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mercoledì 23 agosto 2017

Il primo appuntamento può aspettare

"Vale, ma... a te piacerebbe cenare qui per un primo appuntamento?".
Smetto di masticare e mi blocco per ascoltare la risposta. All'inizio stento a capire il senso della domanda.
Silenzio.
Con la coda dell'occhio riesco a vedere il tavolo vicino. Una botte con sopra un disco di legno marrone scuro, per l'esattezza.
Sono in tre. Due ragazzi e una ragazza. Intuisco possa trattarsi, allora, di una richiesta di aiuto.
"Preferiresti una cena a base di pesce?". Arriccio le labbra, in una smorfia istintiva di disappunto. Tra hamburger e patatine e un piatto al sapore di mare... hamburger e patatine tutta la vita. Io. Tra un pub in stile irlandese e un ristorante con le salviettine al profumo di limone... pub tutta la vita. Io.
Vale continua a tacere. Forse non conosce la ragazza in questione e, per questo, le riesce difficile consigliare. Per me sarebbe troppo complicato e insolito intervenire.
"Di quelli sul lungomare, quale sarebbe - secondo te - lo chalet migliore?".
La cena a base di pesce immagino stia vincendo. Mi domando il perché.
Guardo il mio bicchiere di birra ancora pieno, le olive ascolane appena arrivate e caldissime. Ascolto la musica alle casse.
Mah, sì! Una cena in un pub sul lungomare sarebbe persino qualcosa di originale.
Io: pub tutta la vita.
Loro: preferiscono mettersi a parlare del liceo che sta per ricominciare.
Il primo appuntamento può aspettare.

domenica 6 agosto 2017

Maciste in giardino

Con Maciste ci siamo incontrati in maggio; al supermercato. Io, con il carrello cigolante davanti a me e una piccola fatica dipinta in faccia per farlo camminare. Lui, silenziosamente sistemato sullo scaffale insieme ad altri amici. Ripensandoci ora, ricordo ancora alla perfezione cos’è stato a farmi avvicinare a lui. Nonostante il musino simpatico, gli occhiali sopra il naso che me lo facevano sentire somigliante e i guantoni da pugile addosso che me lo facevano avvertire - in un certo senso -  familiare, l’ho afferrato per poterne scoprire di più alla vista di una piccola fascettina bianca sul davanti che dichiarava: “Finalista seconda edizione Premio Strega Ragazzi e Ragazze – Categoria 6-10 anni”.
Ecco. Lo so cosa potreste pensare, ora. Categoria 6-10 anni, non è di certo la storia adatta ad una lettrice come me. Eppure, ho deliberatamente ignorato la vocina nella testa che mi diceva che tra meno di tre giorni ne avrei compiuti trentadue e l’ho afferrato con decisione per la copertina. Stringendolo in mano, ho cominciato ad immaginare che sarei entrata nella vita avventurosa di quell’animaletto simpatico che non smetteva di sorridermi e mi sono ritrovata immediatamente a credere che Maciste – che, non lo avevo ancora detto, è una talpa – sarebbe stato in grado di farmi ridere a crepapelle con le sue faccende più o meno quotidiane e con quello che, pensavo, avrebbe potuto combinare vattelapesca dove e a discapito di vattelapesca chi.


E chissenefrega se la storia non era stata scritta per una come me. Indirizzando lo sguardo verso i romanzi per adulti esposti sugli scaffali più in alto, nessuno sembrava fare al caso mio in quel momento. Niente sembrava tanto adeguato a me, quanto Maciste.
Ho infilato il libro nel carrello, stando attento a tenerlo lontano dai pomodori, senza nemmeno leggere la quarta di copertina. Mentre il retro recitava: “Era stato papà a dare quel nome alla talpa: Maciste. Maciste era un personaggio di una serie di film in costume, grande e grosso che spaccava tutto”. Avevo già l’impressione di sentire l’eco delle mie risate, perché convintissima che ‘Maciste la talpa’ me ne avrebbe fatte vedere delle belle.
Solo una volta arrivata a casa, con un po’ di tempo a disposizione prima di mettermi a preparare la cena da portare a tavola, ho scoperto che non sarebbe stato così.
La storia della talpa Maciste mi avrebbe raccontato, più che altro, come andarono i giorni prima della sua cattura e della sua espulsione dal giardino di Nico e dei suoi  genitori.
La voce narrante sarebbe stata quella di Nico, che già in quarta di copertina annunciava: “Conobbi Gino Bandiera nel 1967, e il ricordo più vivido di quei giorni è la caccia alla talpa. Da una parte c’era lei: una talpa enorme che chiamavamo Maciste, dall’altra parte c’eravamo io e Gino Bandiera, ex campione dei pesi massimi, detto il Gigante”.
Ho sentito il mio immaginario spegnere all’istante l’eco che sarebbe dovuto essere delle mie risate e per un attimo, devo ammetterlo, ho sentito crescere la delusione. Mi sono tornate alla mente le parole dette da un professore di scrittura creativa, un po’ di tempo fa: “Le fascette addosso ai libri sono fatte apposta. Attirano il lettore ancora prima della copertina e, alle volte, sono studiate apposta per poter convincere all’acquisto”. Ho fissato la fascetta del mio ‘acquisto’ per capire se, in qualche maniera, potesse essere stata ‘lei’ la responsabile del mio impulso a comprare: “Finalista seconda edizione Premio Strega Ragazzi e Ragazze – Categoria 6-10 anni”. Non sembrava ci fosse traccia di inganno in quelle parole, o di un tentativo di raggiro. Se quella storia, la storia della talpa Maciste, era per davvero riuscita a guadagnarsi un posto da finalista nella seconda edizione di un importante premio letterario, doveva esserci un perché. Mi sentii acquistare nuovamente fiducia nei confronti di quelle pagine ancora tutte da leggere e sprofondai nel divano per immergermi immediatamente nella lettura. Quel libro mi stava chiedendo di far tornare, almeno per un po’, la bambina di diversi anni fa. Ignorai la vocina nella testa che non voleva proprio saperne di smetterla di ricordarmi che tra meno di due giorni avrei potuto soffiare su trentadue candeline e feci una rapidissima sottrazione di ventisei. Se proprio dovevo affrontare quelle parole con occhi diversi e con spirito adeguato, volevo che il mio spirito fosse il più giovane possibile. Tornai a 6 anni. Perfetta per la categoria!
Fu facile e abbastanza veloce arrivare alla fine di quel libro. Non ho trovato il rumore di tante risate, ma sono riuscita a trovare il calore di una storia ben scritta e la bellezza di una voce narrante che non mi aspettavo. Non posso dire di aver conosciuto Maciste, per come immaginavo che avrei potuto farlo. In compenso, però, ho trovato Nico. Ho trovato il suo modo di raccontare e di parlarmi di Gino Bandiera e di quel suo simpatico modo d’essere un ex pugile ed un ex circense, che la vita aveva poi portato a diventare un cacciatore di talpe. Insieme a Nico, ho scoperto la bellezza del racconto di cose passate ed è stato un po’ come poter essere lì di persona, a scambiare quattro chiacchiere davanti a un bicchiere di limonata.
È stato piacevole, nonostante tutto. È stato un incontro avvenuto per caso, che ha saputo regalarmi tanto. Quando poi mi sono imbattuta nella nota dell’Autore, ho scoperto che quella di Maciste era stata una storia fortunata… perché colma di ispirazioni reali. Ho conosciuto Maciste al supermercato, in un normalissimo pomeriggio di maggio. Ho conosciuto Guido Quarzo alla stessa maniera. Quegli incontri casuali che piacciono a me. Sono convinta che mi ritroverò a parlarne ancora. Grazie a un piccolo musino di talpa che mi ha catturato, facendomi ignorare libri più adatti. Grazie ad una piccola fascetta bianca che… diceva il vero!
Alla prossima!!!

domenica 23 luglio 2017

Scritture al tavolino di un bar


Domenica pomeriggio. Caldissimo.

