domenica 26 luglio 2015

In quel luogo in cui spero di tornare

Quei momenti in cui ti rendi conto di quanto una giornata, ogni singolo momento di essa a dire il vero, possa somigliare a una medaglia. Quando tutto appare tranquillo, a tratti scontato, a tratti noioso, a tratti insopportabile, a tratti… poi, ecco arrivare la bellezza all’improvviso. Quell’altra faccia che stupisce sempre. E lascia a bocca aperta. E coglie impreparati. E fa muovere il cuore con un ritmo più veloce. È meraviglioso rendersi conto di non essere insensibili, al punto tale da non percepire il cambiamento. È stupendo sentire crescere dentro un sincero senso di ringraziamento. Per esserci. Per osservare, anche se in un aspetto mutato, quello che altri hanno creato e custodito tempi addietro.  Lo stupore che riempie gli occhi, dietro al luccichio di lacrime di pura emozione. Gocce salate che non scendono ad accarezzare le guance, ferme, in bilico sull’orlo delle ciglia. È così che amo vivere il tempo. Con fotografie scattate con il semplice sbattere delle palpebre. Con pagine di diario scritte, sopra ai fogli di carta dell’anima. Quelli che alle volte si stropicciano un po’, per ciò che non va. Ma che sanno tornare lisci e accoglienti, ogni volta che c’è da rendere indelebile un attimo di pura felicità. Quella che arriva con le cose semplici è sempre la migliore ed è l’unica in grado di rendere di nuovo splendente anche il secondo più nero; l’unica per cui valga la pena correre fino a perdere il fiato; fare le capriole; buttarsi a capofitto nelle cose; nelle esperienze e nelle situazioni. Quella che, per davvero, esiste… se solo si ha la volontà di non smettere mai di sentirla. Insieme alla voglia di andare sempre avanti, insieme a pensieri assurdi, irrazionali e stupendi allo stesso tempo. Insieme a ragionamenti più o meno sensati, durante un tragitto fatto di passi più o meno incerti. Giocare a nascondino con la vita in ogni singolo secondo. Perché è proprio quando meno te lo aspetti che riesci a fare tana a qualcosa di straordinario. Oggi è andata più o meno così. Dopo una lunga serie di secondi tutti uguali, all’improvviso mi sono ritrovata altrove. In un luogo sentito nominare tantissime volte, ma mai visto prima. Insieme al ricordo di chi non c’è più e che non ho potuto conoscere di persona. Insieme a un pizzico di amarezza, ma anche alla giusta dose di spensieratezza. Con le lancette dell’orologio per nulla a favore, ma del tutto ignorate. Con il sole prossimo a dare la buona notte e con la fretta di dover rincasare; anche quella un urlo in mezzo ai pensieri da non ascoltare. Ero lì. In quel luogo in cui spero di tornare. E tornare. E tornare. E tornare. Alla prossima, allora.

domenica 19 luglio 2015

Questioni di... destino!

