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sabato 6 agosto 2016

L'amore, quando basta!

Giulia addormentata sul divano. Federico la svegliò stringendola a sé. Forte. L'abbracciò, come se quell’abbraccio fosse tutto ciò di cui aveva bisogno per ricaricare le pile dopo una lunga giornata di lavoro. “Esci con me”, le sussurrò a un orecchio facendole solletico con il respiro. Era il suo modo speciale per chiederle di concedersi qualche attimo insieme sul prato fuori casa, prima di andare a dormire. Il suo modo speciale per dirle che, se anche per tutto il giorno non erano potuti stare insieme, avrebbero potuto comunque rimediare. “Le stelle sono così belle stasera, sarebbe un peccato perdersele”. Federico sorrise e a Giulia bastò l’immagine di quelle labbra perfette e incurvate all’insù per scacciare via il fantasma del sonno. “È ancora un po’ presto per i desideri, però”. Gli baciò il collo, mentre con la mano cercò la sua per poter intrecciare le dita. “Cosa vorresti chiedere a una stella cadente?”. Federico era sicuro di conoscere il desiderio più grande di Giulia, ma lo domandò comunque. Era altrettanto certo che non glielo avrebbe rivelato, ma si finse comunque un po’ imbronciato quanto lei gli rispose: “Non posso dirtelo, altrimenti non si avvera”. Oltrepassarono il portone e raggiunsero il prato senza curarsi nemmeno di prendere una coperta. “Sarà ancora un po’ presto per le stelle cadenti, ma… è il momento perfetto per lasciare cadere a terra i vestiti. Che ne dici?”. La sveglia avrebbe suonato di nuovo tra meno di sei ore, ma non importava. Giulia cercò le labbra di Federico per catturarle in un bacio lunghissimo. Quello era il suo modo preferito di ricaricare le pile.

sabato 23 luglio 2016

Ho provato ad aggiustare il tiro...

“Alle volte la vita sbaglia i momenti”. L’ho letto stamattina in un libro e da allora non faccio che pensarci. Un pensiero altrettanto frequente è un pensiero anche bizzarro; in realtà. Non lo so perché, ma la mia mente continua a produrlo da giorni e lo produce in inglese. Spessissimo me lo ritrovo in mezzo al solito caos che ho in testa, che riecheggia come sotto l’effetto di un loop infinito: 
...I’m not a robot!
C’ho messo tantissimo per capirlo ed è curioso ritrovarcisi ad avere a che fare proprio adesso che, forse per la prima volta nella mia vita, ho agito come se per davvero fossi una macchina; come se del mondo fuori non mi importasse abbastanza da cercare di capire e comportarmi di conseguenza.
Forse il mio atteggiamento è il prodotto di questioni masticate a lungo e comunque mal digerite, anche se è una magra consolazione. Forse questa vuole essere una resa dei conti caotica, in cui il misero premio di consolazione e accorgersi di avere tradito un po’ me stessa (quella me stessa che sa non tirarsi indietro, anche se c'è da correre il rischio di farsi male); con la speranza di riuscire ad aggiustare il tiro perché non è ancora tardi. Forse, sono fasulli sia l’uno che l’altro pensiero e la mia pazzia personale è più vicina al limite di quanto a me piaccia credere. Potrebbe essere…
Il punto è questo: l’incapacità di credere. L’incapacità di credere alle persone, che è il blocco peggiore che si possa avere. Con chiunque io mi ritrovi ad avere a che fare, mi accorgo di cercare - prima di ogni altra cosa - segnali possibili di in che modo questo qualcuno vorrà provare a fregarmi.
Una persona entra nella tua vita all’improvviso, lo fa con tutta la gentilezza possibile e  tu, per tutta risposta, le chiudi la porta in faccia senza avere una vera ragione. Vorrei potermi dire soddisfatta del fatto di aver colpito per prima, almeno per una volta. Ma la verità è che – invece – continuo a pensare di aver giocato troppo d’anticipo.
Perché l’ho fatto? Per paura.
Nulla paralizza di più un cuore, seppur desideroso di nuove emozioni, che la paura di soffrire di nuovo.
Non ho mai nascosto le mie ferite. Non per la vanità del sentirsi una sopravvissuta a certe cose. Non ho mai nascosto le mie ferite perché sono alcuni degli ingredienti che appartengono alla complicata ricetta di me. Io sono il risultato di momenti felici, di momenti indimenticabili, di passi fatti in equilibrio precario su un filo, di cadute inaspettate e di ferite. Da oggi mi sento di aggiungere a questo particolare miscuglio anche un pizzico di occasioni mancate. Un ingrediente che scopro di volere ancora meno del dolore, perché… mentre con il dolore sono riuscita a scendere in qualche modo a patti e in tutti i casi (posso dirlo con certezza) è stato in grado di portarmi a qualcosa di buono, un'occasione mancata è la fotografia istantanea di una strada da percorrere, che però non sentirà mai il tocco dei miei piedi.
Cosa si fa quando ci si ritrova ad avere a che fare con un'occasione mancata? 
...Si prova ad aggiustare il tiro.
Divertendomi a tempo perso con arco e frecce, posso assicurare che ce ne sono di belle da fare per riuscire a raggiungere il giallo. E, se anche il risultato non è mai garanzia, è certo che abbandonare non è la soluzione. Così, ho provato a immaginarmi come in una delle sedute di allenamento. Ho preso un respiro, ho allontanato i pensieri negativi, ho cercato di focalizzare quello che avrei voluto ottenere e ho scagliato la mia freccia.
Quando si ferisce qualcuno senza che ce ne abbia dato reale motivo, l’unica cosa possibile da fare – perché un tiro fatto male possa sperare di aggiustarsi – è chiedere scusa.
In un groviglio di parole che non mi è stato possibile dire di persona, ho cercato di spiegare le mie ragioni. Niente da fare.
Così, ora mi ritrovo a dover gestire anche un altro pensiero. Che forse ho agito male, vero. Ma che le cose si sarebbero potute aggiustare con la massima tranquillità, se solo anche dall’altra parte ci fosse stata l’esigenza di aggiustare il tiro allo stesso modo. 
Una cosa che di me non è mai cambiata è proprio questa. L’esigenza di un’emozione che può essere tanto veloce quanto una stella cadente, ma che - necessariamente - deve essere vera.
È stata un’emozione a spaventarmi. Qualcosa che, al di là di ogni mio calcolo, è riuscito a fare un passo in più rispetto alla convinzione che avrei potuto fare tranquillamente a meno di certe cose e il pensiero che avrei preferito non immischiarmi più in faccende umane del genere.
Mi sono ritrovata seduta su una panchina, a parlare più di niente che di qualcosa, a cercare di raccontarmi per quel poco che sono e a sorridere felice; dentro una serata d’estate decisamente inaspettata.
In quel momento ho saputo riconoscere un attimo speciale. Un piccolissimo frammento della normalità che vado cercando, da cui però – subito dopo – ho sentito l’esigenza di difendermi. Di scappare.
Forse ho sbagliato. O, forse, no. Cerco di mettermi nei panni di quest’altra persona e, nel limite di quel poco che ho potuto conoscere, cerco di capire se per caso non abbia esagerato con le parole nei confronti di qualcuno che, magari, era spaventato quanto me. Non saprei. Continuo a provare a mettermi nei panni di quest’altra persona e mi domando perché, semmai, possa essere bastato così poco per lasciar perdere. Provo a mettermi nei panni di quest’altra persona e penso che non sia possibile non accorgersi di come ho provato a sistemare le cose. Torno a mettermi nei miei panni e sento di nuovo quel pensiero in inglese: I’m not a robot! Il che significa che, forse, è proprio perché non sono una macchina che ho agito in questo modo. Perché le macchine non temono di farsi male. Perché le macchine, in nessun modo, provano a farsi capire pure sbagliando. Perché le macchine non hanno cuore. Torno a mettermi nei miei panni e ritrovo quel bisogno di essere protetta, anche se farlo potrebbe significare avere a che fare con un mucchio di spine. Torno a mettermi nei miei panni e ritrovo il desiderio di incontrare qualcuno che, in un mondo pieno di apparenze e di finta perfezione, in un mondo dove sembra sia la regola non lasciarsi coinvolgere dalle cose, sia imperfetto quanto me, magari abbia un lato oscuro difficile quanto il mio, sia il risultato di un miscuglio di ingredienti assurdi da mettere tutti insieme e sappia difendersi chiudendo le porte al mondo, se quel mondo non lo fa sentire al sicuro quanto vorrebbe. Sono porte che si chiudono anche per misurare il coraggio di chi viene a bussare, per vedere quanto sarà in grado di insistere ed aspettare. E si chiudono sempre e solo se c'è stato un pizzico di felicità alla base. Perché solo ciò che è in grado di regalare un'emozione è in grado di far nascere la paura di doverne fare a meno. 
Ho provato a trasformare uno zero in un dieci. Ho provato ad aggiustare il tiro…