I tavolini di un bar. Una penna in movimento. La meraviglia della scena. La perfezione di quella scrittura.
Sorrido, mentre oltrepasso la porta per chiedere una bottiglietta d'acqua. 
Ci penso un po'. Rimango lì a fissare. Mi decido. Scatto una foto.



giovedì 2 marzo 2017

Quei rami così ben pettinati!

Una strada ormai declassata a 'seconda scelta'. In macchina, lato passeggero, verso un piccolo ufficio postale. Guardo in giro, come sempre quando non guido. Poche case. Macchine in movimento quasi zero. Non posso dire che mi dispiaccia, ma l'interesse vero si accende solo quando gli occhi incontrano delle piccole piante d'ulivo. Ovunque mi trovi, di qualunque ulivo si tratti, una pianta del genere sa sempre di 'casa'. Sorrido, pensando che gli esemplari che ho davanti sono bellissimi e... potati benissimo. Non avessi mai preso in mano un paio di forbicioni e non mi fossi mai accostata a dei rami per capire quali dei tanti fossero i superflui, forse non ci avrei fatto neppure caso. Oppure, la bellezza di una pianta che è 'appena stata dal parrucchiere' è talmente evidente da non poter proprio passare inosservata. Torno a casa la sera e trovo acconciati anche alcuni degli ulivi di famiglia. Fermo la macchina per un po' e rimango con i fari addosso ai primi grovigli di foglie che incontro. Sono piante vecchie. Anziane, direi addirittura. Ma la bellezza di un'ulivo ben potato è un fascino che non conosce età.

martedì 13 dicembre 2016

A partire da... una saponetta!

Tantissimi i modi attraverso i quali un ricordo può scegliere di arrivare dritto al cuore. Alcuni comuni, altri meno. Altri ancora che, decisamente, non ti aspetti. Il bagno pieno del vapore caldo della doccia. Lo specchio che non è più in grado di restituire un’immagine veritiera. Il freddo nelle ossa che non smette di farsi sentire e sembra voler chiedere di sistemarsi alla svelta sotto il raggio dell’acqua bollente. Una prima passata di shampoo. Una seconda. Poi, la scelta di strofinare il viso con vigore. Non con il solito sapone in gel, però. C’è una saponetta praticamente nuova poco lontano dal flacone di sempre e sembra avere tutta l’intensione di rendersi utile. È grande. Ovale. Pesante. Non una saponetta comune. I palmi delle mani, nonostante la collaborazione delle dieci dita, sembrano far fatica a gestirla. Un giro. Un altro. Un contro giro. Un contro giro ancora. Quasi come fosse un valzer. La pelle si compre in fretta di schiuma bianca e gli occhi sono pronti a chiudersi, per non farsi male.
Senza ombra di dubbio, è un buon sapone quello che sa farsi riconoscere; ignorando la prepotenza del raffreddore. Le guance calde gioiscono del tocco delicato di quelle bollicine. La prima volta che ho sentito un profumo del genere avevo dieci anni. La prima volta che mi sono ritrovata in mano il pacchetto della saponetta, lì per lì non sono riuscita a evitare un’espressione di delusione.
Sesamo indiano. Sarebbe potuto essere anche Chanel n. 5, ma a dieci anni, decisamente, – e dico... decisamente!!! – non ti aspetti di ricevere una saponetta per Natale.
Eppure pareva essere un regalo da dover apprezzare. Una confezione elegante quanto basta, per non far sfigurare il contenuto. E un piccolo bigliettino d’auguri accompagnato da una banconota in lire, dove mi si diceva che con quei soldi avrei potuto acquistare ciò che più desideravo e che quella saponetta era l’unico pensiero di uno zio forse un po’ troppo al di fuori dal mondo femminile (soprattutto da quello delle teenager, o prossime) per riuscire a capire quale sarebbe stato il regalo giusto per una ragazzina come me.
A distanza di 21 anni… il profumo di una saponetta mi riporta al ricordo. Non rammento cosa ho acquistato con la banconota in lire che accompagnava il bigliettino, ma ho ancora memoria di quella saponetta ricevuta in dono. Tanto, da andare a cercarla in un negozio giorni fa. Perché, in prossimità del Natale, mi sono ritrovata a pensarci. Pensare a una saponetta, in prossimità del Natale... che stramberia!
Il punto è che la saponetta è stata un piccolo dono, che però ha saputo rimanere nella mia vita. Un piccolo dono di uno zio che ha provato comunque a metterci il cuore, più che il portafogli. Un piccolo dono che, forse, mi ha portato a pensare – negli anni a venire – che raramente esiste qualcosa di meglio. Meglio dei piccoli doni, intendo.
Viaggio in fretta con i pensieri e mi ritrovo a riflettere sui compleanni passati. Quanti sono i regali che ricordo veramente di aver ricevuto? Bastano le dita di una mano per contarli e non sto qui a elencarli. Tutto il resto? Che fine ha fatto il resto?
Niente. Memoria k.o. Nessun ricordo. La saponetta vince. Vince su tutto, o quasi.
Arrivo a pensare, allora, a che cosa ho scritto nella mia letterina per Babbo Natale.
Libri e/o Cd. Un plurale che non vuole essere di pretesa, ma che vuol piuttosto indicare che – in generale – non ho gusti particolarissimi da dover accontentare.
Nonostante la libreria pienissima, nonostante la musica un po’ ovunque in giro per casa, la mia ‘letterina’ somiglia tantissimo a quella degli anni passati.
Come negli anni passati, capita poi che sotto l’Albero ci sia molto, ma molto di più. Dei regali che apprezzo, ma che – in tutta onestà – non sempre ricordo.
Un libro è diverso. Regalarlo significa regalare la possibilità di trascorrere ore bellissime. Regalarlo significa regalare qualcosa che va al di là del tempo e che, per davvero, potrebbe rimanere in eredità a qualcuno dei miei parenti molto futuri. Un libro sa farsi ricordare ed è un regalo che non passa mai di moda. È quasi certo che non entrerebbe mai nelle mire di eventuali (speriamo di no) furfanti notturni (cosa che invece potrebbe succedere a ben altri oggetti, di ben più alto valore e di più bella figura…) e che, sì, proprio come una saponetta… ogni libro abbia un suo profumo. Qualcosa che, sfogliando le pagine, potrebbe dar vita a un’emozione, che poi – con il passare degli anni, chissà – il cuore potrebbe ritrovarsi a vivere attraverso un ricordo. Tutto questo ragionamento… a partire da una saponetta!

