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martedì 26 settembre 2017

La musica fa crescere i pomodori

Ho incontrato il libro per caso. Non ero entrata in libreria per lui e non era proprio ciò che stavo cercando.
Come in una lunga passeggiata per stradine di campagna, dove il più delle volte ci si ritrova a camminare con l’unica compagnia della propria solitudine e può capitare di incontrare qualcuno giusto appena ad un passo dal tornare a casa, ho incontrato il libro quando già ero certa che – nonostante il girovagare per gli scaffali della libreria – per quel giorno non sarei uscita di lì con un sacchetto di carta in mano; pieno di tesori d’inchiostro.
È stato un incontro strano. Non di quelli che si possono definire ‘amore a prima vista’. Nella prima occasione in cui i miei occhi si sono poggiati sulla copertina, devo ammettere di aver distolto alla svelta lo sguardo e di aver continuato a cercare, cercare e cercare altrove. Possibile che tra le miriadi di storie d’amore che vengono pubblicate ogni giorno non ce ne fosse una lì, ancora tutta da scoprire, che facesse al caso mio?
Mi sono persino sforzata di ricordare i titoli dei libri visti in qua e in là su Facebook, ma niente da fare.
Ero già certa che me ne sarei andata con la promessa di inviare tramite mail la mia lista di desideri, come già tante altre volte è successo, quando mi ritrovo di nuovo a fissare quella copertina.
No! Non è il mio genere. Non amo proprio i libri autobiografici, le biografie in genere o – comunque – quelle pubblicazioni che nascono per voler raccontare parti della propria vita più o meno interessanti, o periodi più o meno lunghi di intensa attività professionale; se si è un personaggio noto o famoso; che dir si voglia.
Proprio, no! Non amo…
Mentre il pensiero cerca di convincermi per la seconda volta che non è proprio una tragedia uscire di lì a mani vuote  e che – sbrigativamente parlando – sarà per la prossima, ho già il libro sconosciuto in mano e i miei occhi stanno scorrendo velocemente il retro di copertina.

“La musica non è solo stimolo cerebrale. La musica ha la capacità di entrare nel fondo di noi. Può parlare alle nostre cellule e con una parte di noi che non conosciamo”.

Interessante. Rigiro il libro e sorrido, finalmente, a quel viso conosciuto.


La musica fa crescere i pomodori.
Non c’è da avere dubbi sul fatto che il titolo sia accattivante. La curiosità mi spinge a domandarmi chissà quale sarà il sapore di un pomodoro cresciuto a suon di musica. Mi sforzo di spingere l’immaginazione un po’ più in là, ma niente da fare. Come unico risultato ottengo quello di immaginare un pomodoro con le cuffie addosso che si muove, in un inesperto tentativo di ballo, seguendo un ritmo noto solo a lui e scoppio a ridere – da sola – scatenando perplessità (spero non seria) nel papà che è appena entrato in negozio e che ha appena fatto in tempo a poggiare tutti e due i piedi sul pavimento in legno, che già chiede se per caso la libreria sia fornita di dizionari per il suo piccolo scolaro; che gli sta attaccato alle gambe e che, intuisco, sarebbe di gran lunga più entusiasta se – magari – quella visita in libreria potesse anche comprendere una piccola sosta davanti allo scaffale di libri per ragazzi, che è poco lontano.
Ma torniamo a noi.
Musica e pomodori. Un libro che parla di come Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si, Do e compagnia bella siano entrate a far parte della vita di Peppe Vessicchio e vi siano rimaste per una lunga, bellissima, piacevole, immortale storia d’amore.
Ok. Lo ammetto. Rientro in quella vastissima cerchia di persone che, ad ogni Festival di San Remo, prima si ripromette di non interessarsene, perché tanto – poi – se ne potrà avere abbastanza alla radio, poi alla sera della prima si piazza davanti al televisore con la speranza di non crollare per il sonno troppo presto e – nel fermento delle esibizioni – si ritrova a sorridere ogni volta che il presentatore di turno pronuncia le parole: “Dirige l’orchestra il maestro Peppe Vessicchio”.
Ecco. Forse è per questo che il suo libro è stato in grado di attirarmi. Il motivo per cui, questo parlare di sé, è riuscito a vincere – rispetto a tutti gli altri – e a fare breccia nella mia curiosità e nel mio interesse.
Fosse stato un romanzo d’amore mi sarei sbrigata a leggere le ultime righe della storia, giusto per essere certa di non ricevere una  fregatura e di non ritrovarmi in lacrime, a un certo punto. (sì, lo so! Atteggiamento strano, da parte mia).
Nel caso specifico, ho optato per un più tradizionale: “Vediamo un po’ di che parla”, partendo dall’inizio.

“Io di qua, lei di là. Quando ci siamo conosciuti, fra me e la musica c’erano una porta chiusa, una maniglia e una serratura”.

Sarebbe già potuto bastare. Ero più che sicura.

“Ogni suono che vibra produce una fascinazione, guardate cosa diventano gli occhi dei bambini dinnanzi a un mazzo di chiavi che tintinna, sospeso nell’aria. È quella la prima magia a cui gli pare di assistere”.

Ok. Ok. Ok. Dubbi zero. L’impressione è quella di essere seduti al tavolo di un piccolo locale accogliente, aspettando che arrivi il cameriere con i bicchieri ordinati e già parlando piacevolmente di tanta meraviglia.
Leggere questo libro è stato ascoltare un lungo, bellissimo racconto.
È stato scoprire cose che non conoscevo e sorprendersi di come, nonostante la competenza in materia, il maestro Vessicchio, con l’ausilio di Angelo Carotenuto, abbia saputo raccontarle in maniera semplice e accessibile a tutti. È stato un viaggio in un mondo che tocca costantemente il mio, attraverso gli strumenti di cui tutti disponiamo: la radio, la televisione, il lettore mp3, YouTube, un link trovato su Facebook, la suoneria di un cellulare che, inaspettatamente, ti arriva alle orecchie mentre sei al supermercato a fare la spesa e sei un po’ nervosa perché non trovi il tuo solito shampoo.
È stato un viaggio. Sono arrivata all’ultima pagina con dispiacere. Sono rimasta a fissare quel retro di copertina che si richiudeva domandandomi: “Chissà se quest’anno il maestro sarà a San Remo?”.
Poi sono uscita di casa e sono andata a comprare una raccolta musicale di Mozart. Pare che le sue opere diano risultati sorprendenti sulla crescita di pomodori e ortaggi in genere e che siano particolarmente in grado di parlare all’animo umano per quietarlo, all’occorrenza. Non ho dubbi. Voglio provare!

