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lunedì 30 ottobre 2017

Lo spazio di 2500 battute... "Tutto ciò che conta"

Scrivere. Un bisogno che non smette di farsi sentire. E si fa ancora più forte, quando si imbatte in una sfida. Un bando di concorso. Scoprirlo in ritardo, ma provarci comunque. Non a partecipare; quello no. Provare a scrivere ciò che è richiesto. Un racconto breve. Non superiore alle 2500 battute; per l’esattezza. Duemilacinquecento battute che riescano a parlare di vita contemporanea e di ciò che potrebbe essere trappola per l’uomo. Ci provo. Lo scrivo per questo piccolo, grande spazio personale. Eccolo qui…

Tutto ciò che conta

«Ok. Dammi mezz’ora».
Riapro piano la porta del bagno, convinto di essere riuscito a non farmi sentire.
Viola è davanti a me. Quel suo broncio, in grado di far tremare anche il cuore più duro.
«Nooo!». Urla, lasciando andare due lucciconi.
«Avevi promesso. Mi avevi giurato che oggi, cascasse il mondo, ci saremmo andati».
Io e il mio vizio di fare promesse, che non sono sicuro di poter mantenere.
Mi inginocchio davanti a lei e provo a farla ragionare: «Lo so, tesoro. Mi dispiace, ma… Luca ha chiamato e vuole che lo raggiunga. È per una riunione importante».
Non sono più in grado di parlare con mia figlia. Forse, non lo sono mai stato.
Passiamo del tempo insieme, è vero. Ma è come se ogni volta pensassi di avere a che fare con qualcuno di diverso da lei.
«No, papà…».
Riesco a mandare le sue proteste in sottofondo e mi concentro sulla ricerca della cravatta giusta da indossare.
Nuovi squilli.
È un lampo. Viola afferra il cellulare da sopra il letto e corre verso il bagno.
«No! Viola!». Il tappeto scivola sotto i miei piedi, ma riesco a non cadere. «Ridammelo!”.
Il mio urlo la spaventa. Riesce a chiudersi la porta alle spalle.
La sento rispondere a Luca e dirgli che sarei rimasto con lei. Sento il rumore dello sciacquone.
Un minuto. Due. Tre. Perdo il conto.
Quando riusciamo a guardarci di nuovo, il suo viso è una maschera di lacrime. I singhiozzi sono prepotenti.
Dov’è il cellulare?!?
Non ho il coraggio di domandarlo. Non ho il coraggio di andare a vedere. Lei corre in camera.
La fisso, mentre stringe con forza il suo orsacchiotto.
Dovrei abbracciarla io in quel modo. Sono un padre orribile. Assente e orribile.
Squilla il secondo cellulare. Quello che Viola non conosce e che mi aiuta a non mescolare troppo le telefonate di lavoro con quelle personali.
«Lo so… mi dispiace… Viola non si rende conto…». È un balbettio di scuse, il mio.
Luca non mi lascia il tempo di finire neppure una frase.
«Ci sono in ballo un sacco di soldi!», grugnisce prima di sbattermi il telefono in faccia.
Lo so. Mi dispiace.
Provo a risolverla con Whatsapp. Luca capirà. Conosco il dolore per il divorzio dei suoi genitori, quando era piccolo. So che riuscirà a mettersi nei panni di Viola.
Corro da lei.
«Tesoro». La strappo via dall’orsacchiotto e la tiro addosso a me. «Scusami». Le accarezzo i capelli. «Hai ragione, avevo promesso».
La costringo a guardarmi, mentre cerco di regalarle un sorriso rassicurante: «Andiamo a prenderlo?».
«Miaooo!». Schizza in bagno per prepararsi.

Lo prendo per un sì.

