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sabato 23 gennaio 2016

Cronache di una... spedizione!

Svegliarsi presto comunque. Gli ultimi preparativi indispensabili, prima di uscire di casa per andare a spedire una busta che considero importante. “Non ne verrà fuori niente”, continuo a ripetermelo. Ma non posso fare a meno di dirmi anche che: “Non provarci porterebbe a niente di sicuro”.
Perciò scorro il testo veloce sul monitor per le ultimissime, ennesime, puntigliose correzioni. Oddio… puntigliose. Si fa per dire. Anche se di scrupolo ce ne ho messo tanto, qualcosa è sfuggito di sicuro. Scrivo il curriculum letterario che serve, compilo la scheda di iscrizione. È tutto pronto per la stampa. Mi sono svegliata con il timore di non fare in tempo a fare tutto e, anche se sono appena le dieci e trenta e l’ufficio postale non chiuderà prima di due ore, non posso fare a meno di conservare quel pizzico di ansia; che quasi mi fa scordare la busta sopra il tavolo della cucina. Vabbè, non è grave. Avrei fatto in tempo a tornare indietro a prenderla. Il dramma è che detesto contrattempi di questo tipo. Per fortuna, allora, riesco a salire in macchina con la mia busta stretta in mano.
Le concedo di sedermi accanto. Pochi minuti e ognuna se ne dovrà andare per la propria strada. Delle due, solo io rimarrò in impaziente attesa di avere sue notizie.
Quei momenti in cui il tempo di un semaforo rosso sembra sempre troppo lungo. Mi consola poco, anzi pochissimo, che il cd sia arrivato alla traccia che preferisco. Ho deciso che lo lascerò andare da solo, senza interferire minimamente nell’ordine di esecuzione, fino a che sarò riuscita a sentire almeno una volta tutte le tredici canzoni che contiene. Solo così non sarà stato un acquisto fatto invano.
Scatta il verde. Il parcheggio è poco lontano. Io e la Busta scendiamo dalla macchina con la consapevolezza di dover fare tappa alla copisteria e la convinzione, poi rivelatasi errata, di riuscire a fare presto. Apro la porta trasparente, mentre un signore sta dettando dei codici fiscali. La signora al computer mi dà l’impressione di essere alquanto preoccupata della fila di persone che sta aumentando lentamente. Lo spazio per l’attesa è quel che è. Nonostante tutto, riesce a mantenere un atteggiamento professionale e a scrivere tutto ciò che serve, fino all’ultima lettera. Io mi sento un po’ meno tranquilla. Rischio di fare tardi.
Sto già premeditando una sclerata (a trovare il coraggio, potrebbe essere una soluzione), quando, rivolta a me, dice: “In cosa posso aiutarti?”.
“Dovrei rilegare dei fogli”, appoggio sul bancone il mio plico, un po’ in imbarazzo per il fatto che tutti possano leggere di che cosa si tratta. Bè, non tutto; tutto. Il titolo, però, è in bella vista. Panico.
“Puoi ripassare tra un quarto d’ora?”.
Nodo alla gola. Che faccio… sclero, o non sclero?
Non sclero. Non solo la timidezza mi impedisce di farlo, ma mi ricordo di dover fare anche altro all’ufficio postale. Posso andare a sbrigare le mie incombenze ordinarie e tornare a prendere tutto appena avrò finito. Posso farcela. Devo farcela.
Mentre cammino in su per la via, cerco di ignorare il freddo. Ma, cavoli, quant’è pungente! Appena avrò sistemato ogni cosa, vado al bar a prendere qualcosa di caldo.
Dentro l’ufficio postale, trovo la fortuna dalla mia. Ho due persone davanti. Magari, sempre!
Con la ragazza dietro il bancone ci conosciamo. È una sorta di ‘da quanto tempo è, che non ci vediamo?’. Più sintetica delle note biografiche di un retro di copertina, le racconto i miei ultimi anni di vita, da quando ci siamo perse di vista. Giusto lo stretto indispensabile, poi torno dalla mia Busta che mi sta aspettando.
Il tragitto all’insù, anche se insieme, è sempre freddissimo. Rientro nell’ufficio postale con la speranza che nessuno mi prenda per pazza. Due volte, in meno di venti minuti.
P 18. È il numero con cui prenoto la mia spedizione. Il biglietto lo metto nel portafogli, come faccio sempre quando voglio conservare una testimonianza di qualcosa che è successo. Come se le parole dentro alla busta, rimaste anche a casa dentro il computer, non fossero più che sufficienti. Quindici minuti dopo, sono di nuovo fuori. Manca un quarto a mezzogiorno. Qualcosa al bar ci sta, perché no?
Ho la netta convinzione di vivere giornate incentrate su una parola. Quella di oggi deve essere: incontri. In realtà, più che un incontro, è una nuova conoscenza. Qualcuno che inizia a parlarmi, senza che io lo stia nemmeno guardando. Pretende la mia attenzione.
Mi capita spesso. Non spessissimo, ma ne ho di ricordi del genere. Non riesco a evitare di sorridere. Quei momenti che potrebbero diventare parole su carta, in meno di un attimo. Quindi, che faccio? Chiudo qui, per ora. Questa è di certo un’altra storia.

Alla prossima! 

sabato 14 febbraio 2015

Ti amo per sempre... su YouTube!

Di nuovo da queste parti, in un giorno speciale.
14 febbraio. San Valentino.
Felicissima, di avere una storia d'amore che gironzola tra i pensieri, nella paziente attesa di poter essere messa su carta (speriamo). Oggi... scrivo però per raccontare di altre parole, quelle che son finite in un video, grazie alla bellissima passione di un giovane narratore romano: Adriano Fedeli.
Lascio qui il link... con il testo, per chi volesse leggere, ascoltando.

Una storia d'amore intensa, particolare. Di quelle che arrivano all'improvviso nella vita. Magari, non vanno proprio come l'immaginazione avrebbe voluto, ma... continuano ad avere tutta la forza necessaria per far dire, nonostante tutto: Per Sempre!
Spero vi piaccia!


Una vecchia lettera scritta a mano. Alcune parole sbavate di nero. Lacrime, cariche di rimmel. Margherita continuava a fissarle, senza trovare il coraggio di spostare lo sguardo altrove. Certi giorni, come quello, sembravano come se tutto fosse appena successo. Tirò su con il naso, la stanza si riempì di quel rumore. Sapeva che avrebbe dovuto distruggerla. Per il suo bene, per la necessità che aveva, di ricominciare da qualche parte. Era facile pensarlo.
Sarebbe stato diverso se si fosse trattato di un sms, di un messaggio ricevuto su Facebook o di un e-mail. Quando basta un click, tutto diventa più facile. Invece, sbarazzarsi di quella lettera era difficile. Perché poteva stringerla, sfiorarla, annusarla e sentire ancora il vago odore del profumo di Luca, leggerla per l’ennesima volta e rendersi conto di conoscerla a memoria. Che strano, quando l’aveva ricevuta. Luca l’aveva lasciata in bella vista sopra il comò della camera da letto, vicino alla conchiglia bianca, ai sassi di mare e ai piccoli pezzi di legno che avevano trovato passeggiando sulla spiaggia, durante la loro ultima vacanza insieme. Erano già passati quattro anni, ma sembrava fossero trascorse appena quattro ore. Nonostante i sette anni di fidanzamento, Margherita non aveva mai visto Luca prendere una penna in mano, per mettersi a scrivere. Non un appunto su un post-it, non uno scarabocchio in agenda, non un numero di telefono segnato al volo, per non dimenticarsene. Niente. Niente di niente. Eppure…
Eppure, Luca l’aveva scritta quella lettera. La sua proposta di matrimonio speciale. “Così, quando festeggeremo le nostre nozze di diamante, la tirerai fuori dalla nostra valigia dei ricordi e ne rideremo insieme, bevendo champagne”. Le aveva detto la sera a cena, davanti a un piatto di tagliatelle al tartufo, che lentamente stava raffreddando.
“Pensi veramente che riusciremo a organizzare un matrimonio sulla spiaggia? E se poi dovessimo scontrarci con raffiche di vento assurde, o con una pioggia inaspettata? È risaputo che, proprio quando tutto deve filare liscio ed essere perfetto, qualcosa va a finire storto. Non vorrei che tua madre, o mia madre, poi…”.
Il sorriso radioso di Luca riuscì, almeno in quel momento, a mettere un freno ai pensieri di Margherita e alla sua fervida fantasia; sempre pronta a vedere disastri ovunque.
Le sarebbe servito adesso uno di quei bei sorrisi. Non aveva conservato foto di Luca in bella vista, ma di quella lettera non riusciva proprio a farne a meno. Luca l’avrebbe veramente sposata e veramente sarebbero potuti arrivare a festeggiare i 75 anni di matrimonio, se solo fosse filato tutto liscio.
Ma, la vita è così. Un attimo pensi di avere tutto il tempo del mondo per un sacco di progetti, l’attimo dopo ti ritrovi sotto terra, con indosso il tuo abito migliore; quello che avresti dovuto sfoggiare davanti a tutti e dinanzi all’altare.
“Non è giusto”. Stavolta, le parole riempirono la stanza. Margherita si ritrovò a pensare a quanti divorziati conosceva. Mentre a lei non era stata data nemmeno l’opportunità di provare. Avrebbe preferito essere una di loro. Piuttosto che ritrovarsi vedova prima ancora di avere la fede al dito. Gli occhi castani continuavano a vagare tra macchie di trucco e l’elegante grafia di Luca. Ti amo, per sempre. Aveva chiuso in quel modo, quelle righe. Anche lei, ne era certa, l’avrebbe amato per sempre. Può esistere un amore tra due mondi, tra paradiso e terra. Il cuore non conosce distanze. Nessun sentimento, quando è vero, si lascia spegnere dagli ostacoli. Margherita richiuse la lettera, tornò al comodino per sfiorare con le dita la conchiglia. Magari, se l’avesse accostata all’orecchio, almeno per una volta non avrebbe sentito la voce del mare, ma la dichiarazione di amore eterno del suo Luca. Ci provò. Non sentì niente, ma non pianse. Era la lettera. La lettera era la sua dichiarazione di amore eterno. Una ragione più che valida per non distruggerla mai.