giovedì 18 agosto 2016

Dodici minuti dalle Dodici

Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che, imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta, anche se poi arrivava sempre quel pensiero cattivo a ricordarle che i desideri non si avverano; solo perché gli occhi catturano l’immagine di due numeri gemelli dentro un display. O perché due lancette, una più veloce dell’altra, a un certo punto si ritrovano a segnare lo stesso valore.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che,  imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Lo faceva con la stessa noncuranza con cui, almeno una volta la settimana, entrava in tabaccheria per chiedere un ‘gratta e vinci’. Perché non si può sperare di essere fortunati, se non si è disposti a dare una possibilità – anche più di una – alla fortuna. Anche se poi non le era ancora mai capitato di vincere qualcosa e gli unici soldi che era riuscita a mettere nel portafogli, che non provenissero dal suo stipendio, li aveva effettivamente incontrati per strada, in fondo a una via solitaria, poco lontano da una cicca di sigaretta sporca di rossetto.
Una piccola banconota da cinque euro. Non certo quel che basta per dare una svolta alla vita.
Incontrarla a pochi metri da un bar, con lo stomaco che aveva appena cominciato a brontolare per la fame e con la consapevolezza che l’ora di pranzo fosse ancora abbastanza lontana da non riuscire a resistere fino ad allora, l’aveva convinta che potesse essere il momento giusto per uno spuntino. Cinque euro sono più che sufficienti per un cornetto alla marmellata, per un cappuccino, di quelli con il supplemento di schiuma e di polvere di cacao che non si dimenticava mai di chiedere ovunque fosse, e per un ‘gratta e vinci’ che, a giudicare dall’insegna blu sopra la porta, con molta probabilità avrebbe trovato appesi in lunghe file dietro il bancone.
Ci sono bar che, a una certa ora, riescono a essere più affollati di una piazza in un giorno di mercato e bar che – come quello – preferiscono garantire alla clientela una giusta quiete costante. Erica era felice di essersi imbattuta in un posto del genere. Poté poggiare su una sedia le sue buste degli acquisti, senza che a qualcuno venisse in mente di chiederle un attimo dopo se per caso quella fosse una sedia libera e se, per gentilezza, avrebbe potuto prenderla.
Poté allontanarsi dal tavolo, senza portare con sé il timore che qualcuno avrebbe potuto approfittare della sua assenza per toccare le sue cose o, e non seppe stabilire se sarebbe stato peggio, rubarle il posto. Poté rimanere davanti il bancone delle cose da mangiare per tutto il tempo che reputò necessario, senza per questo sentirsi in imbarazzo davanti al barista. Senza rischiare di essere strattonata da altri affamati; più affamati di lei. E potendo scegliere (senza fretta) effettivamente quello che avrebbe voluto scegliere, scegliendo con gli occhi.
Grazie alla calma del luogo si accorse infatti di essere entrata – sì – per un cornetto alla marmellata e per un cappuccino con tanta schiuma, ma di voler chiedere un panino con prosciutto cotto e maionese e un bicchiere di spremuta d’arancia.
Chiedeva sempre una spremuta d’arancia, anche se poi – il più delle volte – in molti bar si ritrovava costretta a ripiegare sul succo in bottiglietta; che non ha niente a che vedere con il sapore delle arance appena spremute.
L’uomo dietro il bancone impiegò pochissimi secondi a spaccare i tre frutti necessari per riempiere un bicchiere e a Erica parve che l’aria dentro il locale s’impregnasse all’improvviso di quel buon odore di agrumi.
Tornò a sedersi insieme al suo panino e non riuscì a evitare di sorridere imbattendosi nel suo riflesso dentro a uno specchio a muro un po’ segnato dal tempo.
«Ecco a lei». A giudicare dalla pelle delle mani Erica avrebbe detto che quel barista non potesse essere tanto in là con l’età, ma le rughe sul viso tradivano una vita già vissuta per la maggior parte e la luce negli occhi, seppur ancora presente, sembrava essere una di quelle luci non più fresche come quelle che si trovano in gioventù o, comunque, nel buono degli anni.
Quel bar era il bar giusto anche per questo. Segno che i cinque euro trovati per strada non si erano fatti trovare davanti ai suoi piedi per caso. Per la prima volta qualcosa l’aveva spinta ad entrare proprio lì, in quel posto che aveva sempre ignorato. E si era ritrovata ad avere a che fare con una persona sconosciuta, ma che – a pelle – già godeva di tutta la sua fiducia. Una persona che, in qualche modo, la faceva sentire bene.
«Grazie!». Prese il bicchiere dal piccolo vassoio d’acciaio, cercando di nascondere il tremore delle mani che alle volte era in grado di procurarle un disagio. Aveva sentito diversi medici al riguardo e, per fortuna, tutti i controlli fatti avevano portato a credere che non ci fosse nulla fuori posto. Così, visto che le mani continuavano a ballare una danza tutta loro  di tanto in tanto, alla fine ad Erica era stato detto che – con molta probabilità – poteva trattarsi di una reazione emotiva. Reazione a che cosa? Non era dato sapere. Emotivamente parlando, però, Erica avrebbe preferito non dover aggiungere anche quello alla sua lunga lista di ‘difetti’.
«Ha trovato qualcosa di interessante in libreria?». Il barista indicò le buste con un cenno, scostandosi di qualche passo in direzione del bancone. Dei tre libri che Erica aveva appena acquistato, solo di uno era assolutamente sicura e fu quello di cui gli parlò.
«Una bella storia d’amore. Una di quelle con il lieto fine sicuro, qualunque cosa accada in mezzo alle pagine». Sorrise. A ben pensarci, avrebbe potuto approfittare di quella sosta imprevista in quel bar per leggere un po’. Ma non lo fece.
Ignorando l’imbarazzo di parlare guardando dritto negli occhi il suo interlocutore, chiese invece: «A lei piace leggere?». Il bar era tanto bizzarro da non tenere in giro neppure un quotidiano, perciò c’era da credere che il barista avesse qualche tipo di avversione per la parola scritta e che gli avesse fatto quella domanda solo per dimostrarsi cordiale.
Quando Erica lo vide tornare di nuovo dietro il bancone per tirar fuori da un cassetto una vecchia agenda di pelle e una bellissima penna stilografica, non riuscì a evitare di spalancare la bocca per lo stupore.
«Mi piace scrivere, anche se non sono poi così bravo».
«Sta scrivendo qualcosa, adesso?».
Il sorriso del barista lasciava intendere di sì, ma la sua testa rispose comunque muovendosi a destra e a sinistra.
«Peccato. Mi sarebbe piaciuto poter leggere qualcosa scritto da qualcuno che…». Erica interruppe la frase a metà, consapevole che chiuderla con la parola che aveva in mente – ossia ‘conosco’ – non fosse proprio dire la verità. Sarebbe stato più giusto affermare che le sarebbe piaciuto poter leggere qualcosa scritto da una persona cui poter stringere la mano, poi, per congratularsi del lavoro fatto. Questo, sì! Anche se, a ben pensarci, anche in tal caso non era certa che le parole del barista le sarebbero piaciute al punto da congratularsi con lui.
Scelse di rimanere in silenzio, concentrandosi sull’ultimo morso del suo panino.
«Potrebbe tornare qui fra qualche giorno e chiedermi di nuovo se ho qualcosa di finito da farle leggere, sono sicuro che per allora mi sarò fatto venire in mente almeno una piccola storia». Il barista aprì le pagine della sua agenda fino a trovarne una completamente bianca e svitò il tappo della sua stilografica come a lasciar intendere che si sarebbe messo subito all’opera.
Erica non riuscì a evitare di ridere di gusto. Non fosse stato per l’imbarazzo della richiesta, gli avrebbe domandato la possibilità di fare una fotografia insieme. Lei, lui, l’agenda e quella stilografica che poteva considerarsi, senza sbagliare, la fuoriclasse delle penne.
Continuando a tenere il cellulare in tasca, però, preferì alzarsi per raggiungere la cassa e pagare il conto.
Aveva già allungato la banconota da cinque euro oltre il bancone, che si sentì dire: «12 e 12. Esprima un desiderio…». Non era sicura che valesse, così, su comando. Né era sicura che fosse valido esprimere un desiderio in quel caso, per il fatto che non erano stati i suoi occhi a catturare la coincidenza. Ma Erica preferì ubbidire, senza pensarci troppo. Era comunque un’occasione in più, che avrebbe potuto dare a tutto ciò che avrebbe voluto diventasse realtà.
Per i desideri vale un po’ quel che vale per la fortuna. Se non si è disposti a dar loro un’opportunità quando se ne presenta l’occasione, poi non ci si può lamentare del fatto che non si avverino.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che, imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Pensò fosse buffo che anche quel barista custodisse in sé la stessa mania.
Lesse lo scontrino per controllare che fosse vero. Che fossero davvero appena passati dodici minuti dalle dodici.
In quel momento lesse anche un nome… Giuseppe.
«È lei Giuseppe?». Stavolta, la testa dell’uomo si mosse in su e in giù per rispondere di sì.
Erica pensò che un tipo del genere non l’avrebbe certo rintracciato su Facebook. Per questo, si affrettò ad allungare una mano e a presentarsi: «Mi chiamo Erica…». Avrebbe voluto raccontargli del modo bizzarro in cui aveva deciso di entrare in quel bar per la prima volta, ma non lo fece.
Non chiese nemmeno il ‘gratta e vinci’ che aveva immaginato avrebbe chiesto prima di uscire.
Quei cinque euro trovati per strada le avevano appena pagato una delle colazioni più tranquille, buone e insolite della sua vita e le avevano appena regalato la possibilità di esprimere un desiderio. Non poteva chiedere di più.
Forse, la prossima volta che sarebbe tornata a trovarlo, avrebbe potuto giocare una partita con la fortuna. E, magari, Giuseppe le avrebbe fatto trovare una storia scritta ispirandosi a quel loro breve attimo insieme. Magari, Giuseppe avrebbe potuto scrivere un racconto che parlasse dei desideri che si esprimono, quando il tempo è fatto di numeri uguali. Magari, lei avrebbe fatto in tempo a finire il libro di cui gli aveva accennato e avrebbe potuto raccontarglielo con maggiore precisione. Avrebbe potuto chiedere un’altra spremuta, per respirare di nuovo l’odore del frutto fresco nell’aria, o scegliere di farsi venire i baffi bianchi; sorseggiando un cappuccino schiumoso.
Aveva la certezza che sarebbe tornata in quel posto ed era comunque tutto ciò che contava.
Alle 12 e 18 si salutarono con un: «Arrivederci!» detto all’unisono.
Pare che alcuni esprimano desideri anche in situazioni del genere, quando la stessa parola esce da bocche differenti nello stesso momento.
Loro… no! Loro avrebbero aspettato di nuovo di imbattersi in ore e minuti uguali.


