"Vale, ma... a te piacerebbe cenare qui per un primo appuntamento?".
Smetto di masticare e mi blocco per ascoltare la risposta. All'inizio stento a capire il senso della domanda.
Silenzio.
Con la coda dell'occhio riesco a vedere il tavolo vicino. Una botte con sopra un disco di legno marrone scuro, per l'esattezza.
Sono in tre. Due ragazzi e una ragazza. Intuisco possa trattarsi, allora, di una richiesta di aiuto.
"Preferiresti una cena a base di pesce?". Arriccio le labbra, in una smorfia istintiva di disappunto. Tra hamburger e patatine e un piatto al sapore di mare... hamburger e patatine tutta la vita. Io. Tra un pub in stile irlandese e un ristorante con le salviettine al profumo di limone... pub tutta la vita. Io.
Vale continua a tacere. Forse non conosce la ragazza in questione e, per questo, le riesce difficile consigliare. Per me sarebbe troppo complicato e insolito intervenire.
"Di quelli sul lungomare, quale sarebbe - secondo te - lo chalet migliore?".
La cena a base di pesce immagino stia vincendo. Mi domando il perché.
Guardo il mio bicchiere di birra ancora pieno, le olive ascolane appena arrivate e caldissime. Ascolto la musica alle casse.
Mah, sì! Una cena in un pub sul lungomare sarebbe persino qualcosa di originale.
Io: pub tutta la vita.
Loro: preferiscono mettersi a parlare del liceo che sta per ricominciare.
Il primo appuntamento può aspettare.
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mercoledì 23 agosto 2017
Il primo appuntamento può aspettare
domenica 6 agosto 2017
Maciste in giardino
Con Maciste ci siamo
incontrati in maggio; al supermercato. Io, con il carrello cigolante davanti a
me e una piccola fatica dipinta in faccia per farlo camminare. Lui,
silenziosamente sistemato sullo scaffale insieme ad altri amici. Ripensandoci ora, ricordo ancora alla perfezione cos’è
stato a farmi avvicinare a lui. Nonostante il musino simpatico, gli occhiali
sopra il naso che me lo facevano sentire somigliante e i guantoni da pugile
addosso che me lo facevano avvertire - in un certo senso - familiare, l’ho afferrato per poterne
scoprire di più alla vista di una piccola fascettina bianca sul davanti che
dichiarava: “Finalista seconda edizione Premio Strega Ragazzi e Ragazze – Categoria
6-10 anni”.
Ecco. Lo so cosa potreste pensare,
ora. Categoria 6-10 anni, non è di certo la storia adatta ad una lettrice come
me. Eppure, ho deliberatamente ignorato la vocina nella testa che mi diceva che
tra meno di tre giorni ne avrei compiuti trentadue e l’ho afferrato con
decisione per la copertina. Stringendolo in mano, ho cominciato ad immaginare
che sarei entrata nella vita avventurosa di quell’animaletto simpatico che non
smetteva di sorridermi e mi sono ritrovata immediatamente a credere che Maciste
– che, non lo avevo ancora detto, è una talpa – sarebbe stato in grado di farmi
ridere a crepapelle con le sue faccende più o meno quotidiane e con quello che,
pensavo, avrebbe potuto combinare vattelapesca dove e a discapito di vattelapesca
chi.
E chissenefrega se la storia non
era stata scritta per una come me. Indirizzando lo sguardo verso i romanzi per
adulti esposti sugli scaffali più in alto, nessuno sembrava fare al caso mio in
quel momento. Niente sembrava tanto
adeguato a me, quanto Maciste.
Ho infilato il libro nel
carrello, stando attento a tenerlo lontano dai pomodori, senza nemmeno leggere
la quarta di copertina. Mentre il retro recitava: “Era stato papà a dare quel nome alla talpa: Maciste. Maciste era un
personaggio di una serie di film in costume, grande e grosso che spaccava
tutto”. Avevo già l’impressione di sentire l’eco delle mie risate, perché
convintissima che ‘Maciste la talpa’ me ne avrebbe fatte vedere delle belle.
Solo una volta arrivata a casa,
con un po’ di tempo a disposizione prima di mettermi a preparare la cena da
portare a tavola, ho scoperto che non sarebbe stato così.
La storia della talpa Maciste mi
avrebbe raccontato, più che altro, come andarono i giorni prima della sua
cattura e della sua espulsione dal giardino di Nico e dei suoi genitori.