venerdì 30 maggio 2014

C come Cuore, Coraggio e Caffè!

Alle volte capita di imbattersi in un bando di concorso e... di voler partecipare. Non sempre si ottengono risultati (e successive, conseguenti... piccole, grandi soddisfazioni), ma... poco importa! :-D E' bello sentire di volersi mettere alla prova ed è speciale il momento in cui si è arrivati all'ultimo punto e si è pronti per rileggere quanto scritto. Quest'anno... spero di riuscire a partecipare di nuovo. 
Il Concorso è indetto dal Caffè Letterario Moak e ha come particolarità quella di richiedere l'invio di testi che abbiano come tema: il caffè! 


Ci piace, ci piace, ci piace!!! E' una sfida a cui mi preparo di nuovo con emozione (e caos di pensieri e parole).
Perciò... pure in attesa di finire l'ormai interminabile (prima o poi mi impegno, promesso!) racconto a puntate... lascio lo spazio di questo nuovo Post al racconto con cui ho partecipato al concorso lo scorso anno... non l'ho ancora riletto, ma... spero di trovarlo ancora nelle mie corde! E... spero che piaccia anche a voi, ovvio!!! Un abbraccio, a presto! 
Saluti

«Ok. È il giorno giusto. Stamattina mi faccio coraggio e glielo dico».
Sto di nuovo parlando da solo, anche se cerco di non farci caso. Non è normale. Non è un buon segno. Ultimamente è qualcosa che mi capita di fare spesso, ma non riesco proprio a farci niente.
L’amore rincoglionisce. Gli amici mi avevano avvisato e io non c’ho voluto credere.
Ventinove anni e nessuna esperienza seria con il cuore. Quando ho sentito la freccia di Cupido trafiggermi in pieno petto, non solo ho stentato a credere che potesse essermi capitato, ma ne sono stato contento.
I primi giorni di innamoramento sono stati meravigliosi. Con i piedi non toccavo mai terra e la testa era costantemente altrove. Per usare un luogo comune, direi che ero tra le nuvole. Anche se credo che essere innamorati sia ancora più bello che starsene avvolti da una coltre bianca che, anche se morbida, deve essere fredda e umidiccia. Pure la questione delle farfalle nello stomaco… che vuol dire, sentire le farfalle nello stomaco? Vorrei conoscerlo l’individuo in grado di testimoniare di aver effettivamente provato la sensazione di un gruppo di esserini svolazzanti nello stomaco. Io, le uniche farfalle che mi sono ritrovato ad avere dentro sono quelle che la mamma mi prepara per cena ogni mercoledì sera, abbondantemente coperte di sugo con le salsicce e di parmigiano grattugiato. È il mio piatto preferito, quello che da bambino mi faceva spalancare la bocca ancora prima che la forchetta carica fosse vicino.
Abbandono la tentazione di uno sbadiglio e come ogni mattina, da non so quanto tempo, ormai, mi fisso per qualche secondo sul calendario appeso alla parete. È maggio, ma per uno strano scherzo meteorologico sembra di essere ancora a dicembre.
Lunedì 27 maggio. Sì, è il giorno giusto. Oggi mi faccio coraggio e glielo dico.
Continuo a cullare il pensiero, mentre come un razzo filo in bagno per le necessità di ogni mattina e mi sbrigo a vestirmi per scendere in cucina per la colazione. Se non accelero il ritmo, va a finire che arriverò in ritardo e mi toccherà beccarmi un richiamo. Non che io abbia mai avuto problemi con la sveglia di mattina presto o con il gestire i tempi in generale. Ma, da quando sono innamorato è tutto diverso. Ogni minuto sembra avere infinite possibilità di sviluppo. Invece, non è altro che una sequenza veloce di sessanta secondi; che passano più in fretta di quanto ci si metta a contarli a mente.
Controllo di avere il cellulare in tasca, afferro le chiavi della macchina, prendo la giacca (perché è maggio, ma fa freddo come fosse dicembre) ed esco.
L’indicatore della benzina è basso. Sarebbe meglio fermarsi al distributore, ma non ho il tempo nemmeno per quello. Speriamo che la lucina rossa continui a rimanere intermittente e che la mia vecchia Ford non decida di abbandonarmi proprio oggi.
Lunedì 27 maggio. È il giorno giusto. Oggi mi faccio coraggio e glielo dico.
Continuo a ripetermelo come un mantra. Anche se ho la sensazione che, più che regalarmi coraggio e spirito di iniziativa, ogni volta che ci butto il pensiero mi sento un pizzico meno convinto di prima.
C’è da dire che non è la prima volta che ci provo. Era veramente dicembre quando, per la primissima volta da che mi sono accorto di essere innamorato, ho deciso di prendere il toro per le corna e di dichiararmi.
Ero convinto che sarei riuscito a sfruttare l’occasione degli auguri di Natale per avvicinarmi a lei, per guardarla in quegli occhi scuri e pieni di vitalità che mi fanno impazzire, per sentirmi morire alla prima volta in cui l’avrei vista mordersi il labbro inferiore, come fa sempre quando è colta alla sprovvista da qualcosa o da qualcuno, e per invitarla ad uscire insieme un pomeriggio dei successivi; per una passeggiata tranquilla lungo le vie illuminate a festa.
Sono rimasto convinto fino all’ultimo giorno di lavoro, pensando che il fatto di non poterla rivedere per due settimane mi avrebbe spronato a darmi una mossa e mi avrebbe permesso di lasciare in un angolo quella parte di me codarda che preferirebbe morire, piuttosto che rendersi ridicola. Ma, quando sono arrivato in azienda quella mattina, la sua macchina non c’era. Sono entrato in fabbrica a testa bassa e fino all’ultimo ho sperato che potesse essere arrivata insieme a qualche collega, ma niente da fare. Quando ho oltrepassato il suo reparto per raggiungere il mio, il vuoto del suo posto mi è sembrato enorme, paragonato all’intera stanza. Stupido, Stefano.
Da quel giorno di dicembre sono dovuti passare altri cinque mesi, per trovare di nuovo il coraggio di provare a parlarle. Bugia. Mi ci sono voluti altri cinque mesi e le parole scioccanti del mio amico Matteo: «Non vorrai mica aspettare di vederla al settimo cielo, perché qualcun altro le ha chiesto di uscire?». Aggiungo queste parole al mio mantra ufficiale.
Lunedì 27 maggio. È il giorno giusto. Oggi mi faccio coraggio e glielo dico. Non voglio aspettare di vederla al settimo cielo, perché qualcun altro le ha chiesto di uscire.
Raggiungo il parcheggio. La sua macchina c’è. La fortuna, oggi, sembra essere un po’ più dalla mia parte.
Anche se ha cominciato a piovere, ignoro l’ombrello appoggiato sopra il sedile del passeggero e indosso il solito berretto con visiera. Giallo, con un inconfondibile 46 in bella vista.
«Buongiorno, Maurizio! Anche stamattina qui, è? Ma quand’è che ti decidi a vincerlo sto milione e a lasciare il posto a qualche giovanotto di bella presenza, in cerca di lavoro?».
Seduto all’ingresso dell’azienda davanti il computer, Maurizio sorride divertito.
Ogni giorno è la stessa storia. È da due anni che ci conosciamo ed è da due anni che lo sfotto per la sua mania per i “Gratta e Vinci” e per il suo essere convinto del fatto che prima o poi riuscirà a trovare il biglietto da un milione di Euro e a dare una svolta alla sua vita.
«Buongiorno anche a te, Stefano! No, dico… occhio, con lo zucchero nel caffè! Non vorrei che ti rendesse troppo dolce e amabile. Poi… che sarebbe ‘sta storia del giovanotto di bella presenza?!? Perché… ti sembro vecchio e brutto io? Per tua informazione, mio caro, ho festeggiato da poco i cinquanta, ho ancora tutti i capelli in testa – cosa che non si può dire della maggior parte dei cinquantenni in circolazione – sono magro come un’acciuga e quando passo giù ‘l Corso con la sigaretta accesa in bocca gli occhi delle donne fanno a gara a chi mi ha visto per primo. Te capì?».
Maurizio accompagna quelle ultime due parole con il tipico gesto della mano vicino all’orecchio ed io non posso fare a meno di scoppiare a ridere. Gli passo il cartellino perché registri la mia entrata, aspetto che mi dica se c’è qualche comunicazione per me e faccio per allontanarmi in direzione degli spogliatoi.
Sono ad un passo dalla porta, quando lo sento rivolgermi di nuovo la parola e chiedermi: «Ma, te invece… com’è che sembri un fantasma con le occhiaie?».
Rispondo prima con un’alzata di spalle, poi: «Mah! Avrò dormito male per via degli spaghetti al peperoncino di ieri sera. Alla mamma ho detto di non esagerare con il piccante, ma quando decide che una cosa fa bene alla salute non c’è verso di farle capire che per tutto c’è una misura. Da quando il dottore le ha detto di sostituire il pepe con il peperoncino, a casa servirebbe di installare un idrante dei pompieri».
Faccio per muovermi, nel tentativo di sparire dentro agli spogliatoi, ma la voce di Maurizio mi blocca ancora: «Sarà. A me sembri più uno che sta patendo le pene dell’inferno per amore, altro che peperoncino!».