C'è ancora qualcosa in valigia. Sono rimasti i jeans dentro. Un paio di scarpe chiuso in una busta, tre t-shirt nuove e mai indossate e il libro che ha saputo tenermi compagnia per quelle poche sere che sono rimasta ‘lontana da casa’. Non ricordo chi l’ha detto, ma è vero che ovunque ci sia un libro non ci si sente mai soli. Non che la solitudine sia stata un problema da dover affrontare. Inaspettatamente le giornate sono state talmente piene, da lasciarmi a stento il tempo di tuffarmi tra le righe di qualche pagina. Su un totale di duecentosessantadue, trovo il segnalibro fermo tra la centocinquantesiama e la centocinquantunesima. Con le quattro frecce, come fosse una macchina indecisa a un bivio.
Avrei preferito non dimenticarmi di quella lettura in corso. Almeno per una volta, avrei voluto ricordare di dover finire quanto cominciato e non lasciare spazio a qualcosa di nuovo.
Invece un altro libro è già aperto sopra il comodino (insieme ad altri, diciamo la verità!) e per quello in valigia… nessun progresso apprezzabile.
C’è di buono che ha ancora il sapore di quella piccola, speciale, vacanza-corso.
Mi riporta in quella stanza d’albergo, grandissima per una sola persona. Sopra quel letto che, sin dal primo momento, anche se a vederlo sembra comodissimo, mi ha fatto temere di non riuscire a chiudere occhio la notte. Perché sono un’abitudinaria; purtroppo. E se c’è una cosa che mal sopporto è dormire in un letto che non sia il mio. Fortuna che la stanchezza della sera e proprio le buone pagine di quel libro hanno saputo dare una mano in tal senso.
Adesso avrei il tempo per mettermi a leggere e per smaltire un po’ di quell’arretrato dimenticato. I miei occhi, però, continuano a fissare quel bivio di carta e, nell’indecisione tra appiccicarmi con lo sguardo sulle prime parole della centocinquantesima pagina o lasciare perdere, mi ritrovo a giocherellare con il segnalibro.
Buffo. Per quanto ami un accessorio del genere, mai una volta che ne ritrovi uno classico tra le pagine. Spesso mi capita di strappare pezzi di carta dall’agenda che tengo sempre a portata di mano sul comodino. Se il libro non è di dimensioni troppo importanti, mi limito a usare i ‘risvolti’ della copertina. Non di rado, poi, accade di rendere utili allo scopo le comuni ‘fascette’ che comunicano di avere stretto tra le mani chissà quale bestseller del momento.
In quella camera d’albergo, lontana da tutte le mie abitudini di lettrice confusionaria, non avendo nulla di familiare a disposizione e tenendo proprio per ultima l’ipotesi di dover sottrarre dal bagno uno strappo di carta igienica (davvero poco elegante come segnalibro, ma… a mali estremi… fosse servito, non avrei esitato)… dopo un rapido sguardo in giro per la stanza, mi sono ricordata dei post-it lasciati a disposizione accanto al telecomando della televisione che, dopo un rapidissimo zapping, ho consapevolmente ignorato.
Ricordo di essermi ripromessa di sostituirlo con qualcosa di più consono allo scopo, una volta a casa. Promesse da marinaio.
Torno a pensare a quei sette giorni.
Solo un mese fa non avrei immaginato di ritrovarmi da sola in una stanza d’albergo per via di un corso da seguire. Ho rimandato talmente tanto (per motivi più o meno ovvi e più o meno accettabili, come ragioni plausibili per rinviare) che alla fine ero seriamente convinta, come lo erano in molti altri a dire il vero, che sarebbe rimasta una di quelle classiche cose per cui un giorno avrei detto: “C’ho pensato su tante volte, ma poi…”. Forse è stata la stanchezza per i troppi ‘rinvii’ che popolano le mie giornate a darmi la spinta giusta per partire. E se anche dovesse venirne fuori niente, pazienza. Mi sono divertita.
Divertente è anche il fatto che quel post-it mi riporti a un ricordo in particolare.
Il tempo di un viaggio in ascensore, dal terzo piano alla reception. Il tempo sufficiente per un sorriso.
Sono in ritardo per la cena. Tra allievi e docenti del corso abbiamo deciso di uscire insieme e, sicuro, sono già tutti fuori che mi stanno aspettando. Ho avuto un problemino con il cellulare, una mail da inviare e che non ne vuole sapere di ‘partire’. Evito di incontrarmi nello specchio perché i miei capelli sono un disastro, ma non c’è tempo per fare niente. Come se non bastasse, anche l’ascensore sembra non voler essere dalla mia parte. Non se ne parla di fare le scale a piedi, non posso farcela. Ma… com’è che entrambi sono fermi all’ottavo piano? Mi obbligo ad aspettare lì un minuto e non di più. Per mia fortuna, ripartono.