martedì 2 agosto 2016

Il mondo attraverso una rete di pasta frolla!

18.30. Una consegna da effettuare. Seduta in macchina, in un parcheggio che si affaccia sulla strada, provo a ingannare il tempo osservando le automobili che passano. Cerco le mie iniziali nelle targhe. Arrivo a contarne sette in meno di cinque minuti e già non ne posso più. Troppe EV in circolazione. Alzo gli occhi e provo a immaginare le questioni di chi è alla guida. Dove staranno andando. Cosa staranno pensando. Da dov’è che sono partiti. Cose così. Mi colpisce un uomo che, tra un’occhiata e l’altra alla strada davanti a sé, sta addentando uno spicchio di pizza. Vorrei poterlo fermare e dirgli che quello spicchio di pizza avrebbe un sapore decisamente più buono, se mangiato altrove. Magari seduto a un tavolino, davanti a un bicchiere di birra. Ma, pare che il mondo stia diventando dei frettolosi; o forse no. Io spero di no, mentre cerco di ignorare la fame che mi è venuta a vedere quella pizza. Alcune macchine dopo… una ragazza, lato passeggero, sbadiglia. Scopro così che lo sbadiglio è contagioso anche da abitacolo ad abitacolo e se ne frega dei finestrini chiusi a sbarramento. Sbadiglio. Bene! Osservando le macchine sono riuscita a guadagnare fame e sonno in meno di un quarto d’ora. Arriva la persona che stavo aspettando. Si scusa per il leggero ritardo e, sorridendo, mi dice che dovrebbe ricompensarmi con una crostata; per la gentilezza e la pazienza. Bellissimo questo mondo, in cui un dolce può essere ancora una soluzione, ma… ha detto per caso la parola crostata?!? Sì! L’ha detta. Il mio stomaco brontola di approvazione, ma è abbastanza silenzioso nel farlo e riesco a non fare una figuraccia. Mai parlare a una persona affamata di cose da mangiare, ma lui non può saperlo. Torno a casa e, mentre cerco di rimanere concentrata sulla guida, mi pare di vedere il mondo attraverso una fitta rete di pasta frolla!

sabato 23 luglio 2016

Ho provato ad aggiustare il tiro...