Ecco. Un’altra cosa su cui gli amici mi avevano messo in guardia, era di stare attenti a non far capire a chiunque di essere innamorato e di evitare ad ogni costo di diventare l’oggetto di scherzi e di prese in giro. Ma, Maurizio è una volpe per certe cose. Mi ha sgamato al secondo giorno. Beccato a guardarla mentre faceva colazione insieme alle altre, come fossi stato un ragazzino delle medie alle prime armi. Non è servito che dicessi niente. Si è accostato a me con il suo solito modo di fare discreto, ha strizzato l’occhio e ha detto: «Bella, è?». Non sono riuscito ad evitare di annuire a bocca aperta, prima di riuscire a distogliere lo sguardo ed evitare per un pelo che anche lei lo sapesse.
Il rumore delle levigatrici è tutto ciò che incontro lungo il corridoio. Sono in ritardo di qualche minuto sull’orario. Anche se cerco di raggiungere in fretta la mia postazione, mi becco un’occhiataccia dal caporeparto. A differenza di altri colleghi, a me non capita mai di essere in ritardo. Sarà per questo che comunque non mi dice niente.
Mi sbrigo ad indossare i guanti, la mascherina e i tappi per le orecchie, prima di prendere posto e di concentrarmi sul primo pezzo da rifinire.
Non posso dire di amare alla follia il mio lavoro, ma in tempi di crisi come quelli che corrono sono fortunato ad averne uno. Poi… una fabbrica di manufatti in vetroresina è sempre meglio del ristorante di mio zio Gino, dove sarei stato costretto a sopportare una paga misera, degli orari incasinati e le urla di mia zia Franca che dalla cucina è in grado di raggiungere l’ingresso del locale, con la sola forza della voce. No. Un lavoro separato dai legami di parentela e che mi garantisce la giusta quantità di indipendenza è quello che fa per me. Poi, non escludo un futuro altrove. Ma, al momento l’unico posto in cui vorrei essere è quello dove attualmente sto. Quello dove c’è anche lei. Quello dove oggi, sì, mi deciderò a parlarle e a dirle che mi piace.
«Ma, si può sapere che hai combinato? Sulla faccia sembri un puzzle riuscito male».
Andrea. Anche lui conosciuto grazie al lavoro. Anche lui, mai che si facesse gli affari suoi.
«Niente. Ma… poi, si può sapere perché stamattina avete deciso di prendervela con la mia faccia? Per Maurizio sono un fantasma, per te un puzzle riuscito male… ho paura di andare in bagno e di guardarmi allo specchio. Poi, proprio oggi che ho bisogno di sentirmi in forma e su con il morale…». Lascio cadere quelle ultime parole nel discorso, senza sentire il bisogno effettivo di una controbattuta. Ma, Andrea proprio non resiste: «Perché… che santo è oggi?». Gli occhi carichi di aspettativa e le mani sulla mola che per un po’ smettono di andare. «Niente. Dicevo così, tanto per dire. Continua a lavorare». Ok. Forse ho esagerato e Andrea non manca di farmelo notare: «Primo: tu non hai ancora cominciato con i tuoi pezzi e sei pure arrivato in ritardo. Secondo: non mi pare che ti abbiano nominato caporeparto o controllore della produzione, quindi… fatti gli affari tuoi». Non posso dire di conoscerlo benissimo, ma…  per quel poco che so di lui, so che se non mi sbrigo a correre ai ripari finisce che rimaniamo litigati per il resto della giornata. E sai che rottura, quando non puoi nemmeno scambiarti una battuta.
«Scusami, non volevo aggredirti. È che sono nervoso, perché ho deciso che oggi è il giorno buono per parlare con Lucia». Il suono del suo nome ha sul cuore la forza di un cazzotto. Sento le gambe tremare, come fossi in bilico sul bordo di un terrazzo, e ci manca poco che mi si annebbi anche la vista per l’emozione. Quando penso a lei non la penso mai con il nome. Per me lei è Lei. Lei è il centro di ogni pensiero. Lei è l’apice di ogni emozione. Lei è la ragione di ogni scelta.
Sono in un negozio in cerca di una camicia, per il battesimo del figlio di un amico? Anche se so che Lucia non avrebbe comunque modo di vedermi con la camicia indosso, ad ogni confronto con lo specchio del camerino mi chiedo: piacerebbe a Lucia? Al ristorante? Non c’è piatto sul menù sul quale non mi interroghi. Vorrei sapere se preferirebbe un primo piatto a una pizza e se, in fatto di pizze, abbia delle preferenze imprescindibili o meno. Mia cugina Valeria, per esempio, è da anni che ogni volta che si ritrova in pizzeria con gli amici ordina la solita pizza bianca con poca mozzarella e radicchio rosso. Io sono più il tipo da wurstel e salsiccia, ma alle volte non mi dispiace anche una capricciosa. In fatto di dolci… quali sarebbero i suoi gusti?
«Hai capito! Il nostro Stefano è coraggioso. L’avevo detto io, che prima o poi ci saresti arrivato. Vorrai mica aspettare…».
«Sì, sì! Non voglio aspettare di vederla al settimo cielo, perché qualcun altro le ha chiesto di uscire. Me l’avrai ripetuto almeno un centinaio di volte. La lezione è servita, se questo può giovare alla tua autostima. Ti ringrazio tantissimo per avermi spronato a fidarmi del cuore. Perché non ho niente da perdere, anzi. Se mi va bene, ci guadagno l’affetto di una ragazza speciale». Chiudo il discorso con una pacca sulla spalla di Andrea. Lui mi sorride. «Hai tutto il mio appoggio. Ma... come penseresti di fare, si può sapere?».
«Conto di offrirle un caffè a colazione. Che ne dici? Un approccio sufficientemente informale, ma utile allo scopo». Non aggiungo altro. Andrea mi sorride di nuovo, mi strizza l’occhio, poi ci mettiamo entrambi al lavoro.
Di solito, il lunedì mattina è un dramma. Nonostante sia il primo giorno della settimana e nonostante il riposo precedente del sabato e della domenica, mi sento sempre uno straccio. Fatico a far passare il tempo e, anzi, ogni volta che alzo gli occhi in direzione dell’orologio appeso alla parete mi sembra come se le lancette, invece di progredire, regrediscano.
Non è la stessa cosa per questo lunedì.
27 maggio. Sì, è il giorno giusto. Oggi mi faccio coraggio e glielo dico.
Oggi che vorrei davvero che il tempo scorresse al rallentatore, il suono della campanella che annuncia la pausa per la colazione mi coglie talmente tanto alla sprovvista da farmi sobbalzare. La levigatrice mi sfugge di mano e finisce per terra. «Merda! Sono già le dieci. Come possono essere già le dieci?». Il reparto si svuota in un batter d’occhi. Io provo a muovere i piedi verso la stanza delle macchinette nella maniera più naturale possibile. Ma, sembro ingessato e tutto mi sento fuorché spontaneo. «Adesso… che cosa le dico? Non ho pensato un discorso. Potrei non trovare le parole per…».
«Stefano, tutto ok?». È Angelica, una delle colleghe di reparto di Lucia. Rispondo di sì con un semplice cenno della testa, ma non devo risultare molto convincente. « È che mi è sembrato tu stessi parlando da solo». Sorrido, come a voler sottolineare l’assurdità della cosa. Ma, negare l’evidenza è uno sport in cui non sono mai stato troppo portato.
«Come mai stamattina gli altri ti hanno battuto sul tempo? Vuoi provare il brivido di essere l’ultimo, almeno per una volta?». «Già». Non posso certo confessarle che essere ultimo, oggi, ha i suoi vantaggi. Non posso confessare che sono mesi che studio gli orari della pausa di Lucia e che mi sono accorto della sua tendenza a lasciare che la situazione alle macchinette sfolli un po’, prima di farsi avanti per il suo quotidiano caffè macchiato al cioccolato. Primo: perché rischierei di fare la figura del folle, o – quantomeno – dell’aspirante tale. Secondo: perché non è ancora detto che io riesca a parlarle. Ora come ora, con l’incombenza del momento, sento che potrei non farcela a mantenere il coraggio con cui mi sono svegliato ed affrontarla.
Provo a muovere di nuovo i piedi, ma ho come la sensazione che tra la suola delle scarpe e la superficie del pavimento si sia insediata una valanga di colla a presa rapida.
Fatico, come se avessi delle cavigliere da cinque chili per gamba. Mi sento rallentato e privo di forze, come dopo una corsa di dieci chilometri. Mannaggia a me! Facevo meglio a bloccare i pensieri sul nascere, invece di convincermi che tutto è possibile e che basta volerlo.
«Allora! Te la dai una mossa, o conti di aspettare qui la pensione?». Andrea è tornato indietro a cercarmi. «Io il caffè l’ho già preso, tu che fai… decidi per il solito, oppure?». Sarei per l’oppure.
«Penso che proverò quello con il cioccolato. Ma, tu non badare a me. Io aspetto di poter parlare con Lucia». La reazione è automatica: nome, uguale brividi. Brividi, uguale indecisione pressante. Io tremo come una foglia per la paura e lui se la ride sotto i baffi.
Ci parlo, o non ci parlo? È il peggior dubbio amletico che mi sia mai capitato di avere.
Ci parlo. Sì… oggi è il giorno giusto. Ci parlo.
Decido giusto un attimo prima di affacciarmi sulla porta della stanza delle macchinette, anticipando Lucia per un soffio. Così… prima passo da maleducato perché non le cedo il passo, poi sembro il classico tipo che vuole riabilitarsi da una gaffe offrendo un caffè.