Alla prossima.

giovedì 18 agosto 2016

Dodici minuti dalle Dodici

Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che, imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta, anche se poi arrivava sempre quel pensiero cattivo a ricordarle che i desideri non si avverano; solo perché gli occhi catturano l’immagine di due numeri gemelli dentro un display. O perché due lancette, una più veloce dell’altra, a un certo punto si ritrovano a segnare lo stesso valore.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che,  imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Lo faceva con la stessa noncuranza con cui, almeno una volta la settimana, entrava in tabaccheria per chiedere un ‘gratta e vinci’. Perché non si può sperare di essere fortunati, se non si è disposti a dare una possibilità – anche più di una – alla fortuna. Anche se poi non le era ancora mai capitato di vincere qualcosa e gli unici soldi che era riuscita a mettere nel portafogli, che non provenissero dal suo stipendio, li aveva effettivamente incontrati per strada, in fondo a una via solitaria, poco lontano da una cicca di sigaretta sporca di rossetto.
Una piccola banconota da cinque euro. Non certo quel che basta per dare una svolta alla vita.
Incontrarla a pochi metri da un bar, con lo stomaco che aveva appena cominciato a brontolare per la fame e con la consapevolezza che l’ora di pranzo fosse ancora abbastanza lontana da non riuscire a resistere fino ad allora, l’aveva convinta che potesse essere il momento giusto per uno spuntino. Cinque euro sono più che sufficienti per un cornetto alla marmellata, per un cappuccino, di quelli con il supplemento di schiuma e di polvere di cacao che non si dimenticava mai di chiedere ovunque fosse, e per un ‘gratta e vinci’ che, a giudicare dall’insegna blu sopra la porta, con molta probabilità avrebbe trovato appesi in lunghe file dietro il bancone.
Ci sono bar che, a una certa ora, riescono a essere più affollati di una piazza in un giorno di mercato e bar che – come quello – preferiscono garantire alla clientela una giusta quiete costante. Erica era felice di essersi imbattuta in un posto del genere. Poté poggiare su una sedia le sue buste degli acquisti, senza che a qualcuno venisse in mente di chiederle un attimo dopo se per caso quella fosse una sedia libera e se, per gentilezza, avrebbe potuto prenderla.
Poté allontanarsi dal tavolo, senza portare con sé il timore che qualcuno avrebbe potuto approfittare della sua assenza per toccare le sue cose o, e non seppe stabilire se sarebbe stato peggio, rubarle il posto. Poté rimanere davanti il bancone delle cose da mangiare per tutto il tempo che reputò necessario, senza per questo sentirsi in imbarazzo davanti al barista. Senza rischiare di essere strattonata da altri affamati; più affamati di lei. E potendo scegliere (senza fretta) effettivamente quello che avrebbe voluto scegliere, scegliendo con gli occhi.
Grazie alla calma del luogo si accorse infatti di essere entrata – sì – per un cornetto alla marmellata e per un cappuccino con tanta schiuma, ma di voler chiedere un panino con prosciutto cotto e maionese e un bicchiere di spremuta d’arancia.
Chiedeva sempre una spremuta d’arancia, anche se poi – il più delle volte – in molti bar si ritrovava costretta a ripiegare sul succo in bottiglietta; che non ha niente a che vedere con il sapore delle arance appena spremute.
L’uomo dietro il bancone impiegò pochissimi secondi a spaccare i tre frutti necessari per riempiere un bicchiere e a Erica parve che l’aria dentro il locale s’impregnasse all’improvviso di quel buon odore di agrumi.
Tornò a sedersi insieme al suo panino e non riuscì a evitare di sorridere imbattendosi nel suo riflesso dentro a uno specchio a muro un po’ segnato dal tempo.
«Ecco a lei». A giudicare dalla pelle delle mani Erica avrebbe detto che quel barista non potesse essere tanto in là con l’età, ma le rughe sul viso tradivano una vita già vissuta per la maggior parte e la luce negli occhi, seppur ancora presente, sembrava essere una di quelle luci non più fresche come quelle che si trovano in gioventù o, comunque, nel buono degli anni.
Quel bar era il bar giusto anche per questo. Segno che i cinque euro trovati per strada non si erano fatti trovare davanti ai suoi piedi per caso. Per la prima volta qualcosa l’aveva spinta ad entrare proprio lì, in quel posto che aveva sempre ignorato. E si era ritrovata ad avere a che fare con una persona sconosciuta, ma che – a pelle – già godeva di tutta la sua fiducia. Una persona che, in qualche modo, la faceva sentire bene.
«Grazie!». Prese il bicchiere dal piccolo vassoio d’acciaio, cercando di nascondere il tremore delle mani che alle volte era in grado di procurarle un disagio. Aveva sentito diversi medici al riguardo e, per fortuna, tutti i controlli fatti avevano portato a credere che non ci fosse nulla fuori posto. Così, visto che le mani continuavano a ballare una danza tutta loro  di tanto in tanto, alla fine ad Erica era stato detto che – con molta probabilità – poteva trattarsi di una reazione emotiva. Reazione a che cosa? Non era dato sapere. Emotivamente parlando, però, Erica avrebbe preferito non dover aggiungere anche quello alla sua lunga lista di ‘difetti’.
«Ha trovato qualcosa di interessante in libreria?». Il barista indicò le buste con un cenno, scostandosi di qualche passo in direzione del bancone. Dei tre libri che Erica aveva appena acquistato, solo di uno era assolutamente sicura e fu quello di cui gli parlò.
«Una bella storia d’amore. Una di quelle con il lieto fine sicuro, qualunque cosa accada in mezzo alle pagine». Sorrise. A ben pensarci, avrebbe potuto approfittare di quella sosta imprevista in quel bar per leggere un po’. Ma non lo fece.
Ignorando l’imbarazzo di parlare guardando dritto negli occhi il suo interlocutore, chiese invece: «A lei piace leggere?». Il bar era tanto bizzarro da non tenere in giro neppure un quotidiano, perciò c’era da credere che il barista avesse qualche tipo di avversione per la parola scritta e che gli avesse fatto quella domanda solo per dimostrarsi cordiale.
Quando Erica lo vide tornare di nuovo dietro il bancone per tirar fuori da un cassetto una vecchia agenda di pelle e una bellissima penna stilografica, non riuscì a evitare di spalancare la bocca per lo stupore.
«Mi piace scrivere, anche se non sono poi così bravo».
«Sta scrivendo qualcosa, adesso?».
Il sorriso del barista lasciava intendere di sì, ma la sua testa rispose comunque muovendosi a destra e a sinistra.
«Peccato. Mi sarebbe piaciuto poter leggere qualcosa scritto da qualcuno che…». Erica interruppe la frase a metà, consapevole che chiuderla con la parola che aveva in mente – ossia ‘conosco’ – non fosse proprio dire la verità. Sarebbe stato più giusto affermare che le sarebbe piaciuto poter leggere qualcosa scritto da una persona cui poter stringere la mano, poi, per congratularsi del lavoro fatto. Questo, sì! Anche se, a ben pensarci, anche in tal caso non era certa che le parole del barista le sarebbero piaciute al punto da congratularsi con lui.
Scelse di rimanere in silenzio, concentrandosi sull’ultimo morso del suo panino.
«Potrebbe tornare qui fra qualche giorno e chiedermi di nuovo se ho qualcosa di finito da farle leggere, sono sicuro che per allora mi sarò fatto venire in mente almeno una piccola storia». Il barista aprì le pagine della sua agenda fino a trovarne una completamente bianca e svitò il tappo della sua stilografica come a lasciar intendere che si sarebbe messo subito all’opera.
Erica non riuscì a evitare di ridere di gusto. Non fosse stato per l’imbarazzo della richiesta, gli avrebbe domandato la possibilità di fare una fotografia insieme. Lei, lui, l’agenda e quella stilografica che poteva considerarsi, senza sbagliare, la fuoriclasse delle penne.
Continuando a tenere il cellulare in tasca, però, preferì alzarsi per raggiungere la cassa e pagare il conto.
Aveva già allungato la banconota da cinque euro oltre il bancone, che si sentì dire: «12 e 12. Esprima un desiderio…». Non era sicura che valesse, così, su comando. Né era sicura che fosse valido esprimere un desiderio in quel caso, per il fatto che non erano stati i suoi occhi a catturare la coincidenza. Ma Erica preferì ubbidire, senza pensarci troppo. Era comunque un’occasione in più, che avrebbe potuto dare a tutto ciò che avrebbe voluto diventasse realtà.
Per i desideri vale un po’ quel che vale per la fortuna. Se non si è disposti a dar loro un’opportunità quando se ne presenta l’occasione, poi non ci si può lamentare del fatto che non si avverino.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che, imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Pensò fosse buffo che anche quel barista custodisse in sé la stessa mania.
Lesse lo scontrino per controllare che fosse vero. Che fossero davvero appena passati dodici minuti dalle dodici.
In quel momento lesse anche un nome… Giuseppe.
«È lei Giuseppe?». Stavolta, la testa dell’uomo si mosse in su e in giù per rispondere di sì.
Erica pensò che un tipo del genere non l’avrebbe certo rintracciato su Facebook. Per questo, si affrettò ad allungare una mano e a presentarsi: «Mi chiamo Erica…». Avrebbe voluto raccontargli del modo bizzarro in cui aveva deciso di entrare in quel bar per la prima volta, ma non lo fece.
Non chiese nemmeno il ‘gratta e vinci’ che aveva immaginato avrebbe chiesto prima di uscire.
Quei cinque euro trovati per strada le avevano appena pagato una delle colazioni più tranquille, buone e insolite della sua vita e le avevano appena regalato la possibilità di esprimere un desiderio. Non poteva chiedere di più.
Forse, la prossima volta che sarebbe tornata a trovarlo, avrebbe potuto giocare una partita con la fortuna. E, magari, Giuseppe le avrebbe fatto trovare una storia scritta ispirandosi a quel loro breve attimo insieme. Magari, Giuseppe avrebbe potuto scrivere un racconto che parlasse dei desideri che si esprimono, quando il tempo è fatto di numeri uguali. Magari, lei avrebbe fatto in tempo a finire il libro di cui gli aveva accennato e avrebbe potuto raccontarglielo con maggiore precisione. Avrebbe potuto chiedere un’altra spremuta, per respirare di nuovo l’odore del frutto fresco nell’aria, o scegliere di farsi venire i baffi bianchi; sorseggiando un cappuccino schiumoso.
Aveva la certezza che sarebbe tornata in quel posto ed era comunque tutto ciò che contava.
Alle 12 e 18 si salutarono con un: «Arrivederci!» detto all’unisono.
Pare che alcuni esprimano desideri anche in situazioni del genere, quando la stessa parola esce da bocche differenti nello stesso momento.
Loro… no! Loro avrebbero aspettato di nuovo di imbattersi in ore e minuti uguali.