La voce narrante sarebbe stata
quella di Nico, che già in quarta di copertina annunciava: “Conobbi Gino Bandiera nel 1967, e il ricordo più vivido di quei giorni
è la caccia alla talpa. Da una parte c’era lei: una talpa enorme che chiamavamo
Maciste, dall’altra parte c’eravamo io e Gino Bandiera, ex campione dei pesi
massimi, detto il Gigante”.
Ho sentito il mio immaginario
spegnere all’istante l’eco che sarebbe dovuto essere delle mie risate e per un
attimo, devo ammetterlo, ho sentito crescere la delusione. Mi sono tornate alla
mente le parole dette da un professore di scrittura creativa, un po’ di tempo
fa: “Le fascette addosso ai libri sono fatte apposta. Attirano il lettore
ancora prima della copertina e, alle volte, sono studiate apposta per poter
convincere all’acquisto”. Ho fissato la fascetta del mio ‘acquisto’ per capire
se, in qualche maniera, potesse essere stata ‘lei’ la responsabile del mio
impulso a comprare: “Finalista seconda edizione Premio Strega Ragazzi e Ragazze – Categoria
6-10 anni”. Non sembrava ci fosse traccia di inganno in quelle parole,
o di un tentativo di raggiro. Se quella storia, la storia della talpa Maciste,
era per davvero riuscita a guadagnarsi un posto da finalista nella seconda
edizione di un importante premio letterario, doveva esserci un perché. Mi
sentii acquistare nuovamente fiducia nei confronti di quelle pagine ancora
tutte da leggere e sprofondai nel divano per immergermi immediatamente nella
lettura. Quel libro mi stava chiedendo di far tornare, almeno per un po’, la
bambina di diversi anni fa. Ignorai la vocina nella testa che non voleva
proprio saperne di smetterla di ricordarmi che tra meno di due giorni avrei
potuto soffiare su trentadue candeline e feci una rapidissima sottrazione di
ventisei. Se proprio dovevo affrontare quelle parole con occhi diversi e con
spirito adeguato, volevo che il mio spirito fosse il più giovane possibile. Tornai
a 6 anni. Perfetta per la categoria!
Fu facile e abbastanza veloce
arrivare alla fine di quel libro. Non ho trovato il rumore di tante risate, ma
sono riuscita a trovare il calore di una storia ben scritta e la bellezza di
una voce narrante che non mi aspettavo. Non posso dire di aver conosciuto
Maciste, per come immaginavo che avrei potuto farlo. In compenso, però, ho
trovato Nico. Ho trovato il suo modo di raccontare e di parlarmi di Gino
Bandiera e di quel suo simpatico modo d’essere un ex pugile ed un ex circense,
che la vita aveva poi portato a diventare un cacciatore di talpe. Insieme a
Nico, ho scoperto la bellezza del racconto di cose passate ed è stato un po’
come poter essere lì di persona, a scambiare quattro chiacchiere davanti a un
bicchiere di limonata.
È stato piacevole, nonostante
tutto. È stato un incontro avvenuto per caso, che ha saputo regalarmi tanto.
Quando poi mi sono imbattuta nella nota dell’Autore, ho scoperto che quella di
Maciste era stata una storia fortunata… perché colma di ispirazioni reali. Ho
conosciuto Maciste al supermercato, in un normalissimo pomeriggio di maggio. Ho
conosciuto Guido Quarzo alla stessa maniera. Quegli incontri casuali che
piacciono a me. Sono convinta che mi ritroverò a parlarne ancora. Grazie a un
piccolo musino di talpa che mi ha catturato, facendomi ignorare libri più
adatti. Grazie ad una piccola fascetta bianca che… diceva il vero!
Alla prossima!!!
domenica 23 luglio 2017
Scritture al tavolino di un bar
Domenica pomeriggio. Caldissimo.
I tavolini di un bar. Una penna in movimento. La meraviglia della scena. La perfezione di quella scrittura.
Sorrido, mentre oltrepasso la porta per chiedere una bottiglietta d'acqua.
Ci penso un po'. Rimango lì a fissare. Mi decido. Scatto una foto.
giovedì 2 marzo 2017
Quei rami così ben pettinati!