giovedì 18 agosto 2016

Dodici minuti dalle Dodici

Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che, imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta, anche se poi arrivava sempre quel pensiero cattivo a ricordarle che i desideri non si avverano; solo perché gli occhi catturano l’immagine di due numeri gemelli dentro un display. O perché due lancette, una più veloce dell’altra, a un certo punto si ritrovano a segnare lo stesso valore.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che,  imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Lo faceva con la stessa noncuranza con cui, almeno una volta la settimana, entrava in tabaccheria per chiedere un ‘gratta e vinci’. Perché non si può sperare di essere fortunati, se non si è disposti a dare una possibilità – anche più di una – alla fortuna. Anche se poi non le era ancora mai capitato di vincere qualcosa e gli unici soldi che era riuscita a mettere nel portafogli, che non provenissero dal suo stipendio, li aveva effettivamente incontrati per strada, in fondo a una via solitaria, poco lontano da una cicca di sigaretta sporca di rossetto.
Una piccola banconota da cinque euro. Non certo quel che basta per dare una svolta alla vita.
Incontrarla a pochi metri da un bar, con lo stomaco che aveva appena cominciato a brontolare per la fame e con la consapevolezza che l’ora di pranzo fosse ancora abbastanza lontana da non riuscire a resistere fino ad allora, l’aveva convinta che potesse essere il momento giusto per uno spuntino. Cinque euro sono più che sufficienti per un cornetto alla marmellata, per un cappuccino, di quelli con il supplemento di schiuma e di polvere di cacao che non si dimenticava mai di chiedere ovunque fosse, e per un ‘gratta e vinci’ che, a giudicare dall’insegna blu sopra la porta, con molta probabilità avrebbe trovato appesi in lunghe file dietro il bancone.
Ci sono bar che, a una certa ora, riescono a essere più affollati di una piazza in un giorno di mercato e bar che – come quello – preferiscono garantire alla clientela una giusta quiete costante. Erica era felice di essersi imbattuta in un posto del genere. Poté poggiare su una sedia le sue buste degli acquisti, senza che a qualcuno venisse in mente di chiederle un attimo dopo se per caso quella fosse una sedia libera e se, per gentilezza, avrebbe potuto prenderla.
Poté allontanarsi dal tavolo, senza portare con sé il timore che qualcuno avrebbe potuto approfittare della sua assenza per toccare le sue cose o, e non seppe stabilire se sarebbe stato peggio, rubarle il posto. Poté rimanere davanti il bancone delle cose da mangiare per tutto il tempo che reputò necessario, senza per questo sentirsi in imbarazzo davanti al barista. Senza rischiare di essere strattonata da altri affamati; più affamati di lei. E potendo scegliere (senza fretta) effettivamente quello che avrebbe voluto scegliere, scegliendo con gli occhi.
Grazie alla calma del luogo si accorse infatti di essere entrata – sì – per un cornetto alla marmellata e per un cappuccino con tanta schiuma, ma di voler chiedere un panino con prosciutto cotto e maionese e un bicchiere di spremuta d’arancia.
Chiedeva sempre una spremuta d’arancia, anche se poi – il più delle volte – in molti bar si ritrovava costretta a ripiegare sul succo in bottiglietta; che non ha niente a che vedere con il sapore delle arance appena spremute.
L’uomo dietro il bancone impiegò pochissimi secondi a spaccare i tre frutti necessari per riempiere un bicchiere e a Erica parve che l’aria dentro il locale s’impregnasse all’improvviso di quel buon odore di agrumi.
Tornò a sedersi insieme al suo panino e non riuscì a evitare di sorridere imbattendosi nel suo riflesso dentro a uno specchio a muro un po’ segnato dal tempo.
«Ecco a lei». A giudicare dalla pelle delle mani Erica avrebbe detto che quel barista non potesse essere tanto in là con l’età, ma le rughe sul viso tradivano una vita già vissuta per la maggior parte e la luce negli occhi, seppur ancora presente, sembrava essere una di quelle luci non più fresche come quelle che si trovano in gioventù o, comunque, nel buono degli anni.
Quel bar era il bar giusto anche per questo. Segno che i cinque euro trovati per strada non si erano fatti trovare davanti ai suoi piedi per caso. Per la prima volta qualcosa l’aveva spinta ad entrare proprio lì, in quel posto che aveva sempre ignorato. E si era ritrovata ad avere a che fare con una persona sconosciuta, ma che – a pelle – già godeva di tutta la sua fiducia. Una persona che, in qualche modo, la faceva sentire bene.
«Grazie!». Prese il bicchiere dal piccolo vassoio d’acciaio, cercando di nascondere il tremore delle mani che alle volte era in grado di procurarle un disagio. Aveva sentito diversi medici al riguardo e, per fortuna, tutti i controlli fatti avevano portato a credere che non ci fosse nulla fuori posto. Così, visto che le mani continuavano a ballare una danza tutta loro  di tanto in tanto, alla fine ad Erica era stato detto che – con molta probabilità – poteva trattarsi di una reazione emotiva. Reazione a che cosa? Non era dato sapere. Emotivamente parlando, però, Erica avrebbe preferito non dover aggiungere anche quello alla sua lunga lista di ‘difetti’.
«Ha trovato qualcosa di interessante in libreria?». Il barista indicò le buste con un cenno, scostandosi di qualche passo in direzione del bancone. Dei tre libri che Erica aveva appena acquistato, solo di uno era assolutamente sicura e fu quello di cui gli parlò.
«Una bella storia d’amore. Una di quelle con il lieto fine sicuro, qualunque cosa accada in mezzo alle pagine». Sorrise. A ben pensarci, avrebbe potuto approfittare di quella sosta imprevista in quel bar per leggere un po’. Ma non lo fece.
Ignorando l’imbarazzo di parlare guardando dritto negli occhi il suo interlocutore, chiese invece: «A lei piace leggere?». Il bar era tanto bizzarro da non tenere in giro neppure un quotidiano, perciò c’era da credere che il barista avesse qualche tipo di avversione per la parola scritta e che gli avesse fatto quella domanda solo per dimostrarsi cordiale.
Quando Erica lo vide tornare di nuovo dietro il bancone per tirar fuori da un cassetto una vecchia agenda di pelle e una bellissima penna stilografica, non riuscì a evitare di spalancare la bocca per lo stupore.
«Mi piace scrivere, anche se non sono poi così bravo».
«Sta scrivendo qualcosa, adesso?».
Il sorriso del barista lasciava intendere di sì, ma la sua testa rispose comunque muovendosi a destra e a sinistra.
«Peccato. Mi sarebbe piaciuto poter leggere qualcosa scritto da qualcuno che…». Erica interruppe la frase a metà, consapevole che chiuderla con la parola che aveva in mente – ossia ‘conosco’ – non fosse proprio dire la verità. Sarebbe stato più giusto affermare che le sarebbe piaciuto poter leggere qualcosa scritto da una persona cui poter stringere la mano, poi, per congratularsi del lavoro fatto. Questo, sì! Anche se, a ben pensarci, anche in tal caso non era certa che le parole del barista le sarebbero piaciute al punto da congratularsi con lui.
Scelse di rimanere in silenzio, concentrandosi sull’ultimo morso del suo panino.
«Potrebbe tornare qui fra qualche giorno e chiedermi di nuovo se ho qualcosa di finito da farle leggere, sono sicuro che per allora mi sarò fatto venire in mente almeno una piccola storia». Il barista aprì le pagine della sua agenda fino a trovarne una completamente bianca e svitò il tappo della sua stilografica come a lasciar intendere che si sarebbe messo subito all’opera.
Erica non riuscì a evitare di ridere di gusto. Non fosse stato per l’imbarazzo della richiesta, gli avrebbe domandato la possibilità di fare una fotografia insieme. Lei, lui, l’agenda e quella stilografica che poteva considerarsi, senza sbagliare, la fuoriclasse delle penne.
Continuando a tenere il cellulare in tasca, però, preferì alzarsi per raggiungere la cassa e pagare il conto.
Aveva già allungato la banconota da cinque euro oltre il bancone, che si sentì dire: «12 e 12. Esprima un desiderio…». Non era sicura che valesse, così, su comando. Né era sicura che fosse valido esprimere un desiderio in quel caso, per il fatto che non erano stati i suoi occhi a catturare la coincidenza. Ma Erica preferì ubbidire, senza pensarci troppo. Era comunque un’occasione in più, che avrebbe potuto dare a tutto ciò che avrebbe voluto diventasse realtà.
Per i desideri vale un po’ quel che vale per la fortuna. Se non si è disposti a dar loro un’opportunità quando se ne presenta l’occasione, poi non ci si può lamentare del fatto che non si avverino.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che, imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Pensò fosse buffo che anche quel barista custodisse in sé la stessa mania.
Lesse lo scontrino per controllare che fosse vero. Che fossero davvero appena passati dodici minuti dalle dodici.
In quel momento lesse anche un nome… Giuseppe.
«È lei Giuseppe?». Stavolta, la testa dell’uomo si mosse in su e in giù per rispondere di sì.
Erica pensò che un tipo del genere non l’avrebbe certo rintracciato su Facebook. Per questo, si affrettò ad allungare una mano e a presentarsi: «Mi chiamo Erica…». Avrebbe voluto raccontargli del modo bizzarro in cui aveva deciso di entrare in quel bar per la prima volta, ma non lo fece.
Non chiese nemmeno il ‘gratta e vinci’ che aveva immaginato avrebbe chiesto prima di uscire.
Quei cinque euro trovati per strada le avevano appena pagato una delle colazioni più tranquille, buone e insolite della sua vita e le avevano appena regalato la possibilità di esprimere un desiderio. Non poteva chiedere di più.
Forse, la prossima volta che sarebbe tornata a trovarlo, avrebbe potuto giocare una partita con la fortuna. E, magari, Giuseppe le avrebbe fatto trovare una storia scritta ispirandosi a quel loro breve attimo insieme. Magari, Giuseppe avrebbe potuto scrivere un racconto che parlasse dei desideri che si esprimono, quando il tempo è fatto di numeri uguali. Magari, lei avrebbe fatto in tempo a finire il libro di cui gli aveva accennato e avrebbe potuto raccontarglielo con maggiore precisione. Avrebbe potuto chiedere un’altra spremuta, per respirare di nuovo l’odore del frutto fresco nell’aria, o scegliere di farsi venire i baffi bianchi; sorseggiando un cappuccino schiumoso.
Aveva la certezza che sarebbe tornata in quel posto ed era comunque tutto ciò che contava.
Alle 12 e 18 si salutarono con un: «Arrivederci!» detto all’unisono.
Pare che alcuni esprimano desideri anche in situazioni del genere, quando la stessa parola esce da bocche differenti nello stesso momento.
Loro… no! Loro avrebbero aspettato di nuovo di imbattersi in ore e minuti uguali.