sabato 23 aprile 2016

In un sabato mattina qualunque

Un sabato che comincia e prosegue a rilento. Colpa di un mal di gola che non mi da tregua da ieri sera. Quelle infezioni fastidiose, pur non eccessivamente debilitanti, che si manifestano appena hanno il sentore di fine settimana in avvicinamento. Ho la sensazione che proprio adesso si stia tenendo un rave party di formiche sopra la mia faringe.
Rimango comunque dell’idea di sbrigare l’unica incombenza vera della giornata e, già che ci sono, vorrei passare in  libreria. Oggi è la giornata mondiale del libro.
Sono le dieci quando riesco a tirarmi fuori dal letto e scendere in cucina per la colazione. Il progetto di ritornare a scrivere di mattina presto se ne va a farsi benedire per l’ennesima volta.
Un’ora e venti più tardi sono già in fila all’ufficio postale; un’altra delle cose che sarebbe bene sbrigare prima delle nove.
Prendo il numero riservato ai contocorrentisti. Dovrebbe garantire una velocità di scorrimento maggiore, almeno in teoria. Ma dubito che serviranno meno di trenta minuti per far sì che le undici persone che ho davanti si tolgano di mezzo.
Sono il 51. Stanno servendo il 39.
Un signore entrato subito dopo di me sbuffa, ancor prima di vedere il piazzamento del suo turno, perché l’ufficio è decisamente affollato.
Ok! Pazienza. Se non riesco ad andare in libreria entro la mattinata, vorrà dire che ci tornerò nel pomeriggio. È la giornata mondiale del libro, non si può non acquistare nulla per l’occasione.
Osservo lo scorrimento dei numeri sul grande display appeso al muro, con lo stesso interesse con cui mi ritrovo a leggere le notizie che scorrono su uno schermo tv poco lontano. Dovessero interrogarmi in merito all’una o all’altra cosa, in entrambi i casi non saprei cosa rispondere.
Riesco a ristabilire la giusta attenzione nel momento in cui i numeri sembrano impazzire all’improvviso e saltano in fretta dal 41 al 46. Quei piccoli miracoli inaspettati, che possono accadere all’ufficio postale se qualcuno decide di non poter aspettare più di qualche minuto per poter essere servito. Certo che sei persone che abbandonano il tentativo non sono poche...
Buon per me!
Per me e per la signora seduta più avanti, che un attimo prima già si stava lamentando di dover ancora andare al supermercato a fare la spesa per il pranzo ed ora è davanti all’addetto per poter pagare dei bollettini in scadenza.
Anche la donna seduta accanto non scherza, in quanto a entusiasmo improvvisamente ritrovato.
Stringe in mano due biglietti e ha l’aria di chi sta controllando le estrazioni del lotto alla tv, per vedere se ha vinto.
È un testa a testa tra i numeri dei correntisti e quelli generici per i bollettini. Da una parte il 47, aspettando il 48. Dall’altra il 73, aspettando il 74. Scatta prima il 48.
Sorrido mentre la osservo che si alza in piedi per far capire di esserci e sento le labbra incresparsi ancora di più quando la vedo regalare il suo 74 al ragazzo seduto accanto a lei. Lui stringeva in mano l’85. Quando si dice un colpo di fortuna di massa!
Il 49 è di nuovo mancante. Il 50 è sbrigativo. Arrivato finalmente il mio turno, decido di dare una mano anch’io al prossimo scegliendo di non bloccare la fila per compilare il modulo per un bonifico. L’ultima volta che mi è capitato di doverne fare uno, l’addetto allo sportello ha preferito approfittarne per riposarsi un po’. Scelte.
Il signore dietro di me mi sorride. A mezzogiorno siamo entrambi fuori di lì.
C’è un movimento discreto di gente anche in libreria. Mi piace pensare che siamo lì tutti per la stessa ragione, ma rimane una supposizione non verificata.
Mi piazzo davanti allo scaffale delle novità e rimango a fissare le copertine, fino a che non trovo qualcosa in grado di colpirmi. È strano dover fare i conti con un imbarazzo della scelta che non dipende tanto dal fatto di non trovare qualcosa che sia affine ai gusti, quanto al non sapere a che cosa dare la precedenza.
Leggo la quarta di copertina di tre libri che trovo tutti interessanti e, anche se vorrei stabilire in maniera oculata quale portare fino alla cassa con me, alla fine lascio che sia l’istinto a guidarmi. Una volta tanto…


Un giro per gli altri scaffali, trovo anche ‘lui’...