“Alle volte la vita sbaglia i momenti”. L’ho letto stamattina in un libro e da allora non faccio che pensarci. Un pensiero altrettanto frequente è un pensiero anche bizzarro; in realtà. Non lo so perché, ma la mia mente continua a produrlo da giorni e lo produce in inglese. Spessissimo me lo ritrovo in mezzo al solito caos che ho in testa, che riecheggia come sotto l’effetto di un loop infinito: 
...I’m not a robot!
C’ho messo tantissimo per capirlo ed è curioso ritrovarcisi ad avere a che fare proprio adesso che, forse per la prima volta nella mia vita, ho agito come se per davvero fossi una macchina; come se del mondo fuori non mi importasse abbastanza da cercare di capire e comportarmi di conseguenza.
Forse il mio atteggiamento è il prodotto di questioni masticate a lungo e comunque mal digerite, anche se è una magra consolazione. Forse questa vuole essere una resa dei conti caotica, in cui il misero premio di consolazione e accorgersi di avere tradito un po’ me stessa (quella me stessa che sa non tirarsi indietro, anche se c'è da correre il rischio di farsi male); con la speranza di riuscire ad aggiustare il tiro perché non è ancora tardi. Forse, sono fasulli sia l’uno che l’altro pensiero e la mia pazzia personale è più vicina al limite di quanto a me piaccia credere. Potrebbe essere…
Il punto è questo: l’incapacità di credere. L’incapacità di credere alle persone, che è il blocco peggiore che si possa avere. Con chiunque io mi ritrovi ad avere a che fare, mi accorgo di cercare - prima di ogni altra cosa - segnali possibili di in che modo questo qualcuno vorrà provare a fregarmi.
Una persona entra nella tua vita all’improvviso, lo fa con tutta la gentilezza possibile e  tu, per tutta risposta, le chiudi la porta in faccia senza avere una vera ragione. Vorrei potermi dire soddisfatta del fatto di aver colpito per prima, almeno per una volta. Ma la verità è che – invece – continuo a pensare di aver giocato troppo d’anticipo.
Perché l’ho fatto? Per paura.
Nulla paralizza di più un cuore, seppur desideroso di nuove emozioni, che la paura di soffrire di nuovo.
Non ho mai nascosto le mie ferite. Non per la vanità del sentirsi una sopravvissuta a certe cose. Non ho mai nascosto le mie ferite perché sono alcuni degli ingredienti che appartengono alla complicata ricetta di me. Io sono il risultato di momenti felici, di momenti indimenticabili, di passi fatti in equilibrio precario su un filo, di cadute inaspettate e di ferite. Da oggi mi sento di aggiungere a questo particolare miscuglio anche un pizzico di occasioni mancate. Un ingrediente che scopro di volere ancora meno del dolore, perché… mentre con il dolore sono riuscita a scendere in qualche modo a patti e in tutti i casi (posso dirlo con certezza) è stato in grado di portarmi a qualcosa di buono, un'occasione mancata è la fotografia istantanea di una strada da percorrere, che però non sentirà mai il tocco dei miei piedi.
Cosa si fa quando ci si ritrova ad avere a che fare con un'occasione mancata? 
...Si prova ad aggiustare il tiro.
Divertendomi a tempo perso con arco e frecce, posso assicurare che ce ne sono di belle da fare per riuscire a raggiungere il giallo. E, se anche il risultato non è mai garanzia, è certo che abbandonare non è la soluzione. Così, ho provato a immaginarmi come in una delle sedute di allenamento. Ho preso un respiro, ho allontanato i pensieri negativi, ho cercato di focalizzare quello che avrei voluto ottenere e ho scagliato la mia freccia.
Quando si ferisce qualcuno senza che ce ne abbia dato reale motivo, l’unica cosa possibile da fare – perché un tiro fatto male possa sperare di aggiustarsi – è chiedere scusa.
In un groviglio di parole che non mi è stato possibile dire di persona, ho cercato di spiegare le mie ragioni. Niente da fare.
Così, ora mi ritrovo a dover gestire anche un altro pensiero. Che forse ho agito male, vero. Ma che le cose si sarebbero potute aggiustare con la massima tranquillità, se solo anche dall’altra parte ci fosse stata l’esigenza di aggiustare il tiro allo stesso modo. 
Una cosa che di me non è mai cambiata è proprio questa. L’esigenza di un’emozione che può essere tanto veloce quanto una stella cadente, ma che - necessariamente - deve essere vera.
È stata un’emozione a spaventarmi. Qualcosa che, al di là di ogni mio calcolo, è riuscito a fare un passo in più rispetto alla convinzione che avrei potuto fare tranquillamente a meno di certe cose e il pensiero che avrei preferito non immischiarmi più in faccende umane del genere.
Mi sono ritrovata seduta su una panchina, a parlare più di niente che di qualcosa, a cercare di raccontarmi per quel poco che sono e a sorridere felice; dentro una serata d’estate decisamente inaspettata.
In quel momento ho saputo riconoscere un attimo speciale. Un piccolissimo frammento della normalità che vado cercando, da cui però – subito dopo – ho sentito l’esigenza di difendermi. Di scappare.
Forse ho sbagliato. O, forse, no. Cerco di mettermi nei panni di quest’altra persona e, nel limite di quel poco che ho potuto conoscere, cerco di capire se per caso non abbia esagerato con le parole nei confronti di qualcuno che, magari, era spaventato quanto me. Non saprei. Continuo a provare a mettermi nei panni di quest’altra persona e mi domando perché, semmai, possa essere bastato così poco per lasciar perdere. Provo a mettermi nei panni di quest’altra persona e penso che non sia possibile non accorgersi di come ho provato a sistemare le cose. Torno a mettermi nei miei panni e sento di nuovo quel pensiero in inglese: I’m not a robot! Il che significa che, forse, è proprio perché non sono una macchina che ho agito in questo modo. Perché le macchine non temono di farsi male. Perché le macchine, in nessun modo, provano a farsi capire pure sbagliando. Perché le macchine non hanno cuore. Torno a mettermi nei miei panni e ritrovo quel bisogno di essere protetta, anche se farlo potrebbe significare avere a che fare con un mucchio di spine. Torno a mettermi nei miei panni e ritrovo il desiderio di incontrare qualcuno che, in un mondo pieno di apparenze e di finta perfezione, in un mondo dove sembra sia la regola non lasciarsi coinvolgere dalle cose, sia imperfetto quanto me, magari abbia un lato oscuro difficile quanto il mio, sia il risultato di un miscuglio di ingredienti assurdi da mettere tutti insieme e sappia difendersi chiudendo le porte al mondo, se quel mondo non lo fa sentire al sicuro quanto vorrebbe. Sono porte che si chiudono anche per misurare il coraggio di chi viene a bussare, per vedere quanto sarà in grado di insistere ed aspettare. E si chiudono sempre e solo se c'è stato un pizzico di felicità alla base. Perché solo ciò che è in grado di regalare un'emozione è in grado di far nascere la paura di doverne fare a meno. 
Ho provato a trasformare uno zero in un dieci. Ho provato ad aggiustare il tiro…


lunedì 18 luglio 2016

Una penna incline alla felicità...

Una serata per scrivere. Ritrovarsi insieme in una stanza accogliente. Mondi diversi e sconosciuti tra di loro, che per un po' si cibano della stessa aria. Quaderno e penna con me. La voglia, il bisogno di chiudersi per un po’ in un mondo di parole. Il resto fuori. Una serata per scrivere dedicata alla bellezza e all’importanza dell’incipit. L’incipit. L’inizio. L’inizio è importante in ogni cosa. Da come le cose iniziano, si riesce a intuire gran parte del resto. Il più delle volte. Due fotografie. Una bellissima piazza Grande al tramonto e l’immagine di una coppia sorridente. Felici a colpo d’occhio, le mani abbracciate. Immaginare un'incipit che includa questi elementi. Dare un nome ai personaggi. Scegliere per loro una situazione. Una penna incapace di non considerare un lieto fine. Una penna incline alla felicità... la mia.
Matteo. Alice. Una conoscenza di sei mesi appena. Un amore forte sin da subito. Un amore che se ne frega della prudenza e va dritto per la propria strada...


“Un lunedì sera. Un lunedì sera qualunque, in effetti. La Piazza deserta e il sole pronto per andare a dormire. Una fotografia scattata con gli occhi su quel mondo intorno già silenzioso, che poi non sarebbe più stato lo stesso. Una scalinata lunga che riesce a farsi notare da lontano. Oltrepassare il portone tenendosi mano nella mano. Un passo alla volta. Insieme. Fino in cima. Sempre insieme. Li stavano aspettando...”.

Matteo e Alice. Una conoscenza di sei mesi appena. Un amore forte sin da subito. Un amore che se ne frega della prudenza e va dritto per la propria strada...
“Ci prenderanno per pazzi, lo sai?”
“Sì! Però… dei pazzi felici!”.
Una fine. Un'inizio...
…Una penna incline alla felicità: la mia!

venerdì 27 maggio 2016

Con la tinta sulla testa...

I capelli da sistemare. Colore, taglio. Giusto una 'spuntatina'. L'appuntamento preso all'ultimo momento; stamattina. Chiedo per le 18.30. "Arriva un po' prima, se puoi...". Alle 18 sono lì. C'è una bella folla femminile. C'è una bimba, anche. E' lei a catturare l'attenzione più di tutte. Sposta una sedia per avvicinarla ai divanetti e ci si sistema sopra con le gambe incrociate. Tiene in mano una rivista di cucina. Gli occhi curiosi. Due guanciotte 'attira-baci' leggermente arrossate. Comincia a sfogliare e si ferma appena trova l'immagine di un piatto di spaghetti. Ha la mia stessa espressione di quando ho fame. "Gli spaghetti sono una cosa buonissima", dice in mezzo a mille sorrisi. Sono d'accordo. Dopo una lunga serie di "Questo cos'è?", decide che vorrebbe trovare una pizza tra quelle pagine. Niente da fare, ma anche questa seconda passione culinaria è una cosa che condividiamo. Si alza e prova ad ammazzare la delusione a suon di caramelle. Ne guadagno una anch'io... all'albicocca. Si chiama Maria. 2 anni, quasi 3. Mentre sono seduta con il lavabo alle spalle e la tinta già in testa, immagino quanto potrei essere buffa conciata in quel modo. Lei non se ne cura. Mi guarda seria e dice: "Io e te non abbiamo ancora giocato insieme!". Non sia mai. Passiamo i venti minuti successivi a fare finta che io non mi accorga di lei, mentre si diverte a giocare con la testa della doccia e finisce per bagnarsi le maniche della maglia di cotone. Si intestardisce di voler bere da lì, come fosse una bottiglietta. Ho il compito di impedirglielo. Ha l'espressione furba, di chi se ne frega se qualcosa 'non si fa'. Aspetta comunque che glielo dica ogni volta e, ogni volta, mi regala una risata. Prima di ricominciare daccapo! ;-) <3

sabato 14 maggio 2016

Stelline per un Compleanno!!!