sabato 17 ottobre 2015

A spasso per il Regno, con un piccolo Principe!

Questa è la storia di un piccolo Principe, che uscì una mattina per andare a spasso insieme alla sua fata Madrina. Il cielo sarebbe potuto essere più azzurro, ma era comunque piacevole sentire sul viso l’aria fresca di un giorno d’autunno e in fondo bastava vedere remoto il rischio di pioggia.
A bordo di una moderna carrozza rossa, Madrina e Principe avevano deciso che potesse essere una buona idea andare in cerca di funghi. Senza avventurarsi per boschi o arrivare chissà dove, avrebbero cercato tra i fili d’erba del prato poco distante dal Regno e, qualora quella caccia fosse riuscita a dare esito positivo, felici ne avrebbero raccolti in grande quantità.
Prima, però, c’era da dare un’occhiata ai diversi possedimenti, perché tutto fosse a posto. La carrozza avanzò sicura per le strade segnate da altri mezzi e, nonostante la terra bagnata qua e là e qualche pozzanghera di troppo, senza timore riuscì a raggiungere tutto ciò che c’era da poter vedere.
Lungo il tragitto, il Principe s’imbatté in una coccinella, che assicurò che tutto fosse a posto da quelle parti.


Incontrò anche una giovane chiocciola, ma questa era talmente tanto di poche parole, da non uscire dal guscio nemmeno per salutare, preferendo rimanere nascosta dentro la fessura di un muro di pietra. 


Il Principe avrebbe potuto punirla ed esigere rispetto, ma era un Principe d’animo talmente buono, che predilesse lasciar perdere e andare oltre.
Qualche metro più avanti, si imbatté nelle due Gatte guardiane.
Non gli erano molto simpatiche a dire il vero, ma anche questo il Principe scelse di non lasciarlo trapelare. Augurando loro una buona giornata, senza nemmeno chiedersi cosa andassero cercando con tanto fervore, passò oltre fino ad arrivare alla fine di quella prima strada.
Ce n’era ancora un’altra da controllare. Forse, però, era anche giunta l’ora di vedere se la fortuna avrebbe regalato loro i bei funghi prataioli che andavano sognando. Lesti, Principe e Madrina tornarono al prato che avevano costeggiato poco prima. Trovarono menta selvatica profumatissima e fiorita, in grande quantità.



E per un attimo il Principe divenne un giovane, piccolo ‘Cenerentolo’; perdendo a terra una delle sue scarpe nuove.


«Che il cielo non voglia di lasciarla qui!», la fata Madrina si affrettò a raccoglierla e a rimetterla al suo posto.
Con gratitudine, il piccolo Principe le sorrise. Era divertito e questo non impedì alla fata Madrina di pensare che potesse averlo fatto di proposito, ma… non avrebbe saputo dirlo con certezza.
Ripresero il cammino, un po’ delusi per quella caccia ai funghi finita con un nulla di fatto.
Raggiunsero l’altra estremità del Regno, dove un vecchio e saggissimo custode Bau non si stancava mai di fare la guardia. Assicurò loro che nessun intruso si era avvicinato al castello nella notte e che, fino che lui avrebbe avuto vita e fiato a sufficienza per abbaiare, mai nessuno sarebbe riuscito a farlo.
Il Principe si disse ben lieto di vedere e di sentire tanta dedizione, ma aveva un po’ fretta e preferì non dilungarsi troppo in chiacchiere. Doveva arrivare fino in fondo all’altra strada e assicurarsi che tutto fosse come doveva essere.
A metà della via incontrò un grillo, salterino e solitario, che riferì di come gli acini di oliva sulle piante del Regno fossero maturati bene e del fatto che, ormai, fossero pronti per essere raccolti. Il Principe garantì che se ne sarebbe occupato. Poi, giacché il grillo andava di fretta, lo salutò e si augurò che quei primi venti freddi non lo facessero stare troppo male.
Era quasi giunto il momento di tornare al castello, ma come poteva tornarvi senza qualcosa da riportare?
Quella mattina era uscito con il preciso intento di trovare un dono per la Madre Regina e per il Padre Re e, quanto è vero che era un Principe, non sarebbe rincasato a mani vuote.
Con la complicità della fata Madrina, allora, si avviò verso la zona dei trifogli.
«Forse riusciremo a trovarne uno di quelli speciali, con la quarta foglia a far da portafortuna»; disse la Madrina speranzosa. Nonostante lo sguardo aguzzo e il tempo perso a scrutare trifoglio per trifoglio, però, niente da fare.
Sembrava proprio che quei steli lunghi fossero i più normali e comuni che potessero esserci.
Principe e Madrina stavano per girare la carrozza e tornarsene al caldo, quando un’idea improvvisa arrivò a scacciar via i brutti pensieri. Pur non avendo trovato un quadrifoglio, avrebbero potuto comunque riportare qualcosa. Il Principe guardò sorridente la Madrina e subito si capirono.
Una sola foglia di trifoglio è un cuore e non può esserci regalo migliore per dei genitori tanto amorevoli. Finalmente soddisfatti, rientrarono a corte.



Il Principe poté riposare sereno sotto una coperta cosparsa di stelle, fino che tutti rincasarono. 

mercoledì 14 ottobre 2015

Dieci righe per... l'amore tra due persone!