«Prendi quello macchiato al cioccolato, giusto?». Non le chiedo se posso offrirglielo, glielo offro e basta. Lei, forse un po’ intimorita, annuisce e basta. Alla domanda sulla quantità di zucchero la sento rispondere: «Tre pallini va bene, grazie». Scommetto che chi ha inventato le unità di misura non ha minimamente preso in considerazione l’idea che un giorno lo zucchero si sarebbe misurato anche a pallini. Con il tasto + poco sotto il display ubbidisco, prima di digitare anche il codice del caffè. Quando sei davanti alla ragazza più bella della terra e il respiro ti manca per il semplice fatto di averla a pochi centimetri da te, anche il tempo che un distributore automatico impiega per preparare un caffè macchiato al cioccolato sembra talmente lungo, da fare invidia all’eternità. È vero che non mi ero preparato un discorso, ma non pensavo che sarebbe stato così complicato trovare un argomento di conversazione per riempire dieci minuti di pausa.
Mi fisso con lo sguardo sul livello di preparazione della bevanda, consapevole che sarò un uomo finito non appena sullo schermo comparirà la scritta: “Bevanda pronta” e dovrò prendere il bicchiere e passarglielo.
Fortuna mia, ci pensa lei a togliermi dall’imbarazzo. La voce è giusto un filo, ma lontani dai rumori della fabbrica non serve chissà quale sforzo per farsi sentire. «Tu, come lo prendi?».
Corto. Basterebbe una parola.
Sono sempre stato un tipo da caffè corto e non ho mai sentito l’esigenza di cambiare le mie abitudini. Almeno, finora. «Di solito amo i caffè che si lasciano bere in un sorso, ma oggi il macchiato al cioccolato mi incuriosisce. Penso che potrei provarlo». Lei sorride e il mio cuore arriva dritto in gola.
Mamma mia, quanto è bella. Poterla vedere sorridere, senza sbirciarla con il timore di essere scoperto, è una soddisfazione che va oltre ogni dire. I suoi denti non sono perfetti, ma il modo in cui le labbra si sistemano intorno a loro li rendono tali. In più, quando sorride ha la tendenza ad arricciare leggermente il naso. Mi fa impazzire.
Al suono della macchinetta, prendo il bicchiere e glielo passo. Aspettare il mio sembra un po’ meno penoso. «Che te ne pare qui?». Volendo proprio dirla tutta, l’ultimo dei due ad essere arrivato sono io. Ma, credo che la domanda possa andar bene comunque. È talmente giovane, che di sicuro non lavora in questo posto da una vita. Per quanto ne so, potrebbe anche avere in progetto qualcosa di diverso.
«Non male, anche se il caffè non è come quello del bar». Muove il bicchiere fra le mani e la gocciolina che si era formata sul bordo, nel punto esatto dove aveva appoggiato la bocca, scivola lungo la superficie ondulata della parete, fino a mischiarsi di nuovo con il caffè rimasto sul fondo.
Il distributore suona di nuovo. È pronto anche il mio. Lo prendo, sollevo il bicchiere fino alle labbra e provo un primo piccolo sorso. Scotta da morire. Sono pochissime le cose in grado di scottare in maniera mortale, come il caffè dei distributori automatici. Fingo comunque che non sia niente e provo ad assumere l’aria di chi sta assaporando senza problemi qualcosa di nuovo. È buono o non è buono? È il secondo dubbio amletico nel giro di dieci minuti. Stavolta, però, rimango perplesso.
«Mah! Se proprio devo essere sincero, sento un certo conflitto di competenze». Lucia sorride ancora. Allora, io continuo a cavalcare quell’onda di humor che è arrivata all’improvviso ad aiutarmi e che sembra stia funzionando. «Non è n’è caffè, n’è cioccolato… non so se mi spiego. Mi aspettavo più il gusto tipico di  pezzo di fondente, dopo un buon ristretto». Poche parole, ma tutte azzeccate mi sembra. Lucia continua a guardarmi con quello sguardo curioso e divertito e io per un po’ smetto di sentire la forza del cuore che continua a premere nella gola. Adesso sì, che potrei veramente cominciare a parlare per ore. Ma, il suono della campanella ci impone la fine della pausa e il ritorno al lavoro. Mentre buttiamo via i bicchieri, la sento dire: «Ti ringrazio».
«Non c’è di che, ma… posso chiederti una cosa?».
La mia voce è flebile, come quando sono a letto con la febbre alta (che per me vuol dire dai trentasette gradi e mezzo in su) e la mamma viene a chiedermi se ho intenzione di scendere in cucina per il pranzo. Il più delle volte, la vedo uscire dalla stanza con la consapevolezza che non ha sentito la risposta alla domanda. Ma, non posso permettermi di cadere di nuovo nel panico tipico dell’innamoramento e di lasciare passare altro tempo prezioso. Non aspetterò di vederla sorridere, perché qualcun altro le ha chiesto di uscire.
Respiro a fondo e: «Posso offrirti un caffè?». Domanda idiota. Me ne rendo conto nel momento in cui la vedo fissarsi con lo sguardo sul davanti del distributore. Ha la faccia a punto interrogativo.
«Pensavo l’avessi appena fatto». Dice indicando con un dito i nostri bicchieri vuoti, sopra il resto della roba nel cestino dei rifiuti.
«No! Cioè… sì!». Balbetto. Fantastico. Il cuore in gola è tornato a farsi sentire in maniera insopportabile e temo che il mio motore vitale possa decidere di alzare bandiera bianca e di abbandonarmi da un momento all’altro.
«Quello che intendo dire è che…». Se non mi sbrigo a sputare il rospo, va a finire che Maurizio viene a richiamarci per la mancata presenza nei reparti. Ci manca solo un richiamo da parte dell’azienda, come ciliegina sulla torta a quella che penso stia rapidamente diventando la figura di merda più brutta della mia vita. Non sono un tipo che si massacra da solo, ma sono un’idiota e non c’è obiezione che tenga.
«Ciò che intendevo chiederti è se posso offrirti un caffè al di fuori di qui. Magari, troviamo un bar che faccia un ottimo caffè al cioccolato. Che te ne pare come idea?».
Rivedere il sorriso di prima e quel naso arricciato, mi regala una nuova boccata di ossigeno.
Forse, non muoio più per oggi.
«Eccoti! Marcella non ti ha vista tornare al lavoro e temeva stessi poco bene. È tutto a posto?».
È Francesca, un’altra collega di Lucia. Si rivolge a lei, come se io non  ci fossi. Fatico, ma faccio finta di non essere infastidito da questa cosa. Come per il fatto di essere stati interrotti poco prima che Lucia riuscisse a rispondermi.
Anche se rischio seriamente di vederle andare via senza sapere se le farebbe piacere uscire con me, sto buono e in silenzio.
E rimango buono e in silenzio per un po’. Fino a che… dico qualcosa, o non dico qualcosa?
Giuro che la prossima volta che sento la mia testa ragionare alla Shakespeare prendo il cellulare, trovo il numero di un bravo psicologo e lo chiamo. Non ne posso più di sentirmi l’Amleto della situazione. Ora! Va bene non essere il massimo in fatto di decisione. Va bene aver faticato non poco per sfangarla in questa delicata questione di cuore. Ma, quando è troppo è troppo!
Trascorro in silenzio altri secondi preziosi. Poi, finalmente Lucia sembra ricordarsi di me.
«Tutto ok, Franci… tranquilla. Dì a Marcella che arrivo subito». La collega fa dietrofront senza aggiungere una parola. Lucia raggiunge la porta della stanza, si appoggia con una mano alla maniglia e solo allora si volta a guardarmi. «Per te andrebbe bene questa sera alle sette e mezza?». Non chiedo di meglio. Il sorriso che mi si stampa in faccia è il più grande che mi sia capitato di fare in tutta la vita. Non è assolutamente vero che non si riescono a mostrare tutti i denti in un sorriso. Non ricordo a chi l’ho sentito dire, ma è una bugia. I miei quarantotto soldatini bianchi (come la mamma si divertiva a chiamarli quando ero piccolo, per convincermi a mangiare e variando sul tema dell’aeroplanino che atterra all’aeroporto), stavano risplendendo sotto i raggi delle luci al neon del lampadario, orgogliosi come non mai di essere tutti compatti e di essere tutti ben visibili. «A dopo, allora». Ci salutiamo in fretta, prima di tornare ognuno al proprio lavoro.
Ho sempre pensato che vivere in una città di piccole dimensioni sia uno svantaggio.
Passi per i giorni in cui lavori e ti tocca stare rinchiuso per otto ore, se non di più, tra le quattro pareti grigie di una fabbrica che, per quanto moderna, è pur sempre una fabbrica. Ma, quando è il tempo libero a farla da padrone, allora sì che è un dramma.
Le piccole città hanno poco, veramente poco da offrire in termini di svago e Gubbio non fa eccezione. Adorabile, strutturalmente parlando. Una vera chicca, per gli artisti o per gli appassionati di fotografia. Ma, viverci per trecentosessantacinque giorni all’anno non è sempre tutta questa pacchia. Tolti i periodi speciali e quelli di festa che riserva all’intera cittadinanza e ai turisti che la scelgono come meta, per il resto sono sempre le solite.
Non che le solite cose di sempre mi dispiacciano poi tanto. Ma, sono sempre le solite.