Lo scoccare della mezzanotte. Un 13 Maggio che riesce a cavarsela con un...
...bilancio positivo!!! 
Non so perché, ma è un giorno che temo sempre un po’. Quella paura che qualcosa possa andare storto, che qualcosa di spiacevole, o di difficile da gestire, possa verificarsi 'proprio nell’arco di quelle 24 ore'; che possa accadere: “Proprio oggi, che è il mio compleanno!”. Invece... mi ritrovo a sorridere. Con il pigiama già indosso, dentro l’abbraccio delle coperte ancora pesanti; nonostante manchi poco più di un mese all’estate. È già domani e sono pronta ad addormentarmi con la felicità di essere riuscita a fare qualcosa di ‘insolito’ , con la soddisfazione di aver completato la lettura di un libro che ho praticamente divorato (pur alternando la lettura con quella di altre storie) e con il cuore a mille per il fatto di aver sentito il cellulare notificare più volte degli apprezzamenti su Wattpad!!! :-D
Lo so. Non è molto e potrebbe persino apparire sciocco, da parte mia. Ma ci sono pensieri che mi accompagnano sempre, ogni volta che scrivo. Pensieri che riconosco essere alle volte contrari a ciò che pensa la maggior parte della gente, che prova a confrontarsi con il foglio bianco come faccio io.
“Fallo! Anche dovessi essere solo tu a trarne soddisfazione. 
Fallo! Perché ti piace».
Ecco perché... anche una sola stellina che si accende (chi è almeno un po’ pratico di Wattpad sa di che cosa parlo) è una grande soddisfazione e diventa, nel giorno del mio compleanno, un regalo immateriale e inaspettato. Il motore del terzo pensiero, che - da un po’ di tempo a questa parte - ho imparato a ripetermi come un 'mantra speciale'; insieme ai primi due. 
“Fallo! Perché - in fondo - non puoi sapere se riuscirai a tenere compagnia a qualcuno; con le tue parole. 
Magari, a regalare un sorriso. 
Magari, a regalare un’emozione”.
È tutto qui! Un tutto, che sa di tanto. Un tutto, che riempie di tanto questo giorno speciale.

Un 13 Maggio che si conclude con un... bilancio positivo. 
Per tante ragioni. Per tante cose inaspettate. Per una serie di ‘Grazie!’, che sono felicissima di poter dire! :-D

 ...Grazie, Grazie, Grazie!!!

Li scrivo in verde, il colore della Speranza. Con la speranza che sia un po' vero... che le cose belle sanno farsi seguire da altre cose belle! 
Pure se è verità imprescindibile quello che 'dice' il titolo del libro appena finito. Che... La tristezza ha il sonno leggero. Mi addormento con la voglia di crederci un po'. Di credere ai momenti leggeri. Di credere i sogni. Con la voglia di dare a entrambi più possibilità, di quanto abbia fatto finora. Che, poi, non si sa mai...
Mi addormento insieme a un bellissimo "Chissà..."; 
che è forse il regalo più bello che potessi farmi...
...nel giorno del Mio Compleanno! :-D 
Alla prossima! ;-)

sabato 30 aprile 2016

Lungo una strada conosciuta...

Una po’ di tempo per me. L’idea di andare a fare una passeggiata insieme a Mat. Quella di percorrere una strada conosciuta, ma sempre speciale. Pensieri zero.
Mi accorgo di avere l’attenzione catturata da qualcosa. I rumori intorno. L’originale mescolarsi tra di loro. Mi ritrovo a cercare di carpire l’esistenza - o meno - di un certo ritmo; di una certa sequenza. Il rumore dei miei passi sulla strada sterrata. Il rumore delle sue zampe sullo stesso tragitto. Il rumore del mio respiro, a tratti affaticato. Il rumore del suo, anch’esso spesso più pesante del normale. Il rumore delle foglie mosse dal vento. Quello della sua medaglietta al collo. Tintinnio leggero, ma costante, a testimonianza sonora della sua esuberanza canina. Lo scorrere dell’acqua, in lontananza. Un concerto inedito, unico e irripetibile.
A un certo punto, una curva.
È lì, appena dietro l’angolo. Lo sguardo cattura l’istante e, anche se gli occhi hanno già visto ciò che stanno ammirando, scattano comunque una nuova fotografia per il cuore.
Quel posto sa di essere speciale. Sa di essere emozione pura per molti. Sa che potrebbero essere non frequenti gli incontri, ma non per questo capita di trovarlo non all’altezza delle aspettative.



È un posto paziente. Sa aspettare il momento in cui c’è bisogno di lui, perché l’animo possa rasserenarsi di più. È un luogo immerso in un’atmosfera speciale, che è quasi magia.
Respiro a pieni polmoni. chiudo gli occhi per un istante, prima di riprendere a camminare.
Poco più in là c’è un pezzo di prato. Distesa su una panca di legno, cerco di immortalare una porzione di cielo.


Un nuovo sbuffo di vento. Mi ritrovo a seguire con lo sguardo il volo leggero di qualcosa che non riconosco immediatamente. È il seme di un dandelion; o soffione.
Se escludo le volte in cui li ho liberati in aria con un soffio, dopo aver espresso un desiderio, penso di poter dire che questa sia la prima occasione che ho di incontrarne uno solitario.
Continuo a fissarlo e mi sorprendo a scoprire quanto sia vero, che sembra stia danzando. Il rumore delle foglie mosse dal vento. Quello dell’acqua che scorre. Un seme di dandelion danzante.
A proposito d’acqua, comincia a piovere. Poche gocce, che lasciano traccia immediata di loro sulla pietra. È ora di andare.
Chiedo in silenzio alle nuvole che aspettino ancora un po’, prima di mettersi a piangere per bene.
La strada a ritroso sembra più breve.
A poche decine di metri da casa, mi accorgo di essere stata una sorta di taxi per un piccolo ospite. Un piccolo bruco verde. Chissà cosa l’ha spinto ad aggregarsi. Certo dovrà aspettare di essere farfalla, per poter tornare dov’era. O, forse, non vi tornerà affatto.
Lo lascio libero su un filo d’erba, non prima di aver scattato una fotografia.


Mat si accorge e richiede attenzioni tutte per sé.


Gli prometto di replicare presto momenti come questo, ma adesso è tempo di muoversi.
Sull’asfalto, che rimane in silenzio sotto di noi, a un certo punto incontriamo Pepe.
È uno yorkshire impavido. Si avvicina al naso di Mat e pretende un incontro, occhi negli occhi. Si allontana di nuovo. Abbaia più volte, forse offeso dal fatto di non aver ricevuto chissà quale reazione. Non gli importa la differenza di stazza, né che Mat continui a guardalo con noncuranza evidente. Lui continua ad abbaiare.