La prima volta che mi ci sono imbattuta, leggendo commenti entusiasti su Facebook, mi sono trattenuta dall’acquistarlo immediatamente on-line. La seconda volta è stato un faccia a faccia al supermercato. Non l’ho messo nel carrello insieme ai cereali, agli yogurt e ad altre cose, un po’ perché andavo di fretta e un po’ perché… custodivo l’idea di conservare quell’acquisto per un’occasione speciale. Oggi non avevo più scuse per rimandare ancora.
Ho la sensazione che entrambi i libri saranno in grado di regalarmi qualcosa di speciale. Non capita sempre, pur trattandosi di buone letture.
Mentre torno a casa, con i miei acquisti sistemati dentro una busta di carta, mi ritrovo a domandarmi se per caso si trovino bene l’uno accanto all’altro. Il pensiero folle di un secondo, che è però ragione di un nuovo sorriso divertito.
Arrivo al parcheggio sotto un cielo grigio, che più grigio non si può. È una fortuna che il tempo abbia retto, nonostante sia da una settimana che tutti vanno dicendo quanto pioverà questo weekend.
Entro in macchina e mi lascio avvolgere dall’odore di pane fresco. Avevo dimenticato di essere passata al forno, prima di ogni altra cosa.
In fondo alla strada, ferma allo stop, le prime gocce cominciano a colpire il vetro. È il tempo ideale per un pranzo veloce, per una tazza di tè e per una nuova storia da leggere sotto le coperte. Mentre le formiche continuano con il loro rave… ;-)

Alla prossima!

sabato 9 gennaio 2016

Ascoltando il mondo intorno...

La porta aperta, di un ristorante ancora chiuso. Tre ragazzi lì davanti, chiacchiere vivaci e una specie di ‘pausa sigaretta’. Giovanissimi. Forse vent’anni, o poco più. Per tutte le volte in cui mi capita ancora di ritrovarmi a dover rispondere a domande tipo: “Come va la scuola?”; direi che stabilire l’età di qualcuno dopo una semplice occhiata è tutto; fuorché facile. Ascoltare il mondo intorno, mentre a ogni passo mi avvicino un po’ di più alla macchina parcheggiata in fondo alla strada. Uno di loro è agitato. Lo vedo gesticolare, prima di sentire il suo tono di voce sostenuto. Indossa un paio di pantaloni color cachi. Non belli, ma in grado di dare nell’occhio. “Io gliel’ho detto”, lo sento gridare. “Se sta con me, sta con me e basta. Non esiste che esce con altri”. Gesticola in maniera importante. So che non dovrei farlo, ma mi ritrovo a rallentare un po’. “Per le altre non mi è mai importato niente, ma per lei è diverso. Non voglio che veda altri”. Mi fa sorridere. “Io gliel’ho detto”, ripete. E mi ritrovo a domandarmi perché in una coppia che, stando a quel poco che c’è di intuibile, dovrebbe essere appena nata, debba insinuarsi una stranezza del genere. Una debolezza del genere. Un difetto del genere, mi sentirei di dire. Non dovrebbe essere logico? Normale? Come mai un ragazzo giovanissimo teme di dover dividere la sua Lei con qualcun altro? Mi immagino se un giorno dovessero essere dette a me certe parole. Un “Tu sei mia, mia e basta”. Non vorrei mai che fosse per l’intensione di placare un dubbio. Vorrei si trattasse di una sottolineatura. Di un colpo di evidenziatore su qualcosa di ovvio. Di una freccia lampeggiante, a indicare una strada percorribile in una sola maniera. Penso allora a un’altra volta, in cui mi è capitato di ritrovarmi a discutere con una persona per il semplice fatto di aver detto che in una coppia considero importante (fondamentale) il fatto di essere l’uno un po’ ‘proprietà’ dell’altro. Il mio ragazzo, la mia ragazza. Mia moglie, mio marito. È quel ‘mio’ e quel ‘mia’, che rendono il concetto speciale. L’altra parte sosteneva di non poter privare una persona della propria individualità, che ciò avrebbe voluto dire considerarla un oggetto. Ho sentito le orecchie chiudersi di colpo. L’amore. Quello vero. Che sia folle. Che ci faccia sentire ‘proprietari’ di qualcosa che non siamo disposti a condividere. Di qualcuno che non siamo disposti a condividere. Di cui non possiamo fare a meno, come del bene più prezioso che abbiamo. Quel qualcuno per cui niente è la stessa cosa, rispetto a ciò che è già il vissuto e, magari, rispetto anche a ciò che potrebbe essere l'immaginato. Ecco. Perdere la testa in questo modo è ciò che in fondo cerco; andando per la mia strada. Esiste qualcosa di più bello? Esiste altro, per cui valga la pena di barattare la propria indipendenza? Io dico di no!   

sabato 10 ottobre 2015

Ognuno si salva da solo!