sabato 6 agosto 2016

L'amore, quando basta!

Giulia addormentata sul divano. Federico la svegliò stringendola a sé. Forte. L'abbracciò, come se quell’abbraccio fosse tutto ciò di cui aveva bisogno per ricaricare le pile dopo una lunga giornata di lavoro. “Esci con me”, le sussurrò a un orecchio facendole solletico con il respiro. Era il suo modo speciale per chiederle di concedersi qualche attimo insieme sul prato fuori casa, prima di andare a dormire. Il suo modo speciale per dirle che, se anche per tutto il giorno non erano potuti stare insieme, avrebbero potuto comunque rimediare. “Le stelle sono così belle stasera, sarebbe un peccato perdersele”. Federico sorrise e a Giulia bastò l’immagine di quelle labbra perfette e incurvate all’insù per scacciare via il fantasma del sonno. “È ancora un po’ presto per i desideri, però”. Gli baciò il collo, mentre con la mano cercò la sua per poter intrecciare le dita. “Cosa vorresti chiedere a una stella cadente?”. Federico era sicuro di conoscere il desiderio più grande di Giulia, ma lo domandò comunque. Era altrettanto certo che non glielo avrebbe rivelato, ma si finse comunque un po’ imbronciato quanto lei gli rispose: “Non posso dirtelo, altrimenti non si avvera”. Oltrepassarono il portone e raggiunsero il prato senza curarsi nemmeno di prendere una coperta. “Sarà ancora un po’ presto per le stelle cadenti, ma… è il momento perfetto per lasciare cadere a terra i vestiti. Che ne dici?”. La sveglia avrebbe suonato di nuovo tra meno di sei ore, ma non importava. Giulia cercò le labbra di Federico per catturarle in un bacio lunghissimo. Quello era il suo modo preferito di ricaricare le pile.

sabato 23 luglio 2016

Ho provato ad aggiustare il tiro...