Una strada ormai declassata a 'seconda scelta'. In macchina, lato passeggero, verso un piccolo ufficio postale. Guardo in giro, come sempre quando non guido. Poche case. Macchine in movimento quasi zero. Non posso dire che mi dispiaccia, ma l'interesse vero si accende solo quando gli occhi incontrano delle piccole piante d'ulivo. Ovunque mi trovi, di qualunque ulivo si tratti, una pianta del genere sa sempre di 'casa'. Sorrido, pensando che gli esemplari che ho davanti sono bellissimi e... potati benissimo. Non avessi mai preso in mano un paio di forbicioni e non mi fossi mai accostata a dei rami per capire quali dei tanti fossero i superflui, forse non ci avrei fatto neppure caso. Oppure, la bellezza di una pianta che è 'appena stata dal parrucchiere' è talmente evidente da non poter proprio passare inosservata. Torno a casa la sera e trovo acconciati anche alcuni degli ulivi di famiglia. Fermo la macchina per un po' e rimango con i fari addosso ai primi grovigli di foglie che incontro. Sono piante vecchie. Anziane, direi addirittura. Ma la bellezza di un'ulivo ben potato è un fascino che non conosce età.
martedì 13 dicembre 2016
A partire da... una saponetta!
Tantissimi i modi attraverso i
quali un ricordo può scegliere di arrivare dritto al cuore. Alcuni comuni,
altri meno. Altri ancora che, decisamente, non ti aspetti. Il bagno pieno del vapore
caldo della doccia. Lo specchio che non è più in grado di restituire un’immagine
veritiera. Il freddo nelle ossa che non smette di farsi sentire e sembra voler
chiedere di sistemarsi alla svelta sotto il raggio dell’acqua bollente. Una
prima passata di shampoo. Una seconda. Poi, la scelta di strofinare il viso con
vigore. Non con il solito sapone in gel, però. C’è una saponetta praticamente
nuova poco lontano dal flacone di sempre e sembra avere tutta l’intensione di
rendersi utile. È grande. Ovale. Pesante. Non una saponetta comune. I palmi
delle mani, nonostante la collaborazione delle dieci dita, sembrano far fatica
a gestirla. Un giro. Un altro. Un contro giro. Un contro giro ancora. Quasi come
fosse un valzer. La pelle si compre in fretta di schiuma bianca e gli occhi
sono pronti a chiudersi, per non farsi male.
Senza ombra di dubbio, è un buon
sapone quello che sa farsi riconoscere; ignorando la prepotenza del
raffreddore. Le guance calde gioiscono del tocco delicato di quelle bollicine. La
prima volta che ho sentito un profumo del genere avevo dieci anni. La prima
volta che mi sono ritrovata in mano il pacchetto della saponetta, lì per lì non
sono riuscita a evitare un’espressione di delusione.
Sesamo indiano. Sarebbe potuto
essere anche Chanel n. 5, ma a dieci anni, decisamente, – e dico... decisamente!!! –
non ti aspetti di ricevere una saponetta per Natale.
Eppure pareva essere un regalo da
dover apprezzare. Una confezione elegante quanto basta, per non far sfigurare
il contenuto. E un piccolo bigliettino d’auguri accompagnato da una banconota
in lire, dove mi si diceva che con quei soldi avrei potuto acquistare ciò che
più desideravo e che quella saponetta era l’unico pensiero di uno zio forse un po’
troppo al di fuori dal mondo femminile (soprattutto da quello delle teenager, o
prossime) per riuscire a capire quale sarebbe stato il regalo giusto per una
ragazzina come me.
A distanza di 21 anni… il profumo
di una saponetta mi riporta al ricordo. Non rammento cosa ho acquistato con la
banconota in lire che accompagnava il bigliettino, ma ho ancora memoria di
quella saponetta ricevuta in dono. Tanto, da andare a cercarla in un negozio
giorni fa. Perché, in prossimità del Natale, mi sono ritrovata a pensarci. Pensare
a una saponetta, in prossimità del Natale... che stramberia!
Il punto è che la saponetta è
stata un piccolo dono, che però ha saputo rimanere nella mia vita. Un piccolo
dono di uno zio che ha provato comunque a metterci il cuore, più che il
portafogli. Un piccolo dono che, forse, mi ha portato a pensare – negli anni a
venire – che raramente esiste qualcosa di meglio. Meglio dei piccoli doni, intendo.
