro, ma i ‘se’ li detesto. Non in generale, li detesto quando si parla di sentimenti. Poi… Poi, mi torna in mente quella canzone. Quella che gli ho sentito cantare spesso e che trovo senza senso su noi due.
«Ok… adesso basta! E se domani… non ho la certezza matematica che fili tutto liscio, questo no. Siamo due teste dure. A volte basta una mezza parola storta per farci scattare, ma… è perché siamo fatti così. L’amore può vivere anche in mezzo a qualche litigio. Nessuna coppia è una coppia perfetta. Gli alti e bassi non c’è verso di tenerli alla larga in nessun modo, ma…». Non ha mai smesso di fissarmi e so che è consapevole che muoio dentro ai suoi occhi. «Ma?».
«Ma… non esiste persona al mondo che mi faccia sentire bene come mi fai sentire bene tu. Non c’è essere umano sulla faccia della terra, in grado di farmi passare dalla rabbia al sorriso… come sai far tu. Vicino a te mi sento a casa, al sicuro come non lo sono mai stata. E’ sufficiente, perché il domani non sia più così spaventoso?».
Non parla, non sorride, non fa niente.
Prendo un bastone di legno levigato dal mare, abbandonato sulla spiaggia dalle onde e scrivo sulla sabbia: Tu sei importante per me. Poi, prima che lui possa aggiungere qualcosa, cerchio alcune lettere. Prima la T, poi la I… la A, la M e la O. Lui mi prende per mano, sfila il bastone tra le dita e scrive sotto alle mie parole: Tu si ‘na cosa grande per me. E le note della canzone d’amore più bella spazzano via quelle più incerte sul futuro.
Torno con la mano nella sua. Insieme, ci tuffiamo in acqua.