Incontrarsi. Parlare. Di scrittura. Di libri. Di letture. Di progetti. Confrontarsi. Condividere. L'esercizio del giorno era: raccontare l'amore tra due persone in dieci righe (word garantisce che sono dieci)...
«Un saluto ad Angela, con un ti amo grande così. Il messaggio non è firmato. Speriamo sia arrivato comunque a destinazione». Lascio cadere a terra il pennello. Angela sono io. No! Non posso essere io. Angela è un nome comune. Abbiamo litigato. Te ne sei andato via. Non mi hai permesso di capire. Quel messaggio non può essere per me. Che senso avrebbe non dirmelo, guardandomi negli occhi? Che senso avrebbe l’anonimato? Raccolgo il pennello e spengo la radio. Penso al fatto che ci piace scherzare sulle dediche della gente. Inizia a tormentarmi il dubbio. Potrebbe essere tuo. Vorresti chiedermi scusa, ma non sai come fare. No! Non può essere. Il suono del campanello. Sei tu. Tu, insieme a una rosa bianca. Sai che la preferisco così. «Troverò sempre un modo per farti sapere quanto ti amo». Mi stai chiedendo di non dubitare più. Ti credo. Ti bacio.

martedì 13 ottobre 2015

Storie di Angeli!

Scrivere. Avere scritto. Essersi lasciata ispirare dalle bellissime illustrazioni di Cristina Berardi​. Da una, in particolare. Felicissima, scopro una busta gialla per me. È tra la posta arrivata oggi. "Già! Mi ero dimenticata di dirti che hai una raccomandata". La mamma e la sua memoria ballerina; prima o poi la obbligherò a fare una cura di fosforo. È già da qualche giorno che sto aspettando questo pacchetto e non vedo l'ora di poter stringere il contenuto tra le mani. Apro comunque con attenzione. È uno di quei casi in cui l'impazienza va tenuta sotto controllo. Assolutamente. 
Sono senza parole. E' sempre un battito di cuore speciale. È bellissimo. Sfoglio in fretta tutto, rimandando una lettura più attenta. Arrivata alla pagina con su il mio nome, mi scopro a trattenere il fiato. È già passato un po’ di tempo, spero sarà un piacere rileggere anche le mie parole. 




Grazie!!! 
A tutti. A Cristina. A chi ha saputo rendere realtà un bellissimo progetto. Agli altri 'colleghi autori'. A chiunque avrà voglia di perdersi un po' tra le righe di tante... Storie di Angeli! 

domenica 27 settembre 2015

Ballo in Piazza

Quei piccoli ricordi che arrivano all'improvviso. Belli. Semplici. Comunque speciali.
Facebook dice che oggi Jovanotti compie 49 anni. Auguri! Cerco tra le sue canzoni la colonna sonora per questa giornata. Mica facile, le sue mi piacciono tutte. Mi imbatto in Safari e penso possa fare al caso mio. Mentre l'ascolto, come al solito divago con i pensieri e... mi ricordo di questo. 
Un'insieme di ispirazioni. La bellezza di una sua vecchia canzone scoperta per caso, la magia di un messaggio ricevuto da un'amica virtuale. Il rimanere a guardare le due cose fondersi insieme nella mente, per poi provare a raccontarle insieme. Il tutto condito con una manciata di fantasia e con una pizzico di polvere di stelle; perché è importante non smettere mai di credere nella forza dei propri Sogni!

Il racconto è uno di quelli della raccolta "Sotto l'Albero". Siamo nel 2012. La scrittura risale a un anno prima. Lo rileggo e noto delle piccole differenze, rispetto al mio stile di oggi. Una consapevolezza che porta con sé un pizzico di piacere, perché vuol dire essere riuscita a crescere in qualche modo. Ma avverto anche un pizzico di fastidio, nel sentire presente quella parte di me che, dovesse riscriverlo adesso, non userebbe le stesse parole.
Consiglio di lettura: YouTube alla mano, cercate il brano. E' bellissmo! :-D
Il titolo della canzone? Il Re. E' il 1997...
Ok! Lo cerco io per voi... ecco il Link! Basta un click.  
Buona domenica a tutti, alla prossima!

Ballo in Piazza


Hey, puoi veder la mia corona? Guarda il colore rosso del mantello
e questo trono ed il tappeto guarda
io sono il re e questo è il mio castello…

La voce di Angelo era più dolce che mai. L’orecchio di Alessandra ed il collo, piacevolmente accarezzati da quel respiro caldo. Gli occhi, fissi sul cielo stellato sopra di loro.
Alessandra stava cercando di non mettersi a piangere. Ma una lacrima dispettosa sfuggì comunque al suo controllo; per cadere dritta, dritta sopra alla giacca nuova di lui.
Respirò profondamente, prima di immergersi per l’ennesima volta nella profondità di quello sguardo che l’aveva fatta innamorare mesi prima.

…Il regno mio si estende all’infinito
Lungo le valli, i monti, il cielo e il mare
Io sono il re del tempo e della storia
Io sono il re venitemi a guardare…

Le labbra di Angelo, illuminate appena dalle luci gialle e lontane dei faretti, continuavano a muoversi su quella canzone.
Quella canzone, che lento non era. Ma che… era tutta loro.
Alessandra lo strinse ancora più forte a sé e mosse la mano piccola, in quella più grande di lui, fino ad intrecciare le dita con le sue.
Avrebbe voluto confessargli per l’ennesima volta quanto lo amava, ma tacque.
Sperando di non inciampare nei laccetti delle scarpe, che sapeva di non aver stretto bene, continuò a ballare.
Se era vero ciò che le avevano sempre detto sul primo giorno dell’anno; se era vero che era da considerarsi un po’ lo specchio di tutti i restanti, allora quel duemiladodici era cominciato sotto il migliore degli auspici.
Un desiderio che si realizza è un battito di cuore più forte degli altri.
Ricordava di aver parlato con Angelo di quel suo sogno speciale, ma… non pensava che Angelo l’avrebbe presa tanto sul serio.
Era stato l’agosto prima in spiaggia a Fregene, sdraiati sui lettini dopo una lunga nuotata.
“Perché, quel libro sempre appresso?”. Le aveva chiesto lui sorridendo, mentre lei era già pronta ad aprire per l’ennesima volta quelle pagine.
Quindi, incapace di trattenere l’entusiasmo, Alessandra aveva cominciato a raccontargli di quella sua vacanza di anni prima a Gubbio.
Insieme con i genitori era andata a trascorrere qualche giorno in Umbria e, camminando per le vie della città dei Ceri, si era imbattuta nell’immagine della copertina di quel libro.
Il manifesto annunciava alla cittadinanza una presentazione ormai passata, ma… ad Alessandra era bastato fissarsi per caso su quella che sembrava essere una bella storia d’amore, per decidere che alla prima libreria che avrebbe incontrato ne avrebbe acquistata una copia.
Da allora, rileggeva quella storia almeno una volta all’anno.
“Spero di poter vivere anch’io un amore così, un giorno”. Le aveva detto arrossendo.
Un rossore che era andato peggiorando, quando Angelo – sorridendo a sua volta – le aveva chiesto: “E quale sarebbe la parte che ti piace di più?”.
Alessandra confessò di ripensare spesso a quel sogno che la protagonista aveva fatto durante un viaggio in pullman, di perdersi nell’incanto di un romantico ballo in piazza Grande e di rimanere proprio senza fiato ogni volta che nella mente riusciva a focalizzare una scena simile.
“Ti andrebbe di leggerlo per me?”. Angelo sembrava sincero, anche se Alessandra non poteva negare di aver pensato che la stesse prendendo in giro.
Un attimo. Un solo attimo, poi quel pensiero svanì e tutto ciò che rimase fu la bellezza di poter condividere quel piccolo momento.
Aprì il libro fino a pagina trentasei e lesse sicura.
Non le era mai piaciuto leggere ad alta voce, ma… farlo per Angelo sembrava non pesarle affatto.