Non ci rimane che allontanarci in fretta e riprendere, lesti, il cammino. Pochi passi ancora…

sabato 23 aprile 2016

In un sabato mattina qualunque

Un sabato che comincia e prosegue a rilento. Colpa di un mal di gola che non mi da tregua da ieri sera. Quelle infezioni fastidiose, pur non eccessivamente debilitanti, che si manifestano appena hanno il sentore di fine settimana in avvicinamento. Ho la sensazione che proprio adesso si stia tenendo un rave party di formiche sopra la mia faringe.
Rimango comunque dell’idea di sbrigare l’unica incombenza vera della giornata e, già che ci sono, vorrei passare in  libreria. Oggi è la giornata mondiale del libro.
Sono le dieci quando riesco a tirarmi fuori dal letto e scendere in cucina per la colazione. Il progetto di ritornare a scrivere di mattina presto se ne va a farsi benedire per l’ennesima volta.
Un’ora e venti più tardi sono già in fila all’ufficio postale; un’altra delle cose che sarebbe bene sbrigare prima delle nove.
Prendo il numero riservato ai contocorrentisti. Dovrebbe garantire una velocità di scorrimento maggiore, almeno in teoria. Ma dubito che serviranno meno di trenta minuti per far sì che le undici persone che ho davanti si tolgano di mezzo.
Sono il 51. Stanno servendo il 39.
Un signore entrato subito dopo di me sbuffa, ancor prima di vedere il piazzamento del suo turno, perché l’ufficio è decisamente affollato.
Ok! Pazienza. Se non riesco ad andare in libreria entro la mattinata, vorrà dire che ci tornerò nel pomeriggio. È la giornata mondiale del libro, non si può non acquistare nulla per l’occasione.
Osservo lo scorrimento dei numeri sul grande display appeso al muro, con lo stesso interesse con cui mi ritrovo a leggere le notizie che scorrono su uno schermo tv poco lontano. Dovessero interrogarmi in merito all’una o all’altra cosa, in entrambi i casi non saprei cosa rispondere.
Riesco a ristabilire la giusta attenzione nel momento in cui i numeri sembrano impazzire all’improvviso e saltano in fretta dal 41 al 46. Quei piccoli miracoli inaspettati, che possono accadere all’ufficio postale se qualcuno decide di non poter aspettare più di qualche minuto per poter essere servito. Certo che sei persone che abbandonano il tentativo non sono poche...
Buon per me!
Per me e per la signora seduta più avanti, che un attimo prima già si stava lamentando di dover ancora andare al supermercato a fare la spesa per il pranzo ed ora è davanti all’addetto per poter pagare dei bollettini in scadenza.
Anche la donna seduta accanto non scherza, in quanto a entusiasmo improvvisamente ritrovato.
Stringe in mano due biglietti e ha l’aria di chi sta controllando le estrazioni del lotto alla tv, per vedere se ha vinto.
È un testa a testa tra i numeri dei correntisti e quelli generici per i bollettini. Da una parte il 47, aspettando il 48. Dall’altra il 73, aspettando il 74. Scatta prima il 48.
Sorrido mentre la osservo che si alza in piedi per far capire di esserci e sento le labbra incresparsi ancora di più quando la vedo regalare il suo 74 al ragazzo seduto accanto a lei. Lui stringeva in mano l’85. Quando si dice un colpo di fortuna di massa!
Il 49 è di nuovo mancante. Il 50 è sbrigativo. Arrivato finalmente il mio turno, decido di dare una mano anch’io al prossimo scegliendo di non bloccare la fila per compilare il modulo per un bonifico. L’ultima volta che mi è capitato di doverne fare uno, l’addetto allo sportello ha preferito approfittarne per riposarsi un po’. Scelte.
Il signore dietro di me mi sorride. A mezzogiorno siamo entrambi fuori di lì.
C’è un movimento discreto di gente anche in libreria. Mi piace pensare che siamo lì tutti per la stessa ragione, ma rimane una supposizione non verificata.
Mi piazzo davanti allo scaffale delle novità e rimango a fissare le copertine, fino a che non trovo qualcosa in grado di colpirmi. È strano dover fare i conti con un imbarazzo della scelta che non dipende tanto dal fatto di non trovare qualcosa che sia affine ai gusti, quanto al non sapere a che cosa dare la precedenza.
Leggo la quarta di copertina di tre libri che trovo tutti interessanti e, anche se vorrei stabilire in maniera oculata quale portare fino alla cassa con me, alla fine lascio che sia l’istinto a guidarmi. Una volta tanto…


Un giro per gli altri scaffali, trovo anche ‘lui’...



La prima volta che mi ci sono imbattuta, leggendo commenti entusiasti su Facebook, mi sono trattenuta dall’acquistarlo immediatamente on-line. La seconda volta è stato un faccia a faccia al supermercato. Non l’ho messo nel carrello insieme ai cereali, agli yogurt e ad altre cose, un po’ perché andavo di fretta e un po’ perché… custodivo l’idea di conservare quell’acquisto per un’occasione speciale. Oggi non avevo più scuse per rimandare ancora.
Ho la sensazione che entrambi i libri saranno in grado di regalarmi qualcosa di speciale. Non capita sempre, pur trattandosi di buone letture.
Mentre torno a casa, con i miei acquisti sistemati dentro una busta di carta, mi ritrovo a domandarmi se per caso si trovino bene l’uno accanto all’altro. Il pensiero folle di un secondo, che è però ragione di un nuovo sorriso divertito.
Arrivo al parcheggio sotto un cielo grigio, che più grigio non si può. È una fortuna che il tempo abbia retto, nonostante sia da una settimana che tutti vanno dicendo quanto pioverà questo weekend.
Entro in macchina e mi lascio avvolgere dall’odore di pane fresco. Avevo dimenticato di essere passata al forno, prima di ogni altra cosa.
In fondo alla strada, ferma allo stop, le prime gocce cominciano a colpire il vetro. È il tempo ideale per un pranzo veloce, per una tazza di tè e per una nuova storia da leggere sotto le coperte. Mentre le formiche continuano con il loro rave… ;-)

Alla prossima!

sabato 27 febbraio 2016

Resilienza... Empatia...

Resilienza. Una delle parole che sto imparando a conoscere. Un significato ampio, difficile da racchiudere in poche righe. Una parola che, per come viene adoperata adesso, mi ha portato a riflettere su un’altra. Empatia. Altrettanto ampia, altrettanto complessa. Non tocca certo a me disquisire in merito. Non in maniera approfondita, almeno. Solo un pensiero. Resilienza è un termine utilizzato, oggi, non tanto per indicare la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi, quanto per definire, psicologicamente parlando, la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Riporto testualmente le parole trovate a seguito di una rapida ricerca Google. Ecco. Se solo tra individui ci fosse una maggior propensione all’empatia, capacità di porsi in maniera immediata nello stato d'animo o nella situazione di un'altra persona, immagino sarebbe molto meno necessario essere resilienti. Immagino.

domenica 14 febbraio 2016

Io & "Cento giorni di felicità"