Viaggio in fretta con i pensieri
e mi ritrovo a riflettere sui compleanni passati. Quanti sono i regali che
ricordo veramente di aver ricevuto? Bastano le dita di una mano per contarli e
non sto qui a elencarli. Tutto il resto? Che fine ha fatto il resto?
Niente. Memoria k.o. Nessun
ricordo. La saponetta vince. Vince su tutto, o quasi.
Arrivo a pensare, allora, a che
cosa ho scritto nella mia letterina per Babbo Natale.
Libri e/o Cd. Un plurale che non
vuole essere di pretesa, ma che vuol piuttosto indicare che – in generale – non
ho gusti particolarissimi da dover accontentare.
Nonostante la libreria
pienissima, nonostante la musica un po’ ovunque in giro per casa, la mia ‘letterina’
somiglia tantissimo a quella degli anni passati.
Come negli anni passati, capita
poi che sotto l’Albero ci sia molto, ma molto di più. Dei regali che apprezzo,
ma che – in tutta onestà – non sempre ricordo.
Un libro è diverso. Regalarlo
significa regalare la possibilità di trascorrere ore bellissime. Regalarlo significa
regalare qualcosa che va al di là del tempo e che, per davvero, potrebbe
rimanere in eredità a qualcuno dei miei parenti molto futuri. Un libro sa farsi
ricordare ed è un regalo che non passa mai di moda. È quasi certo che non
entrerebbe mai nelle mire di eventuali (speriamo di no) furfanti notturni (cosa
che invece potrebbe succedere a ben altri oggetti, di ben più alto valore e di
più bella figura…) e che, sì, proprio come una saponetta… ogni libro abbia un
suo profumo. Qualcosa che, sfogliando le pagine, potrebbe dar vita a un’emozione,
che poi – con il passare degli anni, chissà – il cuore potrebbe ritrovarsi a vivere attraverso un ricordo. Tutto questo ragionamento… a partire da una saponetta!
giovedì 18 agosto 2016
Dodici minuti dalle Dodici
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che,
imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta, anche se poi
arrivava sempre quel pensiero cattivo a ricordarle che i desideri non si
avverano; solo perché gli occhi catturano l’immagine di due numeri gemelli
dentro un display. O perché due lancette, una più veloce dell’altra, a un certo
punto si ritrovano a segnare lo stesso valore.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che, imbattendosi in un orologio, le capitava di
trovare ore e minuti uguali.
Lo faceva con la stessa noncuranza con cui, almeno una volta la
settimana, entrava in tabaccheria per chiedere un ‘gratta e vinci’. Perché non
si può sperare di essere fortunati, se non si è disposti a dare una possibilità
– anche più di una – alla fortuna. Anche se poi non le era ancora mai capitato
di vincere qualcosa e gli unici soldi che era riuscita a mettere nel portafogli,
che non provenissero dal suo stipendio, li aveva effettivamente incontrati per
strada, in fondo a una via solitaria, poco lontano da una cicca di sigaretta
sporca di rossetto.
Una piccola banconota da cinque euro. Non certo quel che basta per
dare una svolta alla vita.
Incontrarla a pochi metri da un bar, con lo stomaco che aveva appena
cominciato a brontolare per la fame e con la consapevolezza che l’ora di pranzo
fosse ancora abbastanza lontana da non riuscire a resistere fino ad allora,
l’aveva convinta che potesse essere il momento giusto per uno spuntino. Cinque
euro sono più che sufficienti per un cornetto alla marmellata, per un
cappuccino, di quelli con il supplemento di schiuma e di polvere di cacao che
non si dimenticava mai di chiedere ovunque fosse, e per un ‘gratta e vinci’
che, a giudicare dall’insegna blu sopra la porta, con molta probabilità avrebbe
trovato appesi in lunghe file dietro il bancone.
Ci sono bar che, a una certa ora, riescono a essere più affollati di
una piazza in un giorno di mercato e bar che – come quello – preferiscono
garantire alla clientela una giusta quiete costante. Erica era felice di
essersi imbattuta in un posto del genere. Poté poggiare su una sedia le sue buste
degli acquisti, senza che a qualcuno venisse in mente di chiederle un attimo
dopo se per caso quella fosse una sedia libera e se, per gentilezza, avrebbe
potuto prenderla.