…Perché sono innamorato
E sono corrisposto
Io sono il re, io sono il re di questo posto
Senza regno né corona
Con una donna che mi vuole bene…

Quella parte della canzone… quelle parole…
Alessandra sentì una nuova lacrima rigarle il viso e la osservò morire nello stesso punto della giacca; dove era morta la prima.
“Ti amo”. Anticipò di una frazione di secondo il luccichio di un flash.
Poteva essere che turisti arrivati sin lì da chissà dove stessero immortalando l’imponente bellezza del palazzo dei Consoli; a ferma testimonianza di un orgoglioso: “Ci sono stato anch’io”.
Ma poteva anche essere che qualcuno lì avesse notati in mezzo a tutto il resto, ballare stretti come se il mondo fuori non esistesse, ed avesse deciso di immortalare quella testimonianza. Rendere indelebile un amore forte e raccontare agli amici una volta a casa – magari davanti ad una pizza e con in mano un bicchiere di birra – che si aveva avuta la fortuna di esserci; di fronte alla dimostrazione del più potente dei sentimenti.
Alessandra sorrise appena.
Poi, prendendo Angelo in contropiede, si schiarì la voce e iniziò a cantare insieme a lui.
Poco, ma sicuro, se Jovanotti li avesse sentiti in quel momento non sarebbe riuscito a farsi sfuggire un applauso; nemmeno per sbaglio.
Ma niente rende ridicoli, se la decisione di fare parte dal cuore e porta con sé le giuste motivazioni.
Alessandra avrebbe voluto gridare al mondo intero la sua fortuna.
In fondo, però, bastava che fossero due le orecchie tese ad ascoltare.

… Io sono il re, ma lo so solo io
E lo sai solo tu amore mio
Nessuno può veder la mia corona
Ma sono il re, io sono il re in persona…

Una giravolta e un’altra ancora. Angelo continuò a farla danzare, come se stessero ballando sul più importante dei palcoscenici.
I suoi occhi si persero per l’ennesima volta in quelli di lei e – in quel momento – furono sue, le lacrime a scendere.
“Ti amo. Da sempre”.

…Perché sono innamorato
E sono corrisposto
Io sono il re
Io sono il re di questo posto
Senza regno né corona
Con una donna che mi vuole bene
Con una donna che mi vuole bene
Con una donna che mi vuole bene…

Sorrisero. Le dita, ancora intrecciate.
Ad Alessandra parve di sentire nell’aria perfino il suono dei piatti, il rumore dei tamburi e il trillo dei flauti.
Un attimo di silenzio ancora, prima di un tenerissimo bacio.
Il tocco delle labbra. Il suono possente del Campanone che rintoccava l’ora.
Sì, Alessandra non aveva più dubbi.
Quella piazza…
Tutto e tutti, in quella piazza, stavano vivendo insieme a loro quel magico momento.
Lasciò che la lingua di Angelo la accarezzasse ancora per un po’, poi – seppur dispiaciuta – si staccò da quella bocca sorridente e chiese: “Pizza?”.
Il tempo da trascorrere in quella bellissima città rimaneva poco, ma… Alessandra sapeva esattamente dove andare.
A passo lento lungo via dei Consoli, fino ad arrivare di fronte alla fontana del Bargello.
“Il battesimo dei matti lo rimandiamo alla prossima, vuoi?”.
Era fuori discussione, che sarebbero tornati in quel posto; ogni volta che sarebbe stata loro possibile.
E Alessandra non poté fare a meno di impazzire di gioia, al solo pensiero.
Strinse ancora una volta le braccia intorno al collo di lui, si mise ancora una volta in punta dei piedi per poter arrivare a baciarlo senza che dovesse essere lui ad abbassarsi, poi – con lo stesso filo di voce con cui lo aveva accompagnato cantando – disse: “Grazie, per avermi concesso questo ballo. Sei il mio Angelo”.
Nulla di più.

In fondo, non c’era nient’altro da dire.

domenica 9 agosto 2015

Il coraggio di una farfalla

Il rumore della pioggia. Il sibilo del vento. A tratti, il boato dei tuoni. Il giro veloce per le stanze di casa, alla ricerca di qualche finestra rimasta aperta. Velocemente, gli occhi catturano l’agitazione delle chiome degli olivi di là dai vetri. Speriamo non succedano danni. Alla fine del controllo, di fronte all’ultima finestra, mi permetto di tornare a respirare con un po’ meno affanno e mi concedo di guardare per bene fuori.
Un lampo in lontananza. Trattengo l’istinto di coprirmi le orecchie con le mani, in attesa del tuono. Mentre sto all’erta e aspetto invano un nuovo boato, i miei occhi riescono a scorgere qualcosa di bianco in mezzo alla fitta coltre di pioggia. Penso si tratti di una foglia danzante, che piroetta nell’aria bagnata di questa domenica pomeriggio d’estate. A un’analisi più attenta, però, mi rendo conto che si tratta di una farfalla.
È la prima volta che mi capita di vedere una farfalla lottare contro la pioggia. Capisco che sta lottando tra la vita e la morte e, stavolta, vado in apnea. Spero ce la faccia a sopravvivere, ma non è scontato che riesca a volare fino a raggiungere un posto sicuro. Ha un tetto vicino, una grondaia sotto la quale potersi riparare, ma il vento continua a essere forte. Troppo.
“Coraggio! Non mollare, non arrenderti!”.
Sento i pensieri urlare in testa. Mi chiedo se i secondi, che continuano a passare, per lei stiano avendo il peso delle ore. A me farebbe questo effetto. Spero che le gocce d’acqua siano clementi e non la bombardino sulle ali fragili. Un colpo ben fatto e sarà la fine. Mi ritrovo a domandarmi se per caso non sia spacciata comunque, per il semplice essere stata presa alla sprovvista e l’essersi bagnata. Anche dovesse farcela, come si asciugano le ali di farfalla? E se poi si gualciscono, al punto da non permetterle più di volare? E se poi… interrompo sul nascere quella che ha tutta l’aria di essere una catena di ragionamenti senza senso. Ricomincio a fare il tifo per lei, non avrei mai dovuto smettere di farlo a dire il vero. Ogni volta che il vento la spinge via dalla traiettoria, che sembra voler seguire con il suo volo disperato, torno a vedere in lei una foglia morta.
“Non morire! Non morire!”.
Rimango immobile, mentre si rimette in sesto per l’ennesima volta. Cerco di capire, a spanne, quanti battiti di ali le serviranno ancora, prima di potersi dire salva. Più il tempo passa, più mi rendo conto di quanto sia forte il rischio di vederla cadere a terra da un momento all’altro. Forse, è addirittura inevitabile. Forse…
Uno. Due. Tre.
Una nuova folata di vento. Stavolta quella che, come per magia, in qualche modo è giusta. Una manna. Con l’aria che la spinge di un po’ verso terra, la farfalla bianca riesce ad avvicinarsi alle foglie larghe e grasse di una pianta in vaso. Dapprima rimane in vista, ma subito la vedo nascondersi più all’interno, tra i rami morbidi. Ce l’ha fatta. Sono sicura che è così. C'è riuscita. Il suo piccolo cuore batte ancora.
Mi ritrovo a sorridere e, di nuovo, a respirare.
C’è già un nuovo volo ad attenderla. Non le resta che aspettare un nuovo sole.