“Alle volte la vita sbaglia i momenti”. L’ho letto stamattina in un libro e da allora non faccio che pensarci. Un pensiero altrettanto frequente è un pensiero anche bizzarro; in realtà. Non lo so perché, ma la mia mente continua a produrlo da giorni e lo produce in inglese. Spessissimo me lo ritrovo in mezzo al solito caos che ho in testa, che riecheggia come sotto l’effetto di un loop infinito: 
...I’m not a robot!
C’ho messo tantissimo per capirlo ed è curioso ritrovarcisi ad avere a che fare proprio adesso che, forse per la prima volta nella mia vita, ho agito come se per davvero fossi una macchina; come se del mondo fuori non mi importasse abbastanza da cercare di capire e comportarmi di conseguenza.
Forse il mio atteggiamento è il prodotto di questioni masticate a lungo e comunque mal digerite, anche se è una magra consolazione. Forse questa vuole essere una resa dei conti caotica, in cui il misero premio di consolazione e accorgersi di avere tradito un po’ me stessa (quella me stessa che sa non tirarsi indietro, anche se c'è da correre il rischio di farsi male); con la speranza di riuscire ad aggiustare il tiro perché non è ancora tardi. Forse, sono fasulli sia l’uno che l’altro pensiero e la mia pazzia personale è più vicina al limite di quanto a me piaccia credere. Potrebbe essere…
Il punto è questo: l’incapacità di credere. L’incapacità di credere alle persone, che è il blocco peggiore che si possa avere. Con chiunque io mi ritrovi ad avere a che fare, mi accorgo di cercare - prima di ogni altra cosa - segnali possibili di in che modo questo qualcuno vorrà provare a fregarmi.
Una persona entra nella tua vita all’improvviso, lo fa con tutta la gentilezza possibile e  tu, per tutta risposta, le chiudi la porta in faccia senza avere una vera ragione. Vorrei potermi dire soddisfatta del fatto di aver colpito per prima, almeno per una volta. Ma la verità è che – invece – continuo a pensare di aver giocato troppo d’anticipo.
Perché l’ho fatto? Per paura.
Nulla paralizza di più un cuore, seppur desideroso di nuove emozioni, che la paura di soffrire di nuovo.
Non ho mai nascosto le mie ferite. Non per la vanità del sentirsi una sopravvissuta a certe cose. Non ho mai nascosto le mie ferite perché sono alcuni degli ingredienti che appartengono alla complicata ricetta di me. Io sono il risultato di momenti felici, di momenti indimenticabili, di passi fatti in equilibrio precario su un filo, di cadute inaspettate e di ferite. Da oggi mi sento di aggiungere a questo particolare miscuglio anche un pizzico di occasioni mancate. Un ingrediente che scopro di volere ancora meno del dolore, perché… mentre con il dolore sono riuscita a scendere in qualche modo a patti e in tutti i casi (posso dirlo con certezza) è stato in grado di portarmi a qualcosa di buono, un'occasione mancata è la fotografia istantanea di una strada da percorrere, che però non sentirà mai il tocco dei miei piedi.
Cosa si fa quando ci si ritrova ad avere a che fare con un'occasione mancata? 
...Si prova ad aggiustare il tiro.
Divertendomi a tempo perso con arco e frecce, posso assicurare che ce ne sono di belle da fare per riuscire a raggiungere il giallo. E, se anche il risultato non è mai garanzia, è certo che abbandonare non è la soluzione. Così, ho provato a immaginarmi come in una delle sedute di allenamento. Ho preso un respiro, ho allontanato i pensieri negativi, ho cercato di focalizzare quello che avrei voluto ottenere e ho scagliato la mia freccia.
Quando si ferisce qualcuno senza che ce ne abbia dato reale motivo, l’unica cosa possibile da fare – perché un tiro fatto male possa sperare di aggiustarsi – è chiedere scusa.
In un groviglio di parole che non mi è stato possibile dire di persona, ho cercato di spiegare le mie ragioni. Niente da fare.
Così, ora mi ritrovo a dover gestire anche un altro pensiero. Che forse ho agito male, vero. Ma che le cose si sarebbero potute aggiustare con la massima tranquillità, se solo anche dall’altra parte ci fosse stata l’esigenza di aggiustare il tiro allo stesso modo. 
Una cosa che di me non è mai cambiata è proprio questa. L’esigenza di un’emozione che può essere tanto veloce quanto una stella cadente, ma che - necessariamente - deve essere vera.
È stata un’emozione a spaventarmi. Qualcosa che, al di là di ogni mio calcolo, è riuscito a fare un passo in più rispetto alla convinzione che avrei potuto fare tranquillamente a meno di certe cose e il pensiero che avrei preferito non immischiarmi più in faccende umane del genere.
Mi sono ritrovata seduta su una panchina, a parlare più di niente che di qualcosa, a cercare di raccontarmi per quel poco che sono e a sorridere felice; dentro una serata d’estate decisamente inaspettata.
In quel momento ho saputo riconoscere un attimo speciale. Un piccolissimo frammento della normalità che vado cercando, da cui però – subito dopo – ho sentito l’esigenza di difendermi. Di scappare.
Forse ho sbagliato. O, forse, no. Cerco di mettermi nei panni di quest’altra persona e, nel limite di quel poco che ho potuto conoscere, cerco di capire se per caso non abbia esagerato con le parole nei confronti di qualcuno che, magari, era spaventato quanto me. Non saprei. Continuo a provare a mettermi nei panni di quest’altra persona e mi domando perché, semmai, possa essere bastato così poco per lasciar perdere. Provo a mettermi nei panni di quest’altra persona e penso che non sia possibile non accorgersi di come ho provato a sistemare le cose. Torno a mettermi nei miei panni e sento di nuovo quel pensiero in inglese: I’m not a robot! Il che significa che, forse, è proprio perché non sono una macchina che ho agito in questo modo. Perché le macchine non temono di farsi male. Perché le macchine, in nessun modo, provano a farsi capire pure sbagliando. Perché le macchine non hanno cuore. Torno a mettermi nei miei panni e ritrovo quel bisogno di essere protetta, anche se farlo potrebbe significare avere a che fare con un mucchio di spine. Torno a mettermi nei miei panni e ritrovo il desiderio di incontrare qualcuno che, in un mondo pieno di apparenze e di finta perfezione, in un mondo dove sembra sia la regola non lasciarsi coinvolgere dalle cose, sia imperfetto quanto me, magari abbia un lato oscuro difficile quanto il mio, sia il risultato di un miscuglio di ingredienti assurdi da mettere tutti insieme e sappia difendersi chiudendo le porte al mondo, se quel mondo non lo fa sentire al sicuro quanto vorrebbe. Sono porte che si chiudono anche per misurare il coraggio di chi viene a bussare, per vedere quanto sarà in grado di insistere ed aspettare. E si chiudono sempre e solo se c'è stato un pizzico di felicità alla base. Perché solo ciò che è in grado di regalare un'emozione è in grado di far nascere la paura di doverne fare a meno. 
Ho provato a trasformare uno zero in un dieci. Ho provato ad aggiustare il tiro…


sabato 18 giugno 2016

Quel momento in cui tre frecce hanno trafitto il dieci...