Un altro giorno con il cielo grigio. Non ho nulla in contrario con le nuvole, quando decidono di tingersi di questo colore, ma riesco comunque ad accorgermi del senso diverso che sanno dare al tempo; alle giornate in generale. Un sabato con il cielo grigio è un sabato che, oltre a saper ospitare lunghi momenti di lettura, pause davanti alla televisione e tè e tisane a volontà (meglio se con qualche biscotto da sgranocchiare), riesce a ospitare anche momenti, più o meno lunghi e più o meno sereni, di riflessione. Magari mentre si sta seduti sul divano, con un film in dvd a far distrattamente da sottofondo e un piccolo plaid di pile disteso sopra le gambe; di quelli che fino a qualche giorno fa erano ancora chiusi nell’armadio, ben piegati e nascosti sotto mucchi di indumenti altrettanto ordinati.
Di tante riflessioni che si possono imbastire, poi, chissà perché, si va sempre a finire a pensare di sé. Ottobre è un mese ancora sufficientemente lontano dalla fine dell’anno, da potersi sentire autorizzati a rinviare ipotetici, forse necessari (ma non è detta!) bilanci personali. Eppure, mi rendo conto che anche per questo 2015 arrivato alla sua decima parte di dodici ne sono già successe di cose, che potrebbero bastare per provare a tirare le fila del discorso. Non ci provo. Manca la voglia.
Ma non posso comunque fare a meno di dirmi che, anche stavolta, per certe cose è andata bene. Non che non siano costate fatica. Non che non siano costate lacrime. Non che non abbia dovuto fare i conti con una sorta ormai nota di dolore che, ahimè, sembra avermi preso un po’ di mira.
Penso al fatto di credere che un po’ sia colpa mia, che in fondo non si soffrirebbe per niente e per nessuno, se non si permettesse a questo niente e a questo nessuno di toccarci nel cuore.
Sì. Indubbiamente, ho la mia giusta dose di responsabilità. Ma… cosa ne rimane, allora, della responsabilità altrui? Se anche fosse vera l’inconsapevolezza individuale dell’esporsi troppo al dolore, gli altri non potrebbero fare da scudo, evitando di infliggere ferite gratuite?
Qui aprirei volentieri un lungo monologo sulla superficialità (che a volte è cattiveria pura) umana, ma non è stato questo il giro fatto oggi dai miei pensieri.
Appurato di non essere riuscita a trovare la risposta a ogni domanda, mi sono ritrovata a pensare di avercela comunque fatta. Anche stavolta. Anche in una situazione umana che ha del paradossale, dove non sono riuscita a trovare neppure il briciolo di una sincera amicizia. È stata dura aprire gli occhi, ma ce l’ho fatta. Ho pensato a ipotetici ‘grazie!’ da dover elargire, almeno nella mente; almeno nel cuore. Il primo pensiero è andato alla mia famiglia. Perché ha saputo sostenermi, laddove il mio sorriso non ce la faceva a nascere. Perché ha saputo comprendere i miei silenzi e i miei malumori, senza fare troppe domande. Perché ha saputo esserci, nonostante tutto. Sì. Penso sia così l’essere fortunati ai massimi livelli, da questo punto di vista. Poi, però, mi sono ritrovata a pensare un’altra cosa ancora: Grazie a me! E l’ho urlato in mezzo ad altri pensieri. Grazie a me, ancora una volta. A me, che ho voluto credere con tutte le forze che una serie di concetti non compresi (per quanto lunga e tormentosa possa essere stata) non mi avrebbe uccisa dentro. A me, che – nonostante tutto – ho avuto il coraggio di andare in cerca della verità; pur sapendo che ne sarei uscita con le ossa rotte. A me, che nonostante tutto non ho mai reso pane per focaccia e ho sperato di farcela ad abbandonare le lacrime e le crisi di pianto improvvise, senza il bisogno di infliggere colpi bassi. A me, che oggi – oggi, come ieri e più che mai! – riesco ancora a guardarmi allo specchio con la convinzione di non essere una cattiva persona. Non di quelle in grado di bassezze di ogni genere, pur di… non si sa nemmeno che cosa. A me, che non ho mai utilizzato i miei dolori passati come ragione per far del male ad altri. A me, per tutte queste ragioni e per tantissime altre che non starebbero nemmeno in un libro. Allora, sono arrivata a una conclusione rapida, adesso facile da afferrare, avendola a portata di mano, ma quanto mai difficile da raggiungere. Non sono d’accordo con chi dice che: nessuno si salva da solo. È da dentro che parte la spinta per non morire nelle emozioni. È da dentro che parte la voglia di non arrendersi. È da dentro che nasce la grinta per dare il via alla ricerca di nuovi sorrisi. Nessuno può essere salvato da anima viva che lo circondi (per quanto possa essere amorevole come una famiglia), se prima non trova in sé la voglia di salvarsi. Se solo avessi permesso alla situazione di schiacciarmi del tutto, se solo non fossi riuscita a riflettere che non sarebbe stato giusto, se solo non avessi avuto il coraggio di porre domande, per non ricevere risposte (almeno, non dirette) o parole di conforto, se solo mi fossi vergognata di affrontare la mia debolezza a testa alta, anche a costo di andare incontro ad ilarità altrui, se solo avessi permesso alla mediocrità di certi bassi sentimenti di avere la meglio, a quest’ora sarei diversa. Non morta nell’apparenza, ma indubbiamente uccisa nell’essenza. Peggiore, indubbiamente. E sono sicura che ce ne saranno ancora di colpi da evitare, che faticherò sempre a riconoscere il falso a prima vista (un po’ perché per indole cerco di vedere il buono e il vero ovunque, un po’ perché… alle volte, il falso sa mascherarsi bene). Ma c’è viva nel cuore la speranza di farcela ancora; insieme alla speranza che parlare con le persone non sia sempre tanto inutile, che magari capiti di incontrare persone disposte ad ascoltare, ma ascoltare davvero e capire. Persone in grado di leggere il dolore e la paura negli occhi, senza sentire il bisogno di aumentarli; senza coltivare l’ambizione di riuscire a fare di peggio. Non lo so. 
Alla fine, come tutte le riflessioni che nascono per caso in un giorno di pioggia, a un certo punto il rumore dell’acqua addosso al vetro della finestra mi ha distratto e… subito dopo sono tornata nella confusione di pensieri di un attimo prima; che di solito sono i pensieri tranquilli di sempre.

domenica 2 marzo 2014

Una violetta... per un desiderio!