Non lo saprà mai, ma… con i miei più sinceri auguri! 

domenica 15 febbraio 2015

Amore e bigliettini

«Ehi… che fai?».
«Butto la carta… perché?».
«Senza leggere il bigliettino? Non lo sai che un Bacio si mangia praticamente apposta?».
Riccardo rimase a guardarla in silenzio. Angela aveva quel sorriso furbetto, che lui trovava bellissimo.
«No! Credo che un Bacio si mangi, piuttosto, perché è un cioccolatino buonissimo. Personalmente, adoro lo scrocchiare della nocciola intera sotto i denti e il sapore deciso, ma non troppo, del fondente; per cui vorrei mangiarne sempre uno in più».
«Ma senti tu! Che razza di…», Angela bloccò il discorso sul nascere. Non perché fosse intenzionata a dargli vinta la partita. Al contrario. Con pacatezza, ma con decisione, aggiunse d’un fiato: «Se vuoi sentire lo scrocchiare di una nocciola intera sotto i denti, basta mordere una qualunque tavoletta di cioccolato che ne abbia. Ma… se mangi un Bacio, è perché credi nella bellezza intrinseca dei messaggi che custodisce. Non si può mangiare un Bacio e non leggere il bigliettino. È contro… è contro…». A dire il vero, Angela non avrebbe saputo dire a che cosa, di preciso, la questione andasse contro. Ma, continuava a essere certa di una cosa. Non si mangia un Bacio, senza gustarne anche le parole.
«Non vorrai mica diventare come quegli uomini cinici, che girano per le strade del mondo e che non sono più nemmeno in grado di alzare gli occhi al cielo, per accorgersi delle stelle?».
«Ma… io non sto ignorando le stelle, non l’ho mai fatto finora e spero di non ritrovarmi a farlo più avanti, quando di anni ne saranno passati di più e – forse – le delusioni vissute potrebbero essere superiori alle conquiste. Spero di ricordarmi sempre, che le stelle ci sono».
Sembrava assurdo come, dal niente, fossero finiti a parlare di cose tanto astratte, quanto fondamentali. Il cielo, le stelle, il significato intrinseco di ogni cosa, il futuro e le aspettative. Angela sorrise ancora.
«Ok… ok! Però… c’è sempre il rischio che il cinismo e il disincanto si insinuino, piano, piano, in una personalità, a partire da un semplice bigliettino dei Baci. Andiamo! Sarebbe come giocare al Lotto e non verificare se si è vinto qualcosa. Come acquistare un Gratta e Vinci e non grattarlo. Se qualcuno ha pensato di mettere un biglietto insieme a un cioccolatino… una ragione ci sarà, no?».
«Ssss…sì!». Riccardo non sembrava troppo convinto, ma Angela scelse di non farci caso. Rimase a guardarlo, mentre sembrava giocare tra le dita con una pallina di carta stagnola. Il bigliettino era tutto stropicciato, ma ancora leggibile.
«Cosa c’è scritto?», gli chiese con un’espressione carica di aspettativa.
«L’amicizia è il matrimonio dell’anima. Voltaire». Riccardo rimase con il bigliettino in mano. 


Doveva ammetterlo, tra il non leggerlo e l’averlo letto era lo stesso. Elogi inutili, di buoni sentimenti il più delle volte non protagonisti nel mondo.
«Beh! Cos’è quella faccia? Non pensi che sia vero?». Angela non era intenzionata a cedere, però… c’era rimasta male, nel percepire il più totale disinteresse in quei due occhi scuri che adorava.
«Vediamo se riesco a trovare il modo di strapparti un sorriso. Te l’ho mai detto, che quando sorridi sei bellissimo?». Riccardo gliene regalò subito uno, ma Angela voleva vedere le stelle.
Strappò un pezzo di carta dal fondo della piccola rubrica telefonica, che aveva cura di portare sempre con sé, qualora il cellulare avesse deciso di darle forfait all’improvviso, per scongiurare il pericolo di rimanere senza contatti a portata di mano.
Trovò in fretta anche una penna e scrisse veloce.
«Ecco… tieni!».
Riccardo l’aprì e lesse ad alta voce: «T puntato, A puntato».


Un attimo di silenzio, poi: «Cosa vuol dire, T puntato, A puntato?».
«Vuol dire Ti Amo… no?!?».
«E… perché non lo hai scritto per esteso?».
Angela sorrise.
«Perché, in quel caso, tu non mi avresti chiesto niente e io non avrei potuto dirtelo ad alta voce… che ti amo… ti amo, più di quanto abbia mai amato qualcuno».
«Ripetilo ancora, allora. Voglio sentirlo di nuovo».
«Ti amo. Ti amo. Ti amo. Ti amo. Ti amo….», Angela avrebbe potuto continuare a dirlo all’infinito, se Riccardo non fosse riuscito a zittirla con un bacio.
Niente cioccolato fondente, niente nocciole intere e croccanti. Solo l’incontro di quattro labbra, vogliose di non perdersi mai.
«Anche io ti amo… tantissimo!», Riccardo sorrise. Fu in quel sorriso, fatto anche dagli occhi luminosi e fissi, immobili su di lei, che Angela riuscì a vedere le stelle.
«Io… di più».

domenica 2 marzo 2014

Una violetta... per un desiderio!