Alle volte lo maledico. 
Spesso non è con me, quando serve. 
Il cellulare...
Trovo in 'lui' un alleato, quando si tratta però di immortalare un momento. 
Anche se ieri sera non ce l'avevo in tasca e l'intenzione iniziale era di lasciarlo abbandonato dentro la borsa per tutto il tempo dell'allenamento. 
Ho ripercorso i 18 metri all'indietro e sono andata a prenderlo.
Amo immortalare le "prime volte". 
Nella mente lo faccio sempre, con le parole. Istintivamente. Trasformo le mie "prime volte" in piccole, brevi storie; che riesco meglio a ricordare. 
Il cellulare moderno mi consente di scattare fotografie e di giocare con i colori. Perché no? 
Ne farò comunque un album di ricordi, da poter sfogliare a distanza di tempo. E, a distanza di tempo, mi ricorderò di un venerdì diverso dal solito. 
Di un venerdì 17 in cui l'Italia disputava la seconda partita agli Europei. 
Di un venerdì 17 in cui, a diciassette minuti dalle 17, il numero 17 della Nazionale ha segnato il gol della vittoria. 
Mi ricorderò di un venerdì 17 in cui il tempo ha potuto concedersi il lusso di scorrere lento e ricorderò di quel momento in cui, sul cominciare profondo della sera, per la primissima volta... tre frecce hanno trafitto il dieci!!! 


Il primo 30, cui forse ne seguiranno altri. 
Cui spero ne seguiranno altri. 
Con la consapevolezza che nessuno avrà, però, lo stesso sapore del primo!   

sabato 21 maggio 2016

A chilometri di distanza: "Quando infinito non è"

Eccomi di nuovo da queste parti! :-D Con il cuore a 100&+ per dei progetti in corso (di cui spero di poter parlare presto) e con la voglia di continuare a mettermi alla prova... scrivendo! 
E' on-line l'ottava parte della 'storia Wattpad': 
"A chilometri di distanza"!!! 
Ma, come fosse una serie televisiva di quelle americane, questo Blog ve la presenta con un leggero ritardo e ve la fa leggere 'in differita'. 
Che ne dite... vi va di continuare a conoscere il mondo di Sofia, che avete conosciuto in questo primissimo Post della serie?!? :-D
Era un sì, quello che ho sentito uscire dalle casse malandate del computer? Mi fa piacere!
Ecco a voi la seconda parte... 