Quando quello di sinistra si ferma al mio piano, all’apertura meccanica della porta vengo accolta dal sorriso di un babbo con la sua bimba. Un ‘buonasera’ è d’obbligo, prima di piombare di nuovo nel silenzio. Sarei proprio curiosa di sapere come è andata la loro giornata a Mirabilandia e quante volte, poi, hanno deciso di affrontare le montagne russe, ma non lo chiedo. Sarebbe come ammettere che a colazione, mentre faticavo a sorseggiare un caffè all’americana per la pura smania di provare, mi sono lasciata coinvolgere dalle chiacchiere sui loro piani per la giornata. So già che andranno al parco giochi anche l’indomani.
Passiamo il secondo piano. Il primo. Finalmente siamo a terra. Le porte si aprono… “Urrà!!!”.
No! Non è il mio ‘urrà’ quello che riempie la grande hall.
“Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!”.
Il volto della bimba è arricciato di disapprovazione, mentre non può fare altro che rimanere a guardare la madre e il fratello, di poco più grande, che festeggiano.
La signora mi regala un grande sorriso: “E’ stata lei a farci vincere la scommessa. Ha chiamato l’ascensore e ci ha permesso di arrivare per primi giù”. In effetti, appena salita dal mio piano mi sono chiesta dove fossero finiti mamma e bambino, ma non avrei potuto immaginare che stessero giocando; che ci fosse una scommessa in ballo.
Mi congedo con un pollice all’insù agli esultanti (in risposta al loro)  e limitandomi a sussurrare un ‘mi dispiace’ alla piccolina che, per davvero, sembra esserci rimasta male. Spero almeno che la posta in gioco non sia stata troppo alta. Poi…
Sembrava di essere in un film.
In un film preciso, intendo, non tanto per dire.
Serendipity. Nel momento in cui lei chiede a lui di affidare il loro destino a due ascensori di un albergo della via. Se sceglieranno lo stesso piano, allora vorrà dire che è destino per loro di dover stare insieme. Altrimenti…
Una scena che, lo devo ammettere, odio con tutta me stessa. Per quanto conosca pressoché a memoria il film. Non affiderei mai una cosa del genere al caso. Non a un numero, non a una moneta lanciata in aria, non a una carta. A niente di tutto questo. Immaginate come ci si possa sentire quando, impotenti davanti al televisore, si è consapevoli del fatto che – in effetti – sia lui che lei hanno scelto lo stesso piano, ma… per la stessa ragione per cui io ho interferito nella sfida di quella famiglia, anche in Serendipity ce se ne mettono di mezzo a sufficienza perché… altrimenti non ci sarebbe stato il film!
Comincio a pensare di avere qualche cosa che non va quando, subito dopo aver allontanato dai pensieri questa prima associazione realtà-film, ecco arrivare la seconda. Meg RyanC’è posta per te. Un film che… Adoro! In una delle sue tante chat con NY152, Commessa scrive: ‘molte delle cose che vedo mi ricordano qualcosa che ho letto in un libro… ma non dovrebbe essere il contrario?’.
Appena uscita da quell’ascensore, mi sono ritrovata a farmi la stessa domanda. Sostituendo un film a un libro. Non dovrebbe essere il contrario?
Chissà…
In tutto questo marasma di parole e di ricordi, solo ora mi accorgo di non aver menzionato il titolo del libro che, grazie a un post-it tra le pagine, mi ha riportato a un piccolo istante di giorni fa…

È… Dimmi che credi al destino di Luca Bianchini (Mondadori, Maggio 2015). Dopo aver riassaporato le sensazioni di un momento, ho ripreso la lettura… sono a una cinquantina di pagine dalla fine. Mi riservo di parlarne più avanti. Ma… buffo che il titolo, che me lo ha fatto scegliere, sembri smentirmi su quanto appena affermato riguardo a Serendipity… pare che credere nel destino sia fondamentale, per continuare a conservare una certa fiducia nelle giornate future e nella vita in generale. E pare proprio che non si possa negare che… ci sono cose che è destino che accano e cose che, invece, no. Quella sera, mentre ero già snervata per il fatto di essere in ritardo per la cena, era destino che un piccolo momento in ascensore irrompesse in quel mio attimo di solitudine, per regalarmi un sorriso. A ognuno il suo. Alla prossima!