Sentire sotto ai piedi la terra bagnata ed eccessivamente morbida era il chiaro segno che per troppo tempo non aveva fatto che piovere. I raggi del sole, i primi dopo tanti giorni di nuvole grigie e di pesanti gocce d’acqua, davano fastidio agli occhi. Tanto, da sentire la necessità di schermarli con una mano.
La piccola Viola stava camminando, insieme con la zia. Il verde del grande prato tutt’intorno era tutto ciò che i suoi occhi di bimba riuscivano a percepire.
Avrebbe voluto portare con sé l’aquilone, ma il vento non era abbastanza forte dal lasciare sperare che sarebbe riuscito ad alzarsi in volo. Per questo, allora, si era accontentata di fare uscire di casa il vecchio, fidato Tobia. Tobia era un peluche a forma di cane che, nonostante l’aspetto pulito e leggermente arruffato, ne aveva già viste di tutti i colori. Era stato per Viola il primo, morbido regalo e – a sconcerto di chi le aveva regalato per il compleanno qualcosa di decisamente più moderno, colorato e accattivante – quel peluche era stato da subito tutto ciò che Viola aveva sempre voluto avere con sé. Guai a uscire di casa per seguire la mamma al supermercato, se anche Tobia non era nel passeggino. Assolutamente no al fatto di prendere in considerazione l’idea di andare a trovare i nonni nella casa di campagna (dove poi – di solito – Viola e genitori avevano l’abitudine di fermarsi per un giorno intero), se anche Tobia non era stato caricato in macchina insieme a tutto il resto.
Viola e Tobia facevano colazione insieme, giocavano sul divano insieme, si divertivano a fare le capriole sul pavimento insieme, insieme guardavano la televisione prima e dopo aver cenato e – sempre insieme – si coricavano nel piccolo, accogliente letto della bambina; per dormire quel tanto che bastava a due spiriti energici come i loro, prima di una nuova, grande giornata di avventure domestiche.
Nonostante questo però… non v’era dubbio che non solo Viola non ne avesse ancora abbastanza di Tobia, ma anche che… Tobia non sembrava essere ancora tanto stanco da accettare tranquillamente l’idea di essere messo da una parte. Nessuno dei due, per dirla con poche parole, sembrava avere la minima intenzione di fare a meno della buona compagnia dell’altro.

Viola era una bimbetta sveglia. Capelli ricci, biondi e lunghissimi. Un nasino buffo e quasi sempre arrossato, che in molti si divertivano a chiamare ‘nasino patatino’. Non che le dispiacesse. Oltre a non essere una bambina permalosa, Viola incarnava tutto ciò che un  bambino di quell’età dovrebbe essere. Quando la scuola è una realtà ancora abbastanza lontana, ma non si è nemmeno tanto piccoli da non capire il verso delle cose. Anzi... quando si è piccoli, si possiede il dono di vedere il mondo con occhi speciali e anche il cuore reagisce sempre bene (o quasi) a tutto ciò che ci viene riservato. Per questa ragione, quando zia Lucia richiamò la sua attenzione utilizzando proprio quelle due strambe parole, Viola non fece un frizzo. Si limitò prima a guardarla, in un secondo momento le sorrise e, alla fine di tutto, le si avvicino tanto da arrivare a prenderla per mano; per convincerla a fare una corsa insieme.
Qualcosa le diceva che la zia non era del umore giusto, ma Viola evitò di chiederne il perchè.
Inizio a correre velocemente. Tanto velocemente, che zia Lucia faticava sul serio a starle dietro.
In men che non si dica, cominciarono ad avere il fiatone. Ma non per questo Viola si decise a rallentare. Correre era una delle cose più belle al mondo. E quando capitava di poterlo fare in un grande prato, era quanto di meglio si potesse desiderare per una corsa.
Viola correva e sorrideva, sperando che anche zia Lucia riuscisse a fare altrettanto. A volte correva in circolo, a volte correva a zig-zag, altre volte – ancora – correva andando verso la strada. La bimba cercò di lasciarsi andare più che poté e fu felice quando, guardando per l’ennesima volta in direzione della zia, si accorse che l'espressione del suo viso si era addolcita.
L’aria stava perdendo lentamente l’odore della pioggia, ma non si poteva comunque negare che a tratti si sentisse il tipico aroma della terra bagnata. Insieme, continuarono a correre ancora per un po’. Fino a che Viola decise di fermarsi di nuovo e di stringersi di nuovo a Tobia. Povero, tenero Tobia. Non v’era dubbio che quella corsa doveva averlo sballottato troppo!
«Che dici zia… pensi che durerà questo bel sole?». La nipotina avrebbe voluto sedersi sull’erba, come faceva sempre dopo una corsa all’aria aperta, ma… proprio non era il caso di sporcarsi. Poi… chi le avrebbe sentite le urla della mamma alla vista dei pantaloni macchiati di fango?
«Potrebbe. In fondo… dopo tutta questa pioggia…». Lucia sorrise per la prima volta, quel giorno. Lentamente, anche i raggi del sole cominciavano ad essere meno fastidiosi. «Sarebbe bello poter pensare che sia in arrivo la bella stagione, ma… potrebbe anche piovere di nuovo».
La zia rimase a guardare Viola che continuava a muoversi sulle gambe, come faceva sempre quando avrebbe voluto fare qualcosa di diverso da quello che stava facendo.
«Ti va di camminare ancora un po’, prima di andare al bar a prendere una cioccolata calda?».
«Io e Tobia vorremmo arrivare fino al dondolo del parco, va bene?». La nipotina rimase a guardarla. Poi, al sorriso della zia, iniziò a correre.
Il dondolo non era lontano. Quando anche Lucia lo raggiunse, Viola era già seduta sopra alla panchina di ferro e si stava dondolando.
Lucia non ricordava l’ultima volta che le era capitato di dondolarsi su qualcosa del genere, ma guardare la nipote divertirsi tanto la fece sorridere per l’ennesima volta. Guardava lei, il fedele Tobia e…
«Che cosa stringi nella mano?». La mano della bimba era chiusa a pugno e per un attimo Lucia temette che potesse aver raccolto per terra qualcosa che non avrebbe dovuto toccare. In un attimo si sentì il cuore schizzare nelle tempie e riuscì a tranquillizzarsi solo dopo che la nipotina le lasciò vedere che cosa custodiva tra le dita.
«Una violetta? Dove l’hai trovata di questi tempi?».
Viola lasciò Tobia da solo sul dondolo e portò la zia fino alla fontanella d’acqua che c’era nel parco.
Poco lontano dalla colonnina di metallo con il rubinetto, tra il verde delle foglie a forma di cuore, piccole teste viola da cinque petali sbucavano in qua e in là. D’improvviso, allora, Lucia ebbe come l’impressione che in quel punto preciso l’aria avesse un odore buono; quello tipico della primavera. Avrebbe voluto sedersi sopra ai fili d’erba e immergere il naso in quella strana nuvola multicolore, ma non lo fece.
Limitandosi a raccogliere un fiore, disse solamente: «Lo sai che le violette si possono mangiare?». Quelle parole furono come la chiave per una porta sul passato.
Lucia era piccola. La sua piccola mano nascosta e protetta dentro a quella più grande e segnata dal tempo del nonno. Come quella mattina, anche allora il sole aveva deciso di tornare a fare il suo mestiere, dopo giorni e giorni di pioggia e di freddo. L’oliveto di famiglia contava diverse, grandi piante. Ma, una in particolare era la preferita di Lucia. Non perché avesse foglie diverse dalle altre o, quando d’autunno arrivava la stagione delle olive, perché si riempisse di olive speciali; rispetto agli altri alberi d’olivo. Ma… perché buona parte del pedale della pianta era cavo e, dentro a quella cavità in parte ricoperta di muschio, si nascondevano agli occhi di chiunque passasse di lì (per una passeggiata, per raccogliere funghi, asparagi, more o altro) alcune giovani pianticelle di violette. Il nonno le aveva piantate per lei.
« È un fiore molto speciale, le aveva detto non appena furono fiorite per la primissima volta. È il fiore dei desideri». Lucia aveva sempre saputo interrogare le margherite, con quel gioco meticoloso della conta dei petali. Sapeva che anche imbattersi in una coccinella poteva essere segno di buon auspicio. Ma, delle violette… No! Della magia celata tra i petali di una violetta, non aveva mai sentito parlare.
Eppure… non ebbe esitazione alcuna quando il nonno, porgendogliene una dall’intenso colore viola e dal fortissimo buon profumo, le disse: «Mangiala ed esprimi un desiderio. I desideri sono questioni speciali, mia cara. E non si possono affidare solo alle stelle. Come esseri umani, abbiamo il dovere di fare di tutto per essere felici. Ed avere dei desideri e dei sogni in cui credere è forse l’arma più forte che ci è stata data… dopo la Fede». Lucia chiuse gli occhi, stringendo il piccolo fiore tra le dita. Rimase immobile un attimo ad ascoltare i pensieri del cuore e, non appena la mente ebbe trovato le parole giuste per esprimere le sue speranze di bimba, aprì la bocca ed inghiottì il fiore. Il nonno fece altrettanto.
Non seppe mai cosa il nonno avesse desiderato in quel momento, né mai rivelò a qualcuno cosa lei stessa avesse chiesto alla sua violetta. Lucia sapeva di essere stata fortunata e questo le bastava.