Quando infinito non è


«Hai messo il maglione pesante in valigia?».
Gli occhi della mamma si ostinano a seguirmi in ogni spostamento, dall'armadio al letto e viceversa.
Non vorrei farle presente quanto sia estenuante per me, averla attorno in questo momento. Ma è estenuante.
Continua a guardarmi come se il fatto di aver deciso di cambiare città, così, all'improvviso, sia la decisione peggiore che potessi prendere.
Evito di farle presente che in un passato non troppo remoto m'era balzata per la mente l'idea di fare fuori una certa Bionda e scelgo di tenere per me anche l'idea, di gran lunga più recente e di gran lunga più sconvolgente, di trovare un ponte dove potermi spenzolare giù e farla finita. Quelle sì, che sarebbero state decisioni pessime. Pessime e senza possibilità di ripensamenti.
«Mamma! Sto andando in Umbria, mica al Polo Nord!».
Con la mia famiglia viviamo a Roma. Con il mio ex marito eravamo riusciti ad acquistare un piccolo appartamentino a pochi metri di distanza dalla casa dei miei. Con i miei ex suoceri ci bastava camminare per poco meno di un chilometro, per poter essere tutti insieme a pranzo, o a cena. Da una parte, o dall'altra.
Ovvio che, qualunque altro posto sulla faccia della terra, non sia mai stato degno di considerazione per noialtri. Almeno, finora.
Anche la scelta delle vacanze, a dire il vero, è sempre stata piuttosto ardua. Forse perché detesto volare e la sola idea di ritrovarmi immersa nelle nuvole, a metri, e metri, e metri da terra non mi ha mai entusiasmato più di quel tanto. Anche se pare che viaggiare in aereo sia il modo più sicuro. Io di sicuro ci vedo soltanto il fatto che, qualunque cosa succeda, non la racconterai.
Afferro l'ultimo paio di jeans, di quelli che considero i miei preferiti, e chiudo la lampo. Manca la scelta delle scarpe e un beauty-case da preparare, con lo stretto indispensabile.
«Beh! Anche se sono appena tre ore di macchina da qui, non si sa mai che tu possa incontrare la neve».
Come se il fatto di imbattersi in una bella nevicata sia da considerarsi una catastrofe. Blocco al volo la mamma, che cerca di approfittare della mia capatina in bagno per nascondere in valigia uno degli ultimi regali della nonna. Un pullover di quelli realizzati a mano, con i ferri e il gomitolone di lana di tutti i colori. Non so se rendo l'idea.
Indossarlo, anche solo per un minuto, mi fa subito venire in mente l'idea di aver bisogno di mettermi a dieta.
In realtà tra i dispiaceri, il divorzio e tutto il resto, l'asticella della bilancia si è notevolmente abbassata. Ma non lo consiglierei a nessuno, come sistema infallibile per perdere peso.
«Mamma! Non ti ci mettere anche tu! Siamo in primavera, non c'è più bisogno di cose del genere».
Tolgo il maglione dalla valigia e sfrutto lo spazio che la mamma è riuscita a ricavare per infilarci un'altra tuta. Ho il sospetto che sia uno di quei modi di vestire che, lentamente, ti fa dimenticare tutti gli altri.
«Forse qui a Roma no, hai ragione. Ma non credo che in Umbria farà caldo allo stesso modo», mi guarda in quella maniera che solo a una madre può appartenere. Con gli occhi che gridano tutto l'amore del mondo e le labbra che non riescono a fare uscire le parole.
«D'accordo, mi hai convinta. Anche se ho sentito Giada al telefono proprio questa mattina e pare che quest'anno l'inverno abbia saltato il turno da loro».
Giada è la mia migliore amica. Ci siamo conosciute sui banchi della scuola elementare e, a parte qualche brutta litigata ogni tanto, siamo riuscite a rimanere una nella vita dell'altra, come se in realtà fossimo sorelle.
Afferro il maglione della nonna e lo porto in macchina insieme alla valigia.
Mentre riesco a sistemare il bagaglio sul sedile posteriore, alla maglia consento l'onore di potermi rimanere accanto.
«Così, se mai dovessi imbattermi in un brusco calo delle temperature, ce l'avrò a portata di mano».
La mamma riesce a sorridere e riesco a farlo anch'io. Il babbo ha preferito fare un salto al bar, per andare a trovare gli amici con cui non si vedeva da circa dodici ore.
Ho imparato a non prendermela. Anche se avrei preferito poter stringere anche lui in un abbraccio. So che, in fondo, gli somiglio più di quanto io sia disposta ad ammettere e lo capisco quando dice che certe cose non fanno per lui.
C'è anche da dire che non si tratta mica di un addio. Ho promesso di invitarli tutti a passare un po' di tempo in campagna, appena con Giada avrò trovato il modo di sistemarmi. Sto solo scappando via da un ex marito e da un'ex vita coniugale. Loro non c'entrano.
«Telefona, appena arrivi».
Faccio di sì con la testa, mentre con gli occhi sono già appiccicata allo specchietto retrovisore. Già mi ritrovo a domandarmi se per caso io non stia facendo una cavolata.
Detesto i salti nel vuoto. A dispetto di chi si ostina a sostenere che rimanere immobili in certe situazioni sia dannoso. Forse dovrei ripensarci.
Mi stavo trovando talmente tanto bene nella mia vita da persona adulta, in compagnia dei miei progetti personali e familiari, che avevano tutti l'aria di essere perfetti e infallibili, che la caduta a terra è stata un volo dal alto; finito con un tonfo micidiale.
Dopo quindici minuti di guida mi sento già stanca, ma cerco di non farci caso. Con il solo rumore del traffico a tenermi compagnia, decido di accedere la radio e di bloccarmi sulla prima canzone che passa. Ho dimenticato di prendere alcuni dei miei vecchi cd. Così, imparo! A non aver voluto perdere tempo a scrivere una lista.
Dopo l'ennesimo giro di stazioni, ancora non ho trovato niente. Nulla che riesca a sintonizzarmi sul giusto umore; almeno.
Spengo di nuovo e provo a distrarmi canticchiando.
Sono una frana con il canto. Sempre stata. Ma pare che cantare ad alta voce, specie quando si ha la certezza che non ci sia qualcuno ad ascoltare, sia da considerarsi un'attività liberatoria delle più efficaci.
Se riesco a esibirmi per tre ore di fila, forse posso arrivare a casa di Giada senza sembrare una che è appena stata schiacciata da un treno e, magari, riuscirò a non farle tornare in mente il proposito di farmi parlare con una sua amica psicologa.
Sarebbe anche fantastico riuscire a cantare in maniera tanto convincente, da dimenticare chi sono almeno per un po'.
Invece mi ritrovo a tamburellare con le dita sul volante ed ecco che la mia realtà di donna appena divorziata torna a uccidere tutti gli altri pensieri.
Mi accorgo della fede che non c'è più e non perché io stia guardando il mio anulare sinistro.
Pur rimanendo concentrata sulla strada, sento l'assenza di quell'anello.
È rimasto addosso a me fino a che sono stata costretta ad apporre una maledettissima firma. Quei consensuali che, a detta di altri, dovrebbero aiutare a soffrire di meno.
A tratti mi pento di non avergliela fatta pagare. Ormai è tardi, però.
Per le quattro estati che sono riuscita a rimanere sposata, ho quasi odiato quel anello.
Quando le mani si gonfiavano fino all'inverosimile per il troppo caldo era come avere addosso un piccolo marchingegno di tortura.
L'inverno accadeva l'opposto.
Con le dita troppo rinsecchite per il freddo, faticavo a trattenerlo al proprio posto. Per ben tre volte ho addirittura rischiato di vederlo sparire dentro il buco del lavandino.
Adesso mi manca. È un po' come essere nudi, anche se lo so che può apparire eccessivo.
Pochi mesi ancora e scomparirà anche il segno più chiaro, quella piccola striscia di pelle che non è mai stata esposta al sole; da dopo il matrimonio.
Anche la fede è rimasta a Roma. Avrei potuto restituirla al mio ex sposo, a suggellare ancora di più il nostro addio. Ma non ce l'ho fatta a essere tanto al di sopra della situazione. Temo che un giorno il mio ex marito possa lasciarsi sedurre dall'idea di riciclarla. Sarebbe disgustoso, ma sarebbe da lui.
Ha sempre considerato eccessivo il fatto di spendere più del necessario, per aggiungere due piccoli diamanti dentro alle O dei nostri nomi.
Stefano e Sofia. Pensare che, a giocarci un po', le nostre iniziali sono in grado di dare origine all'infinito.
Forse avrei potuto rivenderla. Avrebbe di sicuro giovato alle mie finanze non proprio floride. Pare che il mondo non abbia bisogno di giornalisti freelance, in questo momento. Specie di una come me. Che, a un passo dal terminare la procedura d'iscrizione all'albo dei pubblicisti, ha fatto marcia indietro.
Purtroppo mi è mancato il coraggio. Ma ho intenzione di mettere la faccenda - anzi le faccende - in cima alla lista delle cose urgenti da fare; appena riesco a trovarne un pizzico.
Alla prossima!!! :-D

sabato 14 maggio 2016

Stelline per un Compleanno!!!

Lo scoccare della mezzanotte. Un 13 Maggio che riesce a cavarsela con un...
...bilancio positivo!!! 
Non so perché, ma è un giorno che temo sempre un po’. Quella paura che qualcosa possa andare storto, che qualcosa di spiacevole, o di difficile da gestire, possa verificarsi 'proprio nell’arco di quelle 24 ore'; che possa accadere: “Proprio oggi, che è il mio compleanno!”. Invece... mi ritrovo a sorridere. Con il pigiama già indosso, dentro l’abbraccio delle coperte ancora pesanti; nonostante manchi poco più di un mese all’estate. È già domani e sono pronta ad addormentarmi con la felicità di essere riuscita a fare qualcosa di ‘insolito’ , con la soddisfazione di aver completato la lettura di un libro che ho praticamente divorato (pur alternando la lettura con quella di altre storie) e con il cuore a mille per il fatto di aver sentito il cellulare notificare più volte degli apprezzamenti su Wattpad!!! :-D
Lo so. Non è molto e potrebbe persino apparire sciocco, da parte mia. Ma ci sono pensieri che mi accompagnano sempre, ogni volta che scrivo. Pensieri che riconosco essere alle volte contrari a ciò che pensa la maggior parte della gente, che prova a confrontarsi con il foglio bianco come faccio io.
“Fallo! Anche dovessi essere solo tu a trarne soddisfazione. 
Fallo! Perché ti piace».
Ecco perché... anche una sola stellina che si accende (chi è almeno un po’ pratico di Wattpad sa di che cosa parlo) è una grande soddisfazione e diventa, nel giorno del mio compleanno, un regalo immateriale e inaspettato. Il motore del terzo pensiero, che - da un po’ di tempo a questa parte - ho imparato a ripetermi come un 'mantra speciale'; insieme ai primi due. 
“Fallo! Perché - in fondo - non puoi sapere se riuscirai a tenere compagnia a qualcuno; con le tue parole. 
Magari, a regalare un sorriso. 
Magari, a regalare un’emozione”.
È tutto qui! Un tutto, che sa di tanto. Un tutto, che riempie di tanto questo giorno speciale.