Il cinema puntualmente in ritardo sulle proiezioni e battuto alla grande dai multisala delle vicinanze, i pub sempre agli estremi in fatto di presenze; o troppo pieni da non riuscire a starci o talmente vuoti da angosciare e le vie solitamente deserte e deprimenti nel loro silenzio; più di quanto possa essere deprimente il restare barricato in casa a guardare il niente che di solito propone la televisione il sabato sera. Me lo sono sempre chiesto… chissà perché i migliori programmi e i migliori film li sparano tutti durante la settimana, quando la maggior parte della gente ha la sveglia che suona presto il giorno dopo e non si può permettere di tirare fino a tardi davanti allo schermo. Poi, si lamentano degli ascolti bassi. Dovrebbero saperlo come funzionano certe cose, loro che sono esperti del settore.
«Mi scusi, sa per caso dirmi l’ora?».
Ho camminato per talmente tanto tempo, con la testa immersa nei pensieri, che a malapena riesco a capire dove mi trovo e – soprattutto – che ore sono. Non vorrei arrivare in ritardo, proprio oggi che finalmente esco con Lucia.
Guardo alla svelta il display del cellulare e rispondo al signore dai baffi lunghi e bianchi che, tirando qualche boccata di fumo dalla pipa che tiene stretta in mano, non ha mai smesso di fissarmi. Starà pensando che sono uno strano soggetto, ma io penso altrettanto di lui.
«Sono le sette e venti».
Riprendo a camminare senza aggiungere altro. Un «Grazie» mi arriva alle orecchie di sfuggita, ma non ho il tempo di voltarmi per rispondere che “non c’è di che”.
Sono le sette e venti. Mancano dieci minuti allo scoccare dell’ora x. Devo sbrigarmi.
Mentre supero l’ufficio postale chiuso e accelero il passo lungo via Gioia, sento un’ansia terribile assalirmi. Perché? Perché l’ansia arriva a rovinare sempre l’attesa dei momenti belli?
Non potrei semplicemente essere un ragazzo felice e sereno? Un ragazzo che sta camminando per la città, per raggiungere la ragazza che ha invitato a bere un caffè insieme, per il loro primo appuntamento?
No! Io sono un ragazzo felice, perché sta per avere un primo appuntamento con una ragazza stupenda, e… ansioso per lo stesso motivo.
«Ciao! È molto che aspetti?». Mi precipito davanti a Lucia che, sollevando gli occhi verso l’orologio della Piazza, aspetta di vedermi riprendere un po’ il fiato: «No! Non sei in ritardo, non preoccuparti. Sono io che ho l’abitudine di arrivare in anticipo. Così, non rischio di fare tardi». In due sorridiamo di quel bizzarro gioco di parole. Poi, guardandoci intorno decidiamo di attraversare piazza Quaranta Martiri e di raggiungere il quartiere di San Martino.
Ecco. Anche se Gubbio è una realtà modesta e con possibilità di svago non sempre alle altezza delle mie aspettative, adesso è l’unico posto in cui vorrei essere insieme a Lucia. Perché, quando vuole, Gubbio sa essere magica. E sa riempirsi di magia in quel modo speciale che ti fa venir voglia di prendere carta e penna e di scrivere una poesia, o di stringere tra le mani una chitarra e di intonare una canzone. Mi immagino seduto sulla scalea del palazzo dei Consoli e mi sento cantare a Gubbio, come una celebre canzone fa a Roma, per chiederle di aiutarmi. Gubbio… non fa la stupida, stasera…
«Cosa hai pensato stamattina, quando ti ho chiesto di uscire?». Dal modo in cui Lucia mi sta guardando, intuisco che la mia non deve essere stata una grande mossa per rompere il ghiaccio.
Un sorriso. Gli occhi puntati nei miei. Poi, niente. Non so per quanti secondi rimango ad aspettare che il silenzio tra noi muoia.
«Niente».
Come sarebbe a dire?
Non che mi aspettassi chissà cosa. Ma, almeno di sapere se ne è stata felice.
Raggiungiamo l’ingresso del bar, la lascio passare e la seguo fino ad un tavolino in mezzo alla sala. Avrei preferito una posizione un po’ più periferica, ma non importa.
Adesso anche sopra i tavolini dei bar ci sono i menù. Cioccolata per tutti i gusti, tè e tisane per tutti i gusti e caffè versato in tazza in cinquanta modi diversi.
Io continuo ad essere convinto che la miglior scelta stia nel caffè corto. Eppure, quando il barista si avvicina per prendere il nostro ordine, Lucia sorride mentre chiedo: «Due caffè macchiati al cioccolato, grazie!».
«Tazza grande o piccola?».
«Grande». Immagino che avere più caffè da bere significhi avere maggiore tempo per rimanere seduti al tavolo. Solo io e lei, senza la gente che ci cammina intorno e senza il rischio che qualcuno che conosciamo si avvicini per attaccare bottone e rovinarci la serata.
«E tu? Perché mi hai chiesto di uscire?». La curiosità di Lucia è forte, glielo leggo negli occhi.
Sono tentato di rimanere sul vago, soprattutto per il desiderio di ripagarla con la stessa moneta. Ma, dopo un po’ mi sento stupido a fissarla senza dire niente. Allora, confesso: «Perché quando ti vedo mi tremano le gambe e anche se non sono sicuro di ciò che potrebbe nascere tra me e te, ho pensato di non aspettare di vederti con qualcun altro, per poi scoprire magari che sono innamorato e che mi rode tantissimo vederti felice con lui». Più sincero di così.
Mentre arrivano i nostri due caffè al cioccolato vedo Lucia mordicchiarsi il labbro inferiore e innervosirsi un po’. Oddio! Ci sarà mica qualcun altro? Vado in paranoia nel tempo reale di un microsecondo. E la morsa dell’ansia sullo stomaco non si allenta nemmeno quando la sento controbattere: «Non sono un tipo così richiesto». Sorride, ma non capisco di che cosa. Significa che ha accettato di uscire con me per disperazione?
Non posso chiederlo. Perché le cose che si vorrebbero sapere per non impazzire, sono sempre difficilissime da formulare in una domanda?
Provo comunque ad aggirare l’ostacolo: «Sono più che sicuro che una ragazza bella come te fa impazzire i ragazzi, ogni volta che entra in un locale». È un complimento, ma non solo.
Il cuore nelle tempie comincia a pulsarmi forte, quando la sento affermare: «Non sono proprio il tipo da locali e da vita notturna. Bere un caffè, seduta al tavolino di un bar e in buona compagnia, è quanto di meglio io possa sperare per una bella serata». Fantastico!
«E… che fai nel tempo libero, quando decidi di non uscire?».
«Dipingo».
Me la immagino davanti ad una tela, con un pennello tra i capelli e le mani imbrattate di colori.
Ama dipingere i paesaggi. Soprattutto perché, dice, non sono capricciosi come le persone. Sono ispiranti e sanno rimanere a disposizione dell’artista per tutto il tempo necessario.
Io non ho mai riflettuto sulla possibilità di fare qualcosa di artistico nella mia vita. Ma, se ci penso, mi sarebbe piaciuto recitare. Ho la sensazione che un attore sia maggiormente in grado di fronteggiare le situazioni imbarazzanti o scomode di ogni giorno. Non che ciò significhi dover fingere. Semplicemente, avere la faccia giusta per ogni momento.
«Mi piacerebbe poter vedere qualche tuo lavoro». Sorrido per l’ennesima volta, nella speranza che raccolga l’input per un possibile, futuro, secondo appuntamento. Ma, vivere in un mondo ipertecnologico significa avere sempre a portata di mano un cellulare carico di fotografie. E  ritrovarmi immerso nei suoi mondi di colori e nei prati verdi dei suoi lavori è più immediato di quanto volessi. «Sono stupendi, complimenti!».
Uno in particolare cattura tutta la mia attenzione. È una distesa di margherite.
Lucia lo capisce e si blocca su quell’immagine. «Questo l’ho realizzato l’anno scorso, dalle parti della fabbrica». Anche questa sarebbe una buona occasione per chiedermi di fare qualcosa insieme, ma il tempo continua a passare parlando dei suoi quadri, di musica, di libri e di film, senza che Lucia lasci intendere in qualche modo di volere uscire di nuovo con me.
Una volta fuori dal bar sono deluso, anche se cerco di tenere la delusione per me. Con le auto parcheggiate in due posti diversi occorre salutarsi lì e darsi la buona notte. Ci baciamo sulle guance, ci stringiamo la mano e ci allontaniamo ognuno nella propria direzione.
Sono già piuttosto lontano dall’ingresso del bar, quando sento la sua voce forte: «Stefano! Stavo pensando… posso offrirti un caffè?».
«Credevo l’avessimo appena preso. Vuoi fare il bis?». Sento un lampo accendersi negli occhi e in un attimo le sono di nuovo vicino. Sorride. È bellissima. È il motivo per cui non vorrei tornare a casa e quello per cui non vorrei chiudere gli occhi e abbandonarmi al sonno.
Pur di non perderla di vista nemmeno per un secondo, sarei disposto a fare orario continuato per la veglia e a rimandare l’appuntamento con il sonno ad un altro momento.
«Lo so, che lo abbiamo appena preso. È che mi chiedevo se ti andrebbe di uscire con me una delle prossime sere, per un altro caffè. Magari… stavolta ci mettiamo alla ricerca di un bar che faccia un ottimo espresso. Che te ne pare, come idea?».
Non è un tour tra le sue opere, non è una merenda all’aperto sdraiati in un prato di margherite, ma va benissimo lo stesso.