Poté allontanarsi dal tavolo, senza portare con sé il timore che
qualcuno avrebbe potuto approfittare della sua assenza per toccare le sue cose
o, e non seppe stabilire se sarebbe stato peggio, rubarle il posto. Poté
rimanere davanti il bancone delle cose da mangiare per tutto il tempo che
reputò necessario, senza per questo sentirsi in imbarazzo davanti al barista. Senza
rischiare di essere strattonata da altri affamati; più affamati di lei. E
potendo scegliere (senza fretta) effettivamente quello che avrebbe voluto
scegliere, scegliendo con gli occhi.
Grazie alla calma del luogo si accorse infatti di essere entrata – sì
– per un cornetto alla marmellata e per un cappuccino con tanta schiuma, ma di voler
chiedere un panino con prosciutto cotto e maionese e un bicchiere di spremuta
d’arancia.
Chiedeva sempre una spremuta d’arancia, anche se poi – il più delle
volte – in molti bar si ritrovava costretta a ripiegare sul succo in
bottiglietta; che non ha niente a che vedere con il sapore delle arance
appena spremute.
L’uomo dietro il bancone impiegò pochissimi secondi a spaccare i tre
frutti necessari per riempiere un bicchiere e a Erica parve che l’aria dentro
il locale s’impregnasse all’improvviso di quel buon odore di agrumi.
Tornò a sedersi insieme al suo panino e non riuscì a evitare di
sorridere imbattendosi nel suo riflesso dentro a uno specchio a muro un po’
segnato dal tempo.
«Ecco a lei». A giudicare dalla pelle delle mani Erica avrebbe detto
che quel barista non potesse essere tanto in là con l’età, ma le rughe sul viso
tradivano una vita già vissuta per la maggior parte e la luce negli occhi,
seppur ancora presente, sembrava essere una di quelle luci non più fresche come
quelle che si trovano in gioventù o, comunque, nel buono degli anni.
Quel bar era il bar giusto anche per questo. Segno che i cinque euro
trovati per strada non si erano fatti trovare davanti ai suoi piedi per caso.
Per la prima volta qualcosa l’aveva spinta ad entrare proprio lì, in quel posto
che aveva sempre ignorato. E si era ritrovata ad avere a che fare con una
persona sconosciuta, ma che – a pelle – già godeva di tutta la sua fiducia. Una
persona che, in qualche modo, la faceva sentire bene.
«Grazie!». Prese il bicchiere dal piccolo vassoio d’acciaio, cercando
di nascondere il tremore delle mani che alle volte era in grado di procurarle
un disagio. Aveva sentito diversi medici al riguardo e, per fortuna, tutti i
controlli fatti avevano portato a credere che non ci fosse nulla fuori posto.
Così, visto che le mani continuavano a ballare una danza tutta loro di tanto in tanto, alla fine ad Erica era
stato detto che – con molta probabilità – poteva trattarsi di una reazione
emotiva. Reazione a che cosa? Non era dato sapere. Emotivamente parlando, però,
Erica avrebbe preferito non dover aggiungere anche quello alla sua lunga lista
di ‘difetti’.
«Ha trovato qualcosa di interessante in libreria?». Il barista indicò
le buste con un cenno, scostandosi di qualche passo in direzione del
bancone. Dei tre libri che Erica aveva appena acquistato, solo di uno era
assolutamente sicura e fu quello di cui gli parlò.
«Una bella storia d’amore. Una di quelle con il lieto fine sicuro,
qualunque cosa accada in mezzo alle pagine». Sorrise. A ben pensarci, avrebbe
potuto approfittare di quella sosta imprevista in quel bar per leggere un po’.
Ma non lo fece.
Ignorando l’imbarazzo di parlare guardando dritto negli occhi il suo
interlocutore, chiese invece: «A lei piace leggere?». Il bar era tanto bizzarro
da non tenere in giro neppure un quotidiano, perciò c’era da credere che il
barista avesse qualche tipo di avversione per la parola scritta e che gli
avesse fatto quella domanda solo per dimostrarsi cordiale.
Quando Erica lo vide tornare di nuovo dietro il bancone per tirar
fuori da un cassetto una vecchia agenda di pelle e una bellissima penna
stilografica, non riuscì a evitare di spalancare la bocca per lo stupore.
«Mi piace scrivere, anche se non sono poi così bravo».
«Sta scrivendo qualcosa, adesso?».