Wikipedia recita: “Cento giorni di felicità è il primo romanzo di Fausto Brizzi, il quinto libro che ha pubblicato considerando anche i romanzi che ha tratto dai suoi film”.
Per quello che mi riguarda, è il primo libro di Brizzi letto.
Lo so. Sono una ritardataria. E lo sono con tutta la consapevolezza di esserlo, non solo perché non ho idea di come siano strutturati i quattro libri che hanno preceduto questo capolavoro, ma soprattutto perché mi sono ritrovata a iniziare la lettura di questo quinto appena qualche settimana fa.
L’anno di pubblicazione è il 2013. Certo, devo ammettere di non aver avuto un approccio nemmeno lontanamente tempestivo. Anche nel riparare al fatto di non aver mai letto prima qualcosa di suo, ho avuto i miei bei lunghi tempi da superare.
Una cosa da tenere in considerazione, però, c’è. O, almeno, io spero che ci sia e che riesca a giustificarmi un po’. Cento giorni di felicità di Fausto Brizzi è un libro che risiede sul primo scaffale della mia libreria dà più di 730 giorni (alias due anni); ormai.
L’ho acquistato con lo stesso spirito ottimista con cui ogni volta entro in libreria. Senza considerare mai la mole di parole che a casa mi accoglie ogni sera e in ogni momento libero e con l’allegra convinzione che, stavolta è la volta buona!, sarebbe stato diverso. Eh! Si dice sempre così.
Da lettrice appassionata quale ritengo di essere, nonostante altri impegni non mi consentano sempre di esserlo esattamente come e quanto vorrei, sapere che in un dato momento, di un certo anno, c’è un libro sulla cresta dell’onda, è come per le api sapere che, a pochi metri di distanza dall’alveare, c’è un prato fiorito e ricco di nettare.
Insomma, le buone intenzioni iniziali c’erano tutte. Peccato, poi, che siano arrivati subito altri pensieri a dare il via alla procrastinazione. Una parola che, permettetemi di fare un inciso, comincio a odiare in maniera quasi viscerale.
Mentre sul web continuavo a interessarmi a qualunque cosa riguardasse questi ‘Cento giorni’, ho cominciato a temere che potesse non essere una lettura adatta a me. Certa di non svelare nulla a chi sta leggendo, la scrivo esattamente come l’ho pensata: “Lucio Battistini ha il cancro e questo cancro lo sta per uccidere. Poco importa che lui lo chiami ‘Amico Fritz’, sempre di cancro si sta parlando. Vuoi veramente leggere un libro che racconta la storia di un malato di cancro? Come andrà a finire per il tuo stomaco? E come la mettiamo, poi, con la gastrite nervosa?”. Considerando che reggo a malapena le notizie di un telegiornale e che non di rado, perdonate l’ammissione di inadeguatezza a questo mondo, mi ritrovo a girare canale per non dover sentire, un tot considerevole di pagine che, per forza di cose, mi costringerebbe a entrare in empatia con un morituro (aggettivo calzante, utilizzato dallo stesso Battistini in riferimento a se stesso) potrebbe non essere una buona idea.
La prima volta che l’ho incontrato in libreria, l’ho sfogliato per un po’ e l’ho rimesso a posto sullo scaffale. Tra le libertà di un lettore c’è quella di scegliere. Sceglievo di non affrontare. Anche se una frase sul retro della copertina è comunque riuscita a rimanermi addosso: “L’unico rimpianto è aver dovuto scoprire di morire, per cominciare a vivere”.
Una settimana dopo, a seguito di nuovi incontri casuali con citazioni dalla storia, sono tornata in libreria e l’ho acquistato. Avessi trovato anche il coraggio di aprirlo, questo Post sarei riuscita a scriverlo nel già lontano 2013.
No! ‘Cento giorni’ è rimasto a fissarmi nella mia quotidianità, sopportando con pazienza l’attenzione data ad altri volumi, per un tempo che risulterebbe insopportabile per qualsiasi essere umano.
Come ha fatto a convincermi che fosse giunto il momento di un tête-à-tête? Tirando in ballo uno dei diritti di un libro: quello di essere letto!
“Almeno provaci! Se proprio non ci riesci, vorrà dire che farai un passo indietro e lo lascerai perdere”. È un mantra personale, che da un po’ di tempo a questa parte accompagna le mie giornate. Poche parole, che mi spronano a entrare in azione.
Potrei dirvi che il resto di questa particolare ‘amicizia’ è facilmente immaginabile, ma lasciate comunque che ve lo racconti. Cercherò di essere breve.
A un ritmo di venticinque-trenta pagine per sera (peccato non riuscire a resistere al sonno un po’ di più e avere la sveglia che suona la mattina sempre troppo presto), ‘Cento giorni’ è riuscito a tenermi compagnia per due settimane circa. Un libro che è un countdown carico di vita, contrariamente a quanto si possa pensare. Un insegnamento a ogni riga. Leggerezza, nello scrivere di una ‘questione’ seria. Un’esplosione di emozioni. Come un fuoco d’artificio di mille colori. Ho sorriso, ho riso di gusto, ho sentito le parole lette rimanere attaccate ai pensieri e non volersene andare, non sono mancate le strette allo stomaco che immaginavo avrei dovuto affrontare. Con una maestria narrativa non facile da trovare, Brizzi ha saputo sorprendermi. E quel libro tanto temuto, acquistato per poi essere ignorato per tantissimo tempo, ha saputo diventare esperienza indimenticabile. Ho sofferto. Come se Lucio fosse un amico vero, come se Lucio fosse uno di famiglia. Ho sperato fino alla fine di leggere un ‘ho sconfitto il male’, ma niente da fare. Del resto, Lucio lo aveva anticipato già alle prime pagine: “Era una domenica inutile e tropicale, durante la quale non successe niente degno di nota. Se escludiamo il fatto che alle 13.27 circa ho preso un bel respiro e sono morto”. Ho sperato comunque in un colpo di scena. Ho sperato si fosse trattato di una bugia, detta per stupire sul  finale con effetti speciali.
Invece, no! Lucio è morto per davvero.
Allora ho pianto, fino a farmi venire il singhiozzo. Ho faticato a razionalizzare il fatto di stare solo leggendo un libro. Lo stomaco mi ha torturata.
L’attimo dopo è stato semplicissimo pensare a quel libro, come a un buonissimo libro. Raro. Come sono rari quelli che sanno scuotere fin nel profondo dell’anima.
Una volta chiuso per non riaprirlo, l’ho rimesso al posto che aveva sul primo scaffale della libreria. L’ho guardato per la prima volta, senza temerlo più. Ero già pronta ad afferrare la lettura successiva quando, mentre con la mente mi stavo imponendo di scegliere un lieto fine, mi sono ritrovata a domandarmi: “Sono proprio sicura, sicura, che ‘lui’ non ce lo abbia avuto?”.
Ok. Lucio è morto, su questo non si discute. Ma rimane vero anche che Lucio è riuscito a vivere i suoi ultimi ‘Cento giorni’ dando loro un senso. Facendoli diventare: “Cento giorni di felicità”.
Mi ricordo allora di quella pagina che ho contrassegnato con un’orecchietta, per non perderla di vista (lo so, atteggiamento atroce nei confronti di un libro). Riprendo il libro. Lo riapro.
“Quanti sono i giorni che ricordate bene della vostra vita? Quelli speciali che potreste raccontare anche a tanti anni di distanza. E quanti sono invece quelli  normali in cui non accade niente degno di nota e che scivolano via anonimi? I secondi sono molti di più. Mi accorgo che ricordo soltanto un centinaio di giornate memorabili, a fronte di oltre 14.000 invisibili. Esco dall’ospedale con un pensiero fisso. Voglio che oggi sia un giorno da mettere al fianco dei tre che vi ho raccontato all’inizio di questa storia. […] È stato un campanello d’allarme sovrannaturale: «Ehi Lucio, tu credi di dominare il tuo destino e di avere ancora quaranta giorni di vita, ma non è detto che sarà così».


Procrastinazione. Ho detto di odiare questa parola (e il concetto che rappresenta) in maniera quasi viscerale. Ora mi accorgo che è per una ragione ben precisa. Per quel ‘non è detto che sarà così’. 

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Vivere, prima di morire. :-D