Sento il cuore fare le capriole dalla felicità. «Mi sembra un ottimo programma!».

domenica 3 novembre 2013

Tra le pagine di un’agenda

Novembre. 
La mente viaggia tra tanti pensieri. 
Forse perché novembre è il mese delle celebrazioni per i Cari defunti, o forse perché novembre è il mese che precede quello ultimo dell'anno. 
Forse perché è quella giusta via di mezzo tra l'essere ormai prossimi al Natale e l'esserne ancora distanti. 
O forse perché... essere a poche settimane dal 2014, novembre significa lasciarsi andare ai bilanci. 
Che siano personali o non, economici o emotivi... poco importa. Nell'assenza di frenesia che è tipica delle feste, novembre è il mese giusto per concedersi con calma a qualche ragionamento.
Novembre è' il mese dell'attesa, quello dei progetti e delle idee possibili (prima ancora che il tempo sarà volato in fretta e ci accorgeremo solo poi di essere riusciti nella metà - se siamo fortunati - di ciò che avevamo immaginato).... in vista di...
Allora, succede di trovare già pronte le vetrine di alcuni negozi. Mentre gli scaffali dei supermercati già abbondano di torroni, torroncini, pandori e panettoni. 
E' Novembre. Già si respira aria di Natale (e si pregusta l'intensificarsi che verrà) e, cercando di ignorare il clima mite fuori della porta, già si immagina di svegliarsi con la neve a render tutto bianco, con il silenzio che - almeno in zone di campagna - è tipico dell'inverno, con il freddo che è pungente, ma che il ricordo delle tribolazioni estive forse saprà rendere più sopportabile e con il cuore pieno di emozioni.
Adoro il Natale.
Non per i pacchetti sotto l'Albero. Anche se è piacevole trovarne, con il proprio nome scritto sopra.
Adoro il Natale per l'opportunità che offre, di stare in famiglia.
Preparare le pop corn, prima di guardare un film della tradizione. Lasciare che lo stereo suoni un cd di canzoni natalizie, mentre i biscotti nel forno stanno cuocendo... piccolo esperimento delle intenzioni mangerecce del 25 dicembre. Sbucciare un'arancia accanto alla stufa accesa e lasciare che la buccia si surriscaldi sopra la superficie in ghisa rovente... la stanza si riempie di un odore buono e pare inevitabile respirare a pieni polmoni. Preparare una cioccolata calda e provare per la prima volta ad aggiungere un pizzico di peperoncino. Buona.
Magari prendere un libro dallo scaffale, ignorare il fatto che il nome scritto sulla copertina sia lo stesso riportato all'interno della carta d'identità e raggiungere senza esitazione una pagina precisa.
Un lavoro a quattro mani che ha saputo sconfiggere la barriera del tempo. Leggo e, come sempre, penso a te... nonno!