Viola sgranò gli occhi dalla sorpresa e continuò a guardare  la zia.
«Proprio così… nasino patatino! La violetta non solo è un fiore che si può mangiare, ma… mangiandolo puoi affidarle un desiderio. Vorresti provare?».
Zia Lucia raccolse altre due violette dal piccolo branco di fiori e mentalmente si trovò a ringraziare il cielo che quel parco, almeno per quel che riguardava quella parte riservata ai giochi all’aperto per bambini di tutte le età, fosse interdetto agli animali. Non che una violetta cresciuta all’aperto, all’ombra di una pianta d’olivo poco lontano da casa, fosse di per sé più pulita di una violetta nata in un parco cittadino, ma… poco, ma sicuro, sarebbe stato peggio avere il sospetto che qualche cane avesse scelto proprio la zona delle violette accanto alla fontanella, per i propri bisogni.
Ad ogni modo… per esserne ancora più certa di non stare facendo qualcosa di sbagliato, Lucia aprì il rubinetto dell’acqua e diede una vigorosa sciacquata ai due piccoli fiori. Tolse le parti verdi che erano di troppo e le due violette erano pronte per essere mangiate.
Chissà se quelle due violette erano consapevoli che sarebbero diventati le custodi di due sogni?
Lucia si ritrovò a domandarselo, mentre osservava la piccola mano di Viola che era già aperta davanti a sé e mentre sorrideva alla nipotina, che sembrava aver dimenticato qualsiasi altra cosa e stava aspettando con pazienza solo di poter sperimentare quel qualcosa di nuovo.
«Sei pronta? Hai pensato bene a che cosa desiderare? Sei proprio sicura, sicura… che sia il desiderio giusto?».
Viola fece di sì con la testa. Una sola volta, per lasciare intendere comunque un sì collettivo, in risposta a tutti quegli interrogativi.
Allora…

Violette nelle mani…
Occhi chiusi…
Desideri nel cuore…

Nella bocca, il sapore di quel piccolo fiore era particolare. Dolce, ma non stucchevole quanto sarebbe quello di una zolletta di zucchero. Era molto di più simile al dolce sfuggente di una sola goccia di miele poggiata sulla lingua. Quel tipico sapore dolce, che non fai in tempo ad avvertire che è già sparito.
Anche la consistenza era interessante. Per quanto fosse ben poca cosa da mandar giù, aveva la croccantezza tipica dell’insalata. Quel tipico stridore tra i denti, che hanno le cose verdi e crude. Quel tipico scricchiolio ad ogni masticata, che per qualcuno (per fortuna, non per Viola) rappresentava un vero e proprio fastidio e una ragione più che valida per tenere alla larga dal piatto simili pietanze.
Lucia rimase ad osservare la nipotina, mentre la sua viola era già sparita dalla  bocca per arrivare allo stomaco insieme al suo desiderio.
«È tutto ok?». Le chiese.
Viola aveva faticato un po’ con un petalo, che sembrava non volerne sapere di staccarsi dal suo palato. Ma, a parte quello, era tutto ok.
La bimba prese di nuovo la zia per mano. La riportò accanto al dondolo dove Tobia era rimasto ad aspettarle e, riacciuffato anche l’amico peluche, la trascinò verso l’uscita del parco.
Una nuova corsa. Un nuovo fiatone. Con il sole brillante sopra alle loro teste, che ad ogni minuto che passava si faceva sempre più caldo. Forse… era giusto sperare che la primavera stesse arrivando; alla barba di chi continuava a piagnucolare l’arrivo fuori stagione del freddo.
Lucia sorrise al cielo, certa che il nonno le stesse guardando e che approvasse quella mattinata di assoluta spensieratezza. «Sono sicura che Viola sarà una grande sognatrice. Proprio come te… nonno!». Lo disse tra i denti, ma ad alta voce. Amava la possibilità di dare sonorità ai propri pensieri e lo faceva tutte le volte che riteneva giusto e opportuno farlo.