Sentire sotto ai piedi la terra bagnata ed eccessivamente morbida era il chiaro segno che per troppo tempo non aveva fatto che piovere. I raggi del sole, i primi dopo tanti giorni di nuvole grigie e di pesanti gocce d’acqua, davano fastidio agli occhi. Tanto, da sentire la necessità di schermarli con una mano.
La piccola Viola stava camminando, insieme con la zia. Il verde del grande prato tutt’intorno era tutto ciò che i suoi occhi di bimba riuscivano a percepire.
Avrebbe voluto portare con sé l’aquilone, ma il vento non era abbastanza forte dal lasciare sperare che sarebbe riuscito ad alzarsi in volo. Per questo, allora, si era accontentata di fare uscire di casa il vecchio, fidato Tobia. Tobia era un peluche a forma di cane che, nonostante l’aspetto pulito e leggermente arruffato, ne aveva già viste di tutti i colori. Era stato per Viola il primo, morbido regalo e – a sconcerto di chi le aveva regalato per il compleanno qualcosa di decisamente più moderno, colorato e accattivante – quel peluche era stato da subito tutto ciò che Viola aveva sempre voluto avere con sé. Guai a uscire di casa per seguire la mamma al supermercato, se anche Tobia non era nel passeggino. Assolutamente no al fatto di prendere in considerazione l’idea di andare a trovare i nonni nella casa di campagna (dove poi – di solito – Viola e genitori avevano l’abitudine di fermarsi per un giorno intero), se anche Tobia non era stato caricato in macchina insieme a tutto il resto.
Viola e Tobia facevano colazione insieme, giocavano sul divano insieme, si divertivano a fare le capriole sul pavimento insieme, insieme guardavano la televisione prima e dopo aver cenato e – sempre insieme – si coricavano nel piccolo, accogliente letto della bambina; per dormire quel tanto che bastava a due spiriti energici come i loro, prima di una nuova, grande giornata di avventure domestiche.
Nonostante questo però… non v’era dubbio che non solo Viola non ne avesse ancora abbastanza di Tobia, ma anche che… Tobia non sembrava essere ancora tanto stanco da accettare tranquillamente l’idea di essere messo da una parte. Nessuno dei due, per dirla con poche parole, sembrava avere la minima intenzione di fare a meno della buona compagnia dell’altro.

Viola era una bimbetta sveglia. Capelli ricci, biondi e lunghissimi. Un nasino buffo e quasi sempre arrossato, che in molti si divertivano a chiamare ‘nasino patatino’. Non che le dispiacesse. Oltre a non essere una bambina permalosa, Viola incarnava tutto ciò che un  bambino di quell’età dovrebbe essere. Quando la scuola è una realtà ancora abbastanza lontana, ma non si è nemmeno tanto piccoli da non capire il verso delle cose. Anzi... quando si è piccoli, si possiede il dono di vedere il mondo con occhi speciali e anche il cuore reagisce sempre bene (o quasi) a tutto ciò che ci viene riservato. Per questa ragione, quando zia Lucia richiamò la sua attenzione utilizzando proprio quelle due strambe parole, Viola non fece un frizzo. Si limitò prima a guardarla, in un secondo momento le sorrise e, alla fine di tutto, le si avvicino tanto da arrivare a prenderla per mano; per convincerla a fare una corsa insieme.
Qualcosa le diceva che la zia non era del umore giusto, ma Viola evitò di chiederne il perchè.
Inizio a correre velocemente. Tanto velocemente, che zia Lucia faticava sul serio a starle dietro.
In men che non si dica, cominciarono ad avere il fiatone. Ma non per questo Viola si decise a rallentare. Correre era una delle cose più belle al mondo. E quando capitava di poterlo fare in un grande prato, era quanto di meglio si potesse desiderare per una corsa.
Viola correva e sorrideva, sperando che anche zia Lucia riuscisse a fare altrettanto. A volte correva in circolo, a volte correva a zig-zag, altre volte – ancora – correva andando verso la strada. La bimba cercò di lasciarsi andare più che poté e fu felice quando, guardando per l’ennesima volta in direzione della zia, si accorse che l'espressione del suo viso si era addolcita.
L’aria stava perdendo lentamente l’odore della pioggia, ma non si poteva comunque negare che a tratti si sentisse il tipico aroma della terra bagnata. Insieme, continuarono a correre ancora per un po’. Fino a che Viola decise di fermarsi di nuovo e di stringersi di nuovo a Tobia. Povero, tenero Tobia. Non v’era dubbio che quella corsa doveva averlo sballottato troppo!
«Che dici zia… pensi che durerà questo bel sole?». La nipotina avrebbe voluto sedersi sull’erba, come faceva sempre dopo una corsa all’aria aperta, ma… proprio non era il caso di sporcarsi. Poi… chi le avrebbe sentite le urla della mamma alla vista dei pantaloni macchiati di fango?
«Potrebbe. In fondo… dopo tutta questa pioggia…». Lucia sorrise per la prima volta, quel giorno. Lentamente, anche i raggi del sole cominciavano ad essere meno fastidiosi. «Sarebbe bello poter pensare che sia in arrivo la bella stagione, ma… potrebbe anche piovere di nuovo».
La zia rimase a guardare Viola che continuava a muoversi sulle gambe, come faceva sempre quando avrebbe voluto fare qualcosa di diverso da quello che stava facendo.
«Ti va di camminare ancora un po’, prima di andare al bar a prendere una cioccolata calda?».
«Io e Tobia vorremmo arrivare fino al dondolo del parco, va bene?». La nipotina rimase a guardarla. Poi, al sorriso della zia, iniziò a correre.
Il dondolo non era lontano. Quando anche Lucia lo raggiunse, Viola era già seduta sopra alla panchina di ferro e si stava dondolando.
Lucia non ricordava l’ultima volta che le era capitato di dondolarsi su qualcosa del genere, ma guardare la nipote divertirsi tanto la fece sorridere per l’ennesima volta. Guardava lei, il fedele Tobia e…
«Che cosa stringi nella mano?». La mano della bimba era chiusa a pugno e per un attimo Lucia temette che potesse aver raccolto per terra qualcosa che non avrebbe dovuto toccare. In un attimo si sentì il cuore schizzare nelle tempie e riuscì a tranquillizzarsi solo dopo che la nipotina le lasciò vedere che cosa custodiva tra le dita.
«Una violetta? Dove l’hai trovata di questi tempi?».
Viola lasciò Tobia da solo sul dondolo e portò la zia fino alla fontanella d’acqua che c’era nel parco.
Poco lontano dalla colonnina di metallo con il rubinetto, tra il verde delle foglie a forma di cuore, piccole teste viola da cinque petali sbucavano in qua e in là. D’improvviso, allora, Lucia ebbe come l’impressione che in quel punto preciso l’aria avesse un odore buono; quello tipico della primavera. Avrebbe voluto sedersi sopra ai fili d’erba e immergere il naso in quella strana nuvola multicolore, ma non lo fece.
Limitandosi a raccogliere un fiore, disse solamente: «Lo sai che le violette si possono mangiare?». Quelle parole furono come la chiave per una porta sul passato.
Lucia era piccola. La sua piccola mano nascosta e protetta dentro a quella più grande e segnata dal tempo del nonno. Come quella mattina, anche allora il sole aveva deciso di tornare a fare il suo mestiere, dopo giorni e giorni di pioggia e di freddo. L’oliveto di famiglia contava diverse, grandi piante. Ma, una in particolare era la preferita di Lucia. Non perché avesse foglie diverse dalle altre o, quando d’autunno arrivava la stagione delle olive, perché si riempisse di olive speciali; rispetto agli altri alberi d’olivo. Ma… perché buona parte del pedale della pianta era cavo e, dentro a quella cavità in parte ricoperta di muschio, si nascondevano agli occhi di chiunque passasse di lì (per una passeggiata, per raccogliere funghi, asparagi, more o altro) alcune giovani pianticelle di violette. Il nonno le aveva piantate per lei.
« È un fiore molto speciale, le aveva detto non appena furono fiorite per la primissima volta. È il fiore dei desideri». Lucia aveva sempre saputo interrogare le margherite, con quel gioco meticoloso della conta dei petali. Sapeva che anche imbattersi in una coccinella poteva essere segno di buon auspicio. Ma, delle violette… No! Della magia celata tra i petali di una violetta, non aveva mai sentito parlare.
Eppure… non ebbe esitazione alcuna quando il nonno, porgendogliene una dall’intenso colore viola e dal fortissimo buon profumo, le disse: «Mangiala ed esprimi un desiderio. I desideri sono questioni speciali, mia cara. E non si possono affidare solo alle stelle. Come esseri umani, abbiamo il dovere di fare di tutto per essere felici. Ed avere dei desideri e dei sogni in cui credere è forse l’arma più forte che ci è stata data… dopo la Fede». Lucia chiuse gli occhi, stringendo il piccolo fiore tra le dita. Rimase immobile un attimo ad ascoltare i pensieri del cuore e, non appena la mente ebbe trovato le parole giuste per esprimere le sue speranze di bimba, aprì la bocca ed inghiottì il fiore. Il nonno fece altrettanto.
Non seppe mai cosa il nonno avesse desiderato in quel momento, né mai rivelò a qualcuno cosa lei stessa avesse chiesto alla sua violetta. Lucia sapeva di essere stata fortunata e questo le bastava.