Tra le pagine di un’agenda
(con il contributo di: Ennio Vagnarelli)


26 dicembre 2011.
Il giorno di Santo Stefano. Il giorno dopo Natale. Il giorno in cui suo padre – anni prima – aveva deciso di smettere di lottare contro la malattia; lasciandolo solo con sua madre.
Lui, all’epoca venti anni e poco più. Lei, cinquanta compiuti da poco. Entrambi, nonostante gli avvertimenti dei dottori, per nulla pronti a rinunciare a quella figura. A quel padre e a quel marito che, pensavano, ci sarebbe stato per sempre.

Asciugandosi di nascosto una lacrima, Luigi si alzò dalla tavola per un attimo. Lasciando gli altri a parlare di regali ricevuti, di regali solo desiderati e conservati in un angolino della mente per una ragione o per un'altra e di tutto il resto.
Si dovrebbe essere felici a Natale.
Eppure…
Eppure, Luigi sentiva nel cuore un peso. Come fosse stato schiacciato da un’incudine.
Non c’era verso di evitarlo. Non c’era verso di ignorarlo.
Veloce raggiunse il salotto e la scatola di sigari, che solo di tanto in tanto si concedeva.
Suo padre era stato un fumatore. Pure lui, non assiduo. Ma, Luigi ricordava ancora alla perfezione l’odore di fumo di sigaretta che – in qualunque stanza della casa si trovasse – si mescolava con quello del suo dopobarba; in note e aromi sempre inediti.
La soffitta. La soffitta era la stanza della casa dove suo padre amava fumare. Un po’, perché era quell’angolino tutto suo dove potersi sbizzarrire con le mille idee e i mille progetti che sempre gli animavano la mente. Un po’, perché – almeno – se fumava in soffitta, la mamma non avrebbe trovato niente da ridire e si evitava di dover correre da una parte all’altra della casa per aprire le finestre e fare uscire la puzza di fumo.
Sì. Immaginò che anche Letizia si sarebbe arrabbiata, se l’avesse trovato a fumare in salotto il giorno di Santo Stefano. Con gli ospiti ancora a tavola, nella stanza accanto.
Così, armeggiando per un po’ con accendino e tagliasigari, alla fine Luigi si decise a prenderne uno, a salire le scale e a raggiungere la soffitta.
Non ricordava il numero di volte che c’era andato, nei giorni successivi a quello del funerale. Respirare l’aria di quella stanza lo aiutava a illudersi che nulla fosse cambiato. Che suo padre fosse ancora su quella terra vivo e vegeto e che, presto, l’avrebbe sentito rincasare dal lavoro con la solita smania di sapere che cosa si sarebbe mangiato per pranzo o per cena.
Ma, l’illusione era comunque durata poco. Poi, nonostante le finestre rimaste sigillate in quell’angolo della casa, l’odore del padre aveva cominciato a farsi sempre più debole. Fino a sparire.
Allora, il cuore di Luigi aveva chiuso le porte con un tonfo sordo. Chiuse. Sigillate anche loro. Perché il dolore non riuscisse a distruggerlo. Perché l’amore non riuscisse a farlo sentire debole.
Era successo spesso, che gli altri glielo facessero notare. Era successo spesso che, accanto al suo nome, si sentissero parole come: freddo, glaciale, distante, pezzo di ghiaccio.
Ma, a Luigi non importava.
Anche se suo padre non avrebbe approvato, in quei trenta anni passati da quel lontano 26 dicembre non era riuscito a riaprirsi di nuovo alla vita e alle bellezze che, ogni giorno, nasconde in sé.

Tagliò la punta del sigaro con un gesto meccanico e, altrettanto meccanicamente, lo accese.
Non era sicuro che sarebbe riuscito a goderselo in santa pace, fino alla fine. Ma, cercando di non pensare al pranzo che continuava ad andare avanti due piani più sotto, prese la sedia che era stata di suo padre e si accomodò al tavolino.
Immediatamente, i ricordi si fecero di nuovo avanti nella mente. Prepotenti. A tratti, dolorosi.
Ripensò a tutte le volte in cui, da bambino, era salito fin lassù con i libri della scuola. A tutte le volte in cui si era seduto su quelle ginocchia, che aveva sempre considerato robuste. A tutte le volte in cui, sotto allo sguardo attento di quel babbo amorevole, aveva ripreso a fare i compiti. Quegli stessi, dannatissimi compiti che fino a un attimo prima proprio sembravano non volerne sapere di giocare a suo favore.
“Babbo, il problema di matematica non torna…”.
“Babbo, il riassunto di italiano è troppo lungo…”.
“Babbo…”.
Quante volte. Quante.
Luigi lasciò scendere dagli occhi l’ennesima lacrima. Avrebbe dato qualsiasi cosa, perché suo padre potesse essere ancora lì a dargli consiglio.
“Babbo…”.
Quella dolce, piccola parola gli sfuggì dalle labbra prima che riuscisse a serrarle.
Il sigaro acceso in mano, allora, non contò più. Il rumore della vecchia sveglia, che continuava a ticchettare sullo scrittoio poco lontano, si annullò all’improvviso.
26 dicembre 2011.
Luigi si alzò dalla sedia lentamente, quasi incerto.
Si rimise in piedi, avanzò ancora di più in direzione della scrivania e arrivò con la mano fino ad afferrare l’agenda che, nonostante i trenta anni passati, sia lui che la mamma non si erano mai sentiti di gettare via.
Era come ricordava. Di pelle. Un po’ usurata sugli angoli. Alcune pagine sgualcite.
Anche in quel caso, non avrebbe saputo dire quante volte aveva immerso il naso in quel piccolo mondo di carta. Quante volte, aveva scorso e riscorso con gli occhi quei fiumi di inchiostro nero.
Suo padre amava scrivere.
Pagine di diario contenenti la sua e la loro vita. Poesie. Ma, anche racconti.
Fu nell’imbattersi in uno di questi, che Luigi ebbe la sensazione di scoprire qualcosa di nuovo.
Sì. Anche se era più che certo che nuovo non potesse essere. Anche se aveva la piena consapevolezza di aver sfogliato quell’agenda – tutta quell’agenda – da cima a fondo e viceversa, centinaia e centinaia di volte.

Quando gli occhi ancora bagnati di lacrime si poggiarono su quel testo ordinato, per un istante credette di non averlo mai visto prima.
Iniziò a leggere e la stanza sembrò piombare in un silenzio, ancora più opprimente di quello che già c’era.