Strinse più forte la piccola mano della nipotina. Una bella cioccolata calda le stava già aspettando da qualche parte. Correre… correre… correre!

domenica 24 marzo 2013

Letto: Bianca come il latte rossa come il sangue

Buongiorno!
Alzarsi (non proprio di buon ora) con il 'sapore' di una lettura stupenda ancora sugli occhi... è qualcosa che non mi capitava da un po'. Un po', perché è da diverso tempo che ho cominciato alcune letture, senza poter essere ancora arrivata alla fine. Un po', perché è comunque più raro di quanto si pensi (anche per chi legge con una certa assiduità) imbattersi in pagine che marchino la mente e il cuore in maniera indelebile. 


Quando il libro è uscito in prima edizione, l'ho consapevolmente 'evitato'. Accattivante il titolo, il nome dello scrittore che non conoscevo e - quindi - un'innata curiosità di scoprire un nuovo modo di scrivere, ma... arrivare al retro di copertina e leggere la trama è stato ciò che - sul momento - mi ha bloccato sull'acquisto e mi ha fatto propendere per altro. Una storia che parla di amore e di malattia... un cazzotto nello stomaco. Proprio ciò che non volevo ritrovarmi a vivere. Proprio ciò che non mi potevo permettere di vivere. Proprio ciò che non sarei riuscita a vivere, metabolizzare e superare. 
C'è stato un lungo periodo di scelte in libreria (parlo già al passato, perché dopo essere arrivata fino all'ultima pagina di questo emozionantissimo esordio di Alessandro D'Avenia e dopo essermi dovuta convincere di aver commesso un imperdonabile errore di valutazione, basandomi solo sulle apparenze) in cui ho accuratamente evitato tutte le storie da 'lacrime in tasca', ma... Bianca come il latte e rossa come il sangue ha rappresentato in questi pochi giorni di lettura (anche il fatto di averlo divorato è stato bellissimo. Perché, ancora fortemente scettica sul fatto che potesse sposarsi bene con i miei gusti, al momento dell'acquisto ho seriamente temuto di doverlo lasciare a metà per incapacità nel proseguire) tutto ciò di cui... HO bisogno. 
Un inno alla vita. Un inno all'amore. Un inno all'amicizia e a tutte quelle emozioni (bello o meno, facili da vivere o meno) che ci permettono di capire che stiamo vivendo e che - pure se solo di passaggio - durante questo nostro passaggio non solo abbiamo il diritto, ma prima di tutto abbiamo il dovere di fare in modo che ne valga la pena. Ci sono frasi del libro che mi hanno segnata più di altre e che, più di altre, mi hanno permesso di fissarmi per un po' sulle parole, senza andare oltre e rimanendo a riflettere. E' bello (almeno, lo è per me che sento di non essere proprio del tutto al top in questo periodo!) quando è un libro a ricordarti ciò che fino ad un attimo prima sapevi e che, solo per paura e per sconfitta, hai riposto nel dimenticatoio.

Ecco la risposta. Incenerire i sogni. Bruciare i sogni è il segreto per abbattere definitivamente i propri nemici, perché non trovino più la forza di rialzarsi e ricominciare. 

Il mio Post-it mentale: ricordarsi di non abbandonare i sogni... quello della scrittura non se ne è mai andato, ma ho la fortuna di poter dire che non è l'unico. Anche se non ho la possibilità di confermare d'aver coltivato questi altri con la stessa perseveranza con cui mi ritrovo spesso a tu per tu (e spesso in lotta) con le parole... ci sono sogni, tra quelli che sento nel cuore, con cui lottare è difficile e per cui temo sempre più vicina una fine inesorabile, nella maniera in cui non avrei voluto che andassero. 

Primo problema: la carta senza righe. La scrivo al computer. Ma appena comincio lascio perdere perché è bianca come il ghiaccio, fredda. Allora riprendo il foglio e mi rimetto a scrivere...

Leo, il protagonista, ha il coraggio non solo di essere un sedicenne spensierato e con la vita tipica di un sedicenne. Ma, ha anche il coraggio di credere al proprio cuore, di credere che ciò che ci sta dentro è importante e di credere che... per ciò che è importante si lotta e si arriva fino in fondo, senza ma e senza sé. E si lotta scegliendo mezzi 'caldi'.

Il mio Post-it mentale: non aspettarmi che siano gli altri a muoversi per conto mio o per venirmi incontro. Pure con la consapevolezza di compiere passi che alcuni potrebbero non capire, farlo perché è importante. Non smettere di lottare... un giorno, più o meno lontano, ne sarà valsa la pena. 

...questo è il senso di una vita ben spesa: qualcuno che ti ama anche quando stai male. Qualcuno che sopporta il tuo odore. Solo chi ama il tuo odore ti ama davvero. Ti dà la forza, ti dà la serenità. E mi sembra un bel modo di mettere una diga ai dolori che capitano nella vita. Me lo devo ricordare questo. Me lo devo ricordare, perché è da mettere nel mio sogno...

Il mio Post-it mentale: niente da obiettare. Niente da aggiungere. E' anche il mio sogno...

Solo chi fa domande sui dettagli ha provato a sentire come sente il tuo cuore. 

Verissimo. Il più delle volte la natura di un rapporto (e l'importanza o meno di questo) si manifesta con l'interesse per ciò che si vive. Uno scambio reciproco di domande, alla base di un modo per poter vedere il mondo insieme, per poterlo capire insieme e per poterlo meglio digerire... insieme a qualcuno!

"Perché quando c'è di mezzo l'amore le persone a volte si comportano in modo stupido. Magari sbagliano strada, ma comunque ci stanno provando... Ti devi preoccupare quando chi ti ama non ti ferisce più, perché vuol dire che ha smesso di provarci o che tu hai smesso di tenerci..."

Il mio Post-it mentale: credo sia la visione più giusta dell'amore. Ma, chissà perché in moltissimi sono propensi a credere a principi azzurri e principesse, a fate turchine che rendono magiche serate altrimenti anonime, ai 'vissero per sempre felici e contenti', a tutto ciò che è solo ed unicamente 'rose e fiori', mentre non ci si ricorda mai che: non c'è rosa senza spine e che... anche tutto ciò che viene dopo una tempesta, se si ha il coraggio di attraversarla, può essere bellissimo. Ergo... ho una paura tremendissima di imbattermi in qualcuno che non sappia vedere quanto solo giornate fatte sia di bello che di brutto siano vere... e la paura ancora più tremenda è che solo dopo troppo tempo io mi accorga di avere a fianco qualcuno di 'questo tipo'.