Il sorriso del barista lasciava intendere di sì, ma la sua testa
rispose comunque muovendosi a destra e a sinistra.
«Peccato. Mi sarebbe piaciuto poter leggere qualcosa scritto da
qualcuno che…». Erica interruppe la frase a metà, consapevole che chiuderla con
la parola che aveva in mente – ossia ‘conosco’ – non fosse proprio dire la
verità. Sarebbe stato più giusto affermare che le sarebbe piaciuto poter
leggere qualcosa scritto da una persona cui poter stringere la mano, poi, per
congratularsi del lavoro fatto. Questo, sì! Anche se, a ben pensarci, anche in tal
caso non era certa che le parole del barista le sarebbero piaciute al punto da
congratularsi con lui.
Scelse di rimanere in silenzio, concentrandosi sull’ultimo morso del
suo panino.
«Potrebbe tornare qui fra qualche giorno e chiedermi di nuovo se ho
qualcosa di finito da farle leggere, sono sicuro che per allora mi sarò fatto
venire in mente almeno una piccola storia». Il barista aprì le pagine della sua
agenda fino a trovarne una completamente bianca e svitò il tappo della sua
stilografica come a lasciar intendere che si sarebbe messo subito all’opera.
Erica non riuscì a evitare di ridere di gusto. Non fosse stato per
l’imbarazzo della richiesta, gli avrebbe domandato la possibilità di fare una
fotografia insieme. Lei, lui, l’agenda e quella stilografica che poteva
considerarsi, senza sbagliare, la fuoriclasse delle penne.
Continuando a tenere il cellulare in tasca, però, preferì alzarsi per
raggiungere la cassa e pagare il conto.
Aveva già allungato la banconota da cinque euro oltre il bancone, che
si sentì dire: «12 e 12. Esprima un desiderio…». Non era sicura che valesse,
così, su comando. Né era sicura che fosse valido esprimere un desiderio in quel
caso, per il fatto che non erano stati i suoi occhi a catturare la coincidenza.
Ma Erica preferì ubbidire, senza pensarci troppo. Era comunque un’occasione in
più, che avrebbe potuto dare a tutto ciò che avrebbe voluto diventasse realtà.
Per i desideri vale un po’ quel che vale per la fortuna. Se non si è
disposti a dar loro un’opportunità quando se ne presenta l’occasione, poi non
ci si può lamentare del fatto che non si avverino.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che,
imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Pensò fosse buffo che anche quel barista custodisse in sé la stessa
mania.
Lesse lo scontrino per controllare che fosse vero. Che
fossero davvero appena passati dodici minuti dalle dodici.
In quel momento lesse anche un nome… Giuseppe.
«È lei Giuseppe?». Stavolta, la testa dell’uomo si mosse in su e in
giù per rispondere di sì.
Erica pensò che un tipo del genere non l’avrebbe certo rintracciato su
Facebook. Per questo, si affrettò ad allungare una mano e a presentarsi: «Mi
chiamo Erica…». Avrebbe voluto raccontargli del modo bizzarro in cui aveva
deciso di entrare in quel bar per la prima volta, ma non lo fece.
Non chiese nemmeno il ‘gratta e vinci’ che aveva immaginato avrebbe
chiesto prima di uscire.
Quei cinque euro trovati per strada le avevano appena pagato una delle
colazioni più tranquille, buone e insolite della sua vita e le avevano appena
regalato la possibilità di esprimere un desiderio. Non poteva chiedere di più.
Forse, la prossima volta che sarebbe tornata a trovarlo, avrebbe
potuto giocare una partita con la fortuna. E, magari, Giuseppe le avrebbe fatto
trovare una storia scritta ispirandosi a quel loro breve attimo insieme. Magari, Giuseppe avrebbe potuto scrivere un racconto che parlasse dei desideri
che si esprimono, quando il tempo è fatto di numeri uguali. Magari, lei avrebbe
fatto in tempo a finire il libro di cui gli aveva accennato e avrebbe potuto
raccontarglielo con maggiore precisione. Avrebbe potuto chiedere un’altra
spremuta, per respirare di nuovo l’odore del frutto fresco nell’aria, o scegliere di farsi
venire i baffi bianchi; sorseggiando un cappuccino schiumoso.
Aveva la certezza che sarebbe tornata in quel posto ed era comunque
tutto ciò che contava.
Alle 12 e 18 si salutarono con un: «Arrivederci!» detto