PRIMAVERA, ALLODOLE E AMORE

Correva il ruscello dagli argini rialzati, attraverso campi e prati, lambendo case, ravvivando orti e fiori…nascondendo una realtà che oggi è soltanto un sogno…Sogno splendido che il tempo non ha sfumato, sogno al quale, pur senza speranza, la mente ritorna con infinita dolcezza come ad oasi in un immenso deserto. Primavera esulta, lodole nel cielo trillano senza posa, lodole nei prati pigolano al sole di marzo, languore divino di creature in braccio all’amore…Eppure Carlo quel pomeriggio non pensava all’amore, camminava curvo con il fucile pronto a colpire, e con l’intento di far diventare 15 le 12 lodole appese alla cintura. Ma non era facile, poiché quel giorno non ne era entrata una e le poche che c’erano sembravano indemoniate; infatti anche allora con il loro pio-pio si alzarono fuori tiro. Carlo accucciato a terra, con il fischietto fra le labbra rifacente il verso, le seguiva con gli occhi sperando che si rimettessero poco lontano, o che gli passassero a tiro sulla testa, invece sorvolarono il ruscello e non le vide più nascoste dagli alti argini. Il giovane si rialzò asciugandosi il volto sudato e già abbronzato dal primo sole di marzo; accese una sigaretta e si incamminò nella direzione presa dalle lodole con quella speranza e tenacia che soltanto i cacciatori possiedono. Giunto al ruscello salì la scarpata e saltò sull’altro argine, lì inchiodato restò fermo a guardare…Sul prato sottostante, tra margherite e ciocche di viole un quadro meraviglioso giustificava la sua sorpresa, una bellissima fanciulla giaceva in dolce abbandono presa dal sonno in quel tepore di primavera. Linfa divina che violenta alimenti i giovani corpi, che prepotente addolcisci gli animi bruti immenso è il tuo potere, tuoi schiavi sono gli esseri che ti possiedono, disgraziati sono coloro che non ti conoscono. Ecco lì un uomo piegato al tuo volere, un essere di cui in un attimo hai annullato la mente, il suo cuore batte febbrile, il suo animo è una ridda di emozioni, il suo cervello non conta più…non ha che gli occhi, tutto il suo essere è concentrato negli occhi…vede una massa di capelli biondi, il sole li illumina, sembrano d’oro; due labbra vermiglie appena dischiuse sembrano pronte a baciare; un volto delizioso di bimba e bimba non è…perché no?...il cuore pazzo ripete bimba…bimba …perché no la sua bimba?...Ecco il cervello ricomincia a funzionare, ciò che prima aveva veduto limpido con una sola occhiata, ma poi dimenticato, ora l’osserva immoto e quasi calmo. Avrà forse venti ventun’anni, è assopita con la testa reclinata sopra il braccio sinistro disteso fra l’erba da poco nata, la mano stringe un libro rilegato in pelle marrone, il dito indice tiene ancora il segno; l’altro braccio è parzialmente disteso sul corpo mentre la mano sfiora le corolle di margherite, la veste è salita abbastanza sopra il ginocchio della gamba destra incrociata sulla sinistra. La pelle serica che il sole bacia per la prima volta dall’inizio dell’anno, manda riflessi indefinibili, una linea azzurra appena visibile dal ginocchio sale ad alimentare quel corpo perfetto, perdendosi nel mistero delle vesti…Carlo considera ora l’insieme di questa visione tranquillamente, con animo sereno; si siede sull’argine cautamente, timoroso di svegliarla, timoroso di ritornare nella realtà fugando una realtà che è sogno…Tiene stretto fra le mani, appoggiato sulle ginocchia, il fucile, e la sua stretta è un’inconscia carezza a questo strumento di morte una volta tanto mezzo di infinita dolcezza. Come dopo uno sforzo violento ed improvviso ora si sente stanco, spossato, forse il lungo camminare, forse la primavera, forse…la giovinezza che è in lui e che davanti a lui, immota, è pur ricca di tanta vita. Vorrebbe essere leggero come una piuma, scivolare sull’erba accanto alla fanciulla, respirare il suo alito, sentire i battiti del suo cuore…quanto è pazzo il cuore, gli ripete ancora “bimba, bimba” come se per lui bimba dovesse essere…bimba del suo cuore…ma non si sbaglia il cuore? E la realtà, e il risveglio?...ma ecco la bimba si sveglia...Carlo immobile come una statua non pensa più, guarda…guarda e sente il cuore che ha ripreso la sua marcia furiosa, e sente come per dono divino, che qualche cosa di meraviglioso sta per accadere, qualche cosa di cui non si renderà mai conto…La bimba si sveglia, si passa appena la mano destra sugli occhi, poi ha uno scatto, ora è seduta e lo guarda impaurita, Carlo è sempre immobile. Il sogno finirà, la fanciulla sparirà all’improvviso come all’improvviso è comparsa alla sua vista, questo aspetta, questo teme lui che non cede al suo cuore, ma il cuore non sbaglia…È meraviglioso, la fanciulla non ha più paura, solo un briciolo nel fondo degli occhi, occhi castani dai riflessi dorati come i capelli, occhi che parlano il loro linguaggio rapidamente, con decisione, inconsciamente. Ciò che era avvenuto per Carlo al suo apparire sull’argine, ora avveniva per la bimba al suo risveglio. Attimi eterni, attimi che l’uomo non può descrivere perché sono di Dio. Poi la bimba si riprese, schiuse le labbra al sorriso e una voce calda come il sole di marzo avvolse Carlo e lo attirò a sé. Ora i due giovani erano seduti uno accanto all’altro sul prato, lei parlava lentamente quasi soffocata da qualche cosa che non capiva, cercava di spiegare l’assopimento, cercava di spiegare il risveglio, ma non erano che parole, un desiderio folle si faceva strada nel suo animo e capì che era ciò che la soffocava; desiderio di appoggiare la testa sulla spalla del suo compagno, desiderio di sentire quella mano bruna sul suo volto…ed anche lei seppe con certezza che quando lui avesse parlato ciò sarebbe avvenuto…Ebbe di nuovo paura e incominciò a parlare più in fretta di cose futili, mentre pensava che non era ben fatto stare lì; capì che doveva andarsene capì che era ancora in tempo…ma non lo fece, Carlo le stava chiedendo il nome, Carlo le stava dicendo cose che altri non le avevano mai dette…Si chiamava Nadia, aveva ventidue anni ed era molto bella, abitava poco lontano in una villa dal tetto rosso, leggeva Kipling, e cosa inaudita per i suoi orecchi, stava ascoltando un uomo che la definiva brutta o meglio non bella. Stupefatta lo guardava, e mentre il suo orgoglio di donna corteggiata reagiva come sotto una sferza, tutto il suo essere attendeva avido altre parole, forse altre crude verità da quest’uomo rude che la dominava con la sua voce sincera, con la sua voce che tramutava in parole ciò che aveva nel cuore. Il suo orgoglio taceva per far posto all’ansia di udire ancora altre cose, che mai avrebbe pensato uomo avesse osato dirle in viso, ma erano cose tanto nuove e deliziosamente piacevoli. I suoi occhi non si staccavano da quella bocca che parlava, e non si accorse che non udiva più…vedeva solo quella bocca e sapeva solo che l’avrebbe baciata. Il giovane tacque come se avesse intuito il desiderio e i due volti furono a contatto, ma la bimba si ritirò leggermente evitando le labbra, schermaglia d’amore, tattica di donna che attende una dolce violenza. Ma l’uomo era un presuntuoso, come poi lei gli disse sorridente, e non la costrinse al bacio; ricominciò a parlare più sincero di prima, più rude di prima, quasi brutale, le gettò in viso come scudisciata il desiderio che aveva intuito, le disse che non l’avrebbe baciata sebbene lo desiderasse immensamente, perché anche lei immensamente lo desiderava e di spontanea volontà doveva farlo. La fanciulla non piegò presa da quel gioco inusitato ed eccitante, sviò il discorso, mentre l’animo invocava quel bacio che stava diventando un tormento. E nel tepore di marzo, mentre due corpi bruciavano, si parlò di caccia, di libri, di pesca, di donne e poi…ancora di amore. Ora le due bocche  si avvicinarono insensibilmente poi tacquero, le labbra furono sulle labbra unite in un bacio che fu il trionfo della giovinezza e il mutuo passaggio di mute parole fra gli animi. Da dietro l’argine, a volo radente sbucò uno stormo di lodole, videro i giovani, videro aperto sul prato il fucile, videro gli ottoni lucenti delle cartucce come due occhi di fuoco, e trilli di gioia solcarono l’aria verso il cielo, nella certezza che almeno per quel giorno, avrebbe taciuto inerte lo strumento di morte, abbandonato tra i fiori vinto dalla più formidabile potenza che esista nel mondo: l’Amore.

Arrivato fino a quell’ultimo punto, Luigi scansò alla svelta quelle pagine da sotto gli occhi, per evitare che le lacrime – cadendo – rovinassero quel capolavoro.
Suo padre. La sua incrollabile fede nella vita. La sua assoluta certezza, riguardo all’immenso potere dell’amore.
Bastava soffermarsi su quell’ultima parola, per capirlo. Una A maiuscola.
Rimase con l’agenda aperta in mano, per qualche secondo ancora. Fino a che si sentì chiamare dal piano di sotto.
La voce di Letizia sembrava tutto, fuorché tranquilla.
Svelto, allora, Luigi lasciò la soffitta. Dimenticandosi del sigaro e di tutto il resto, ma portando con sé l’agenda del padre.
Quando gli altri lo videro tornare a tavola, le due rampe di scale scese di corsa gli avevano lasciato un discreto fiatone. Gli occhi rossi rivelarono subito che aveva pianto.
“Ma, si può sapere…”.
Luigi non diede modo alla madre di terminare la frase, alzando una mano per zittirla.
Quindi, bevuto un piccolo sorso d’acqua, ignorò completamente la fetta di torta poggiata sul piatto e, guardando tutti intorno a sé, disse solamente: “Vorrei leggervi una cosa”. Ricominciò d’accapo.

Primavera, Allodole e Amore è un racconto scritto da Ennio Vagnarelli. Tratto da “In bocca al Lupo” mensile di caccia e pesca della sezione prov. Cacciatori di Perugia (dicembre 1952)

Tutto d'un fiato, fino all'ultimo punto. Per poi ricominciare d'accapo.