Un 13 Maggio che si conclude con un... bilancio positivo. 
Per tante ragioni. Per tante cose inaspettate. Per una serie di ‘Grazie!’, che sono felicissima di poter dire! :-D

 ...Grazie, Grazie, Grazie!!!

Li scrivo in verde, il colore della Speranza. Con la speranza che sia un po' vero... che le cose belle sanno farsi seguire da altre cose belle! 
Pure se è verità imprescindibile quello che 'dice' il titolo del libro appena finito. Che... La tristezza ha il sonno leggero. Mi addormento con la voglia di crederci un po'. Di credere ai momenti leggeri. Di credere i sogni. Con la voglia di dare a entrambi più possibilità, di quanto abbia fatto finora. Che, poi, non si sa mai...
Mi addormento insieme a un bellissimo "Chissà..."; 
che è forse il regalo più bello che potessi farmi...
...nel giorno del Mio Compleanno! :-D 
Alla prossima! ;-)

sabato 30 aprile 2016

Lungo una strada conosciuta...

Una po’ di tempo per me. L’idea di andare a fare una passeggiata insieme a Mat. Quella di percorrere una strada conosciuta, ma sempre speciale. Pensieri zero.
Mi accorgo di avere l’attenzione catturata da qualcosa. I rumori intorno. L’originale mescolarsi tra di loro. Mi ritrovo a cercare di carpire l’esistenza - o meno - di un certo ritmo; di una certa sequenza. Il rumore dei miei passi sulla strada sterrata. Il rumore delle sue zampe sullo stesso tragitto. Il rumore del mio respiro, a tratti affaticato. Il rumore del suo, anch’esso spesso più pesante del normale. Il rumore delle foglie mosse dal vento. Quello della sua medaglietta al collo. Tintinnio leggero, ma costante, a testimonianza sonora della sua esuberanza canina. Lo scorrere dell’acqua, in lontananza. Un concerto inedito, unico e irripetibile.
A un certo punto, una curva.
È lì, appena dietro l’angolo. Lo sguardo cattura l’istante e, anche se gli occhi hanno già visto ciò che stanno ammirando, scattano comunque una nuova fotografia per il cuore.
Quel posto sa di essere speciale. Sa di essere emozione pura per molti. Sa che potrebbero essere non frequenti gli incontri, ma non per questo capita di trovarlo non all’altezza delle aspettative.



È un posto paziente. Sa aspettare il momento in cui c’è bisogno di lui, perché l’animo possa rasserenarsi di più. È un luogo immerso in un’atmosfera speciale, che è quasi magia.
Respiro a pieni polmoni. chiudo gli occhi per un istante, prima di riprendere a camminare.
Poco più in là c’è un pezzo di prato. Distesa su una panca di legno, cerco di immortalare una porzione di cielo.


Un nuovo sbuffo di vento. Mi ritrovo a seguire con lo sguardo il volo leggero di qualcosa che non riconosco immediatamente. È il seme di un dandelion; o soffione.
Se escludo le volte in cui li ho liberati in aria con un soffio, dopo aver espresso un desiderio, penso di poter dire che questa sia la prima occasione che ho di incontrarne uno solitario.
Continuo a fissarlo e mi sorprendo a scoprire quanto sia vero, che sembra stia danzando. Il rumore delle foglie mosse dal vento. Quello dell’acqua che scorre. Un seme di dandelion danzante.
A proposito d’acqua, comincia a piovere. Poche gocce, che lasciano traccia immediata di loro sulla pietra. È ora di andare.
Chiedo in silenzio alle nuvole che aspettino ancora un po’, prima di mettersi a piangere per bene.
La strada a ritroso sembra più breve.
A poche decine di metri da casa, mi accorgo di essere stata una sorta di taxi per un piccolo ospite. Un piccolo bruco verde. Chissà cosa l’ha spinto ad aggregarsi. Certo dovrà aspettare di essere farfalla, per poter tornare dov’era. O, forse, non vi tornerà affatto.
Lo lascio libero su un filo d’erba, non prima di aver scattato una fotografia.


Mat si accorge e richiede attenzioni tutte per sé.


Gli prometto di replicare presto momenti come questo, ma adesso è tempo di muoversi.
Sull’asfalto, che rimane in silenzio sotto di noi, a un certo punto incontriamo Pepe.
È uno yorkshire impavido. Si avvicina al naso di Mat e pretende un incontro, occhi negli occhi. Si allontana di nuovo. Abbaia più volte, forse offeso dal fatto di non aver ricevuto chissà quale reazione. Non gli importa la differenza di stazza, né che Mat continui a guardalo con noncuranza evidente. Lui continua ad abbaiare.

Non ci rimane che allontanarci in fretta e riprendere, lesti, il cammino. Pochi passi ancora…

martedì 19 aprile 2016

A chilometri di distanza: "Doversi divorziare"

Ecco che finisce anche qui… la mia prima ‘storia Wattpad’!
Scelgo di fare con il blog quello che alle volte è tipico di alcuni canali Tv… replico; differisco.
In un modo o nell'altro, spero di poter raggiungere il maggior numero di persone possibile. Magari, qualcuno potrebbe incuriosirsi. Magari, a qualcuno potrebbe piacere. Magari, qualcuno potrebbe decidere persino di iscriversi a Wattpad e… chissà! Potrebbe essere divertente…
Lascio qui questa primissima, piccolissima parte. La storia ne conta già quattro, ma ci sarà ancora un bel daffare, prima di riuscire ad arrivare alla fine. Vi va di dare un’occhiata? Magari di dirmi che cosa ne pensate?
Lo lascio qui… alla prossima!  