E la vita è l'unica cosa che non s'inganna, se tu, cuore, hai il coraggio di accettarla...

Non ho altro da aggiungere. Ora... spero che il film (motivo per cui, alla fine, mi sono decisa ad un tu per tu con il libro) confermi le aspettative... e mi sa che sarà bene avere una scorta di fazzoletti in tasca. Per chi non avesse ancora letto il libro... lo consiglio tantissimo! Per tutti gli altri... buona lettura, sempre!!!

sabato 8 gennaio 2011

Dilemmi...

Non tutte le giornate sono come vorrei e - questa - decisamente... non lo è!
Non che sia successo chissà cosa, per carità.
Tendenzialmente, specie da quando il lavoro è finalmente entrato a far parte della mia vita, il Sabato è un giorno che adoro... perché è il momento in cui mi è concesso di staccare un po' la spina.
Certo è, però... che rimane comunque difficile staccare la spina dai propri pensieri... specie da quelli non troppo piacevoli.
Insomma...
Continuando a parlare di nuovo anno, di speranze e di desideri... credo che ci sia una cosa da dover assolutamente confessare... una volontà fortissima, più forte di qualsiasi altra...
Lo scrivo di getto, così - una volta detto - non ci penso più.
Vorrei smettere di soffrire per Amore!
Già...
Chi l'avrebbe mai detto? Io... NO! Di sicuro.
Se solo un anno fa qualcuno mi avesse guardato negli occhi e mi avesse confessato che di lì a poche settimane la mia vita sentimentale sarebbe stata stravolta, lo assicuro che... non c'avrei creduto.
Come, del resto, non avrei mai creduto possibile che L'Amore... qualcosa di tanto invisibile e spesso effimero, potesse essere tanto potente, indissolubile e fare tanto male... quando non c'è.
Anche in questo caso - perdonate lo sfogo (un tentativo di lasciarmi l'intera questione alle spalle...) - potrei dire di dover ringraziare il mio abituale modo di fare... l'essere tendenzialmente ottimista, nonostante tutto.
Così... diversi sono stati i pensieri che, nella mente e con il passare del tempo, mi hanno tenuto compagnia.
Partendo dalla speranza che tutto potesse aggiustarsi, passando per il ragionare sul fatto che esistono di sicuro cose peggiori nella vita per cui disperarsi fino alla follia, arrivando - poi - a capire che... tutto accade per una ragione.
Ora... Non ho intenzione di snocciolare situazioni ed avvenimenti, violerei la mia privacy e quella della persona che per anni mi è rimasta accanto e che ora - lo scrivo con un sorriso a fior di labbra - mi è comunque cara ed amica; in un certo qual modo.
No... quello che voglio dire è che... Sì! Sarà di sicuro capitato anche a Voi, di trovarvi di fronte a qualcosa di inaspettato e di sentire dentro che... non si può lottare contro certe cose. Sarebbe un pò come farlo contro i mulini a vento...
Così... per giorni e giorni la mia tranquillità è andata avanti, sulla base del fatto che non sono di certo l'unica ad aver vissuto una simile esperienza e - poco, ma sicuro - non sarò neppure l'ultima.
Perciò... Perché, farne un dramma? Si vede che il corso delle cose doveva semplicemente essere questo.

Hmmm!

Da dove nascono i dilemmi, allora? direte Voi...
Dal fatto che, ragionandola solo ed esclusivamente con il Cuore, continuo a vederla diversamente.
Tutto, ogni santo giorno, mi ricorda la vita che "ho perso", tutto mi rammenta la persona che avevo accanto... tutto, mi fa arrabbiare per il futuro che avevo immaginato e che non potrò più avere.
Se dicessi che persino la pubblicità celebrativa dei 150 anni dall'Unità di Italia mi fa riflettere, a riguardo, probabilmente rischierei di essere presa per pazza.
Eppure...
La storia di una Nazione è basata su fatti e ricordi, così come la vita di ogni singolo individuo.
Perciò... nella mia individualità, confesso che molto spesso vorrei perdere una parte della memoria. In questo modo, converrete con me, sarebbe tutto un pò più facile, no?!?
Non solo...
Provate ad immaginare persone che vi conoscono (non tutte, per fortuna) che - nonostante il passare dei mesi - continuano a guardarvi come se una sorta di "lettera scarlatta" fosse appuntata sopra il vostro petto... rimanere la ragazza ferita e sofferente, che probabilmente faticherà - d'ora in avanti - a credere nell'Amore e nella sua forza... Non mi piace. Non c'è un altro modo per dirlo... non mi piace, affatto.
E ieri sera - proprio di fronte ad una situazione del genere - sono questi gli esatti pensieri che mi sono balzati alla mente.
Se esiste anche solo lontanamente il pericolo - ed io so che potrebbe esserci - che una delusione amorosa possa dissuadermi dal provare di nuovo la bellezza, la profondità e la forza dell'Amore, allora... Allora, io vorrei perdere una parte della memoria.
Potendo chiedere molto, vorrei poter conservare solo i momenti belli e speciali e dimenticare tutto, riguardo al perché ed al per come, della fine di una storia!
Lo so... Lo so... Lo so... atteggiamento insensato ed egoista, il mio.
Ma...
Fatico ancora a "dirmi" che, in fondo, anche questo mio desiderio - di conservare nel Cuore solo quanto di più bello c'è stato - non dipende che da me.
Penso che infinità di rapporti umani sarebbero evoluti diversamente, se solo l'uomo fosse stato e sia tutt'ora più capace di tenere a bada (e a freno!) il male...
Poco ma sicuro, per quel poco che potrò... ci lavorerò... viaggiando verso il desiderio di un nuovo Amore e percorrendo una strada il meno possibile ostruita da paure.
Credo sia tutto...
Se fino ad ora - in questi mondi virtuali - avevo tenuto ben alla larga la tristezza e la confusione di questi mesi, per paura di accentuare il mio dolore, di giudizi e di fraintendimenti... Adesso, posso dire che parlarne qui mi ha aiutata.
Ho scritto come fossi stata di fronte ad una pagina di diario, perciò... forse è il caso che io mi scusi - prima di salutarvi - per lo "sfogo".
Non me ne vogliate...
A tutti auguro un tranquillo fine settimana ed una serena Domenica!
A presto.