Viola sgranò gli occhi dalla sorpresa e continuò a guardare  la zia.
«Proprio così… nasino patatino! La violetta non solo è un fiore che si può mangiare, ma… mangiandolo puoi affidarle un desiderio. Vorresti provare?».
Zia Lucia raccolse altre due violette dal piccolo branco di fiori e mentalmente si trovò a ringraziare il cielo che quel parco, almeno per quel che riguardava quella parte riservata ai giochi all’aperto per bambini di tutte le età, fosse interdetto agli animali. Non che una violetta cresciuta all’aperto, all’ombra di una pianta d’olivo poco lontano da casa, fosse di per sé più pulita di una violetta nata in un parco cittadino, ma… poco, ma sicuro, sarebbe stato peggio avere il sospetto che qualche cane avesse scelto proprio la zona delle violette accanto alla fontanella, per i propri bisogni.
Ad ogni modo… per esserne ancora più certa di non stare facendo qualcosa di sbagliato, Lucia aprì il rubinetto dell’acqua e diede una vigorosa sciacquata ai due piccoli fiori. Tolse le parti verdi che erano di troppo e le due violette erano pronte per essere mangiate.
Chissà se quelle due violette erano consapevoli che sarebbero diventati le custodi di due sogni?
Lucia si ritrovò a domandarselo, mentre osservava la piccola mano di Viola che era già aperta davanti a sé e mentre sorrideva alla nipotina, che sembrava aver dimenticato qualsiasi altra cosa e stava aspettando con pazienza solo di poter sperimentare quel qualcosa di nuovo.
«Sei pronta? Hai pensato bene a che cosa desiderare? Sei proprio sicura, sicura… che sia il desiderio giusto?».
Viola fece di sì con la testa. Una sola volta, per lasciare intendere comunque un sì collettivo, in risposta a tutti quegli interrogativi.
Allora…

Violette nelle mani…
Occhi chiusi…
Desideri nel cuore…

Nella bocca, il sapore di quel piccolo fiore era particolare. Dolce, ma non stucchevole quanto sarebbe quello di una zolletta di zucchero. Era molto di più simile al dolce sfuggente di una sola goccia di miele poggiata sulla lingua. Quel tipico sapore dolce, che non fai in tempo ad avvertire che è già sparito.
Anche la consistenza era interessante. Per quanto fosse ben poca cosa da mandar giù, aveva la croccantezza tipica dell’insalata. Quel tipico stridore tra i denti, che hanno le cose verdi e crude. Quel tipico scricchiolio ad ogni masticata, che per qualcuno (per fortuna, non per Viola) rappresentava un vero e proprio fastidio e una ragione più che valida per tenere alla larga dal piatto simili pietanze.
Lucia rimase ad osservare la nipotina, mentre la sua viola era già sparita dalla  bocca per arrivare allo stomaco insieme al suo desiderio.
«È tutto ok?». Le chiese.
Viola aveva faticato un po’ con un petalo, che sembrava non volerne sapere di staccarsi dal suo palato. Ma, a parte quello, era tutto ok.
La bimba prese di nuovo la zia per mano. La riportò accanto al dondolo dove Tobia era rimasto ad aspettarle e, riacciuffato anche l’amico peluche, la trascinò verso l’uscita del parco.
Una nuova corsa. Un nuovo fiatone. Con il sole brillante sopra alle loro teste, che ad ogni minuto che passava si faceva sempre più caldo. Forse… era giusto sperare che la primavera stesse arrivando; alla barba di chi continuava a piagnucolare l’arrivo fuori stagione del freddo.
Lucia sorrise al cielo, certa che il nonno le stesse guardando e che approvasse quella mattinata di assoluta spensieratezza. «Sono sicura che Viola sarà una grande sognatrice. Proprio come te… nonno!». Lo disse tra i denti, ma ad alta voce. Amava la possibilità di dare sonorità ai propri pensieri e lo faceva tutte le volte che riteneva giusto e opportuno farlo.

Strinse più forte la piccola mano della nipotina. Una bella cioccolata calda le stava già aspettando da qualche parte. Correre… correre… correre!