PARTE 1: 
Doversi divorziare

Trent'anni compiuti il mese scorso.
Un primo giorno di primavera che non mi aspettavo di vivere in maniera tanto triste. Forse sarebbe meglio dire in maniera tanto solitaria; ecco. Escludendo la compagnia dei pensieri. Quelli soliti, quelli deprimenti, che non mancano mai.
Parenti e amici avrebbero voluto poter festeggiare tutti insieme. Sono stata io a rifiutarmi in maniera praticamente categorica e, per la prima volta nella vita, sono riuscita a farmi dare ascolto.
Non si può festeggiare i trent'anni con una torta, con le candeline, con lo spumante e con i palloncini dopo aver deciso di doversi divorziare.
Doversi. Proprio così.
Fosse stato per me, avrei continuato a scegliere quella strada che di solito si percorre, in un matrimonio, andando incontro al tradizionale – forse, oggi nemmeno troppo – finché morte non ci separi. Invece, a separarci ci ha pensato una Bionda.
Pare sia una di quelle cose per cui ci si ritrova costretti a dire che è la vita. Che può capitare e che non ce ne se può fare un cruccio. Non in eterno, almeno.
Sono passati due anni da quando l'ho scoperto, ma per davvero io non mi sarei voluta dare per vinta. È la vita, un corno!
Fosse stato per me, avrei preferito metterci una pietra sopra e provare ad andare avanti. Adesso sono di più dell'idea che avrei anche potuto mettere una pietra sopra alla Bionda, per eliminare il problema alla radice; insomma. Ma è considerato reato e forse il tempo in galera non passa in maniera tanto agevole, rispetto alla vita di fuori.
No. Non sarebbe stato un buon piano. Forse è meglio farsene una ragione e andare avanti.
Allora, ci sto provando. Provo a considerare questo trentesimo compleanno appena trascorso come una sorta di linea di partenza e provo a ridare il via alla mia vita. Tanto per cominciare, ho deciso di cambiare città.

sabato 2 aprile 2016

Pianeta Wattpad: A chilometri di distanza

È da un po’ che ci stavo girando intorno. Sapevo che non sarei  riuscita ad aspettare troppo, prima di provarci anch’io. La storia vive esattamente nella dimensione in cui è presente on-line. Stracciando l’idea di bozze, di appunti vari e di capitoli scritti in anticipo. Fregandosene del fatto che non sia l’unico ‘progetto di parole’ del momento. Quando l’altro giorno l’ho sentita arrivare, in mezzo ad altri pensieri, ho deciso di rischiare insieme a lei. Con lei. Non ci si prepara prima. Non ci si arrovella troppo sul: “Chissà che cosa ne penseranno?”. Si improvvisa. Si va in scena, nel momento stesso in cui si prende forma dentro alla Fantasia. Ci si diverte o, quantomeno, si prova a farlo. Chissà…

Vi lascio il link... 


Cosa ne pensate?
Alla prossima!!!

domenica 27 marzo 2016

Libri: Sette lettere da Parigi

Samantha adora i viaggi, il buon vino e la cucina francese. Dopo quarant’anni trascorsi in America e una carriera da direttore creativo nella pubblicità, si è trasferita nel sud della Francia, dove ha sposato un ingegnere aerospaziale. Vive con due figli acquisiti e con un gatto Bengala.

Ci siamo ‘conosciute’ grazie a un libro, io e lei. In un pigro sabato mattina precedente a San Valentino, sfogliando le pagine del settimanale che in casa teniamo sempre a portata di mano per essere informati sui programmi tv, mentre aspettavo che il caffelatte si raffreddasse un po’ per non correre il rischio di ustionarmi le papille gustative, ho scoperto il suo mondo fatto di pagine e d’inchiostro. È stato amore a prima vista. E, anche se con i libri devo ammettere di essere una persona dal innamoramento facile, posso giurare di aver sentito quel brivido lungo la schiena che non sempre capita, ma che quando accade è una sorta di garanzia.
Tutto. Veramente tutto di quel libro aveva con sé la magia del lieto fine. Anche solo guardarlo, dentro un trafiletto stampato su una pagina satinata, anteposto alla pagina della 'ricetta della settimana', era in grado di regalare al cuore un battito di quelli speciali.
Ho annullato i programmi mentali che già mi ero preparata per trascorrere in tranquillità quel inizio di weekend e mi sono precipitata su per le scale, per correre in camera a cambiarmi. 
Ero praticamente certa che non l’avrei ancora trovato in libreria, troppo fresco d’uscita per essere già sugli scaffali, ma… a parte il fatto che tentare non nuoce mai in certi casi, non potevo permettermi di aspettare che tra noi capitasse un incontro casuale. Dovevo ordinarlo. Dovevo almeno riuscire a garantirmi la certezza di averlo tra le mie mani il prima possibile.

Sette lettere da Parigi


Ditemi se la copertina non è tanto attraente da catturare l’attenzione ai massimi livelli.
Eppure… volete sapere qual è la cosa che mi ha colpito di più?
Tre piccole, a prima vista ignorabili, parole: una storia vera.
Le storie vere non sono tutte belle, o piacevoli, o facili da attraversare; leggendole. Il più delle volte, anzi, mi è capitato di imbattermi in libri che sono stati mezzo per veicolare storie vere più forti e dolorose di un cazzotto preso in pieno stomaco. Non sto qui a stilare un elenco di titoli. Sono sicura che almeno un paio possano venire in mente anche a voi, senza bisogno del mio aiuto.
Quando, invece, una storia vera parla d’amore… allora, sì! È musica per le mie orecchie.
E se il grande amore ti concedesse una seconda possibilità? Concetto irresistibile, per un cuore romantico come il mio; che pure ha paura di fronte a certe cose. Recente scoperta, infatti, è quella per cui mi ritrovo a pensare di me stessa di aver paura dell’amore. Ma questa è una faccenda a parte; per quanto sia un aspetto che ho in comune con la protagonista della storia. Magari, non ho ancora trovato quei due occhi in grado di guardarmi senza farmi temere nulla.
E se la storia del libro, oltre a essere vera, oltre a essere incredibilmente romantica, raccontasse della vita della scrittrice?
Samantha è Sam. Sam è Samantha. Le sette lettere da Parigi hanno viaggiato veramente fino in America e lo hanno fatto nel 1989. Dopo venti anni di silenzio, Sam trova il coraggio di rispondere. È l’inizio.
L’inizio di che cosa?
Di tanto. Di tutto. Di qualcosa che mi piacerebbe riassumere, riportando di seguito alcune delle righe che mi hanno colpito di più…

“Ti amo, Sam. Te l’ho già detto e continuerò a ripeterlo finché non mi crederai. Voglio dividere con te quel che ho. Anche se non è molto. Sono un uomo semplice, che conduce un’esistenza semplice”.

Che altro dire? Leggetelo! 
E se pensate di non farlo perché non vi sentite sufficientemente romantici, fatelo perché è vero ciò che si dice della realtà. Che, alle volte, può essere più fantasiosa della fantasia stessa. 
Pare, tra l’altro, che presto ne sarà tratto un film...

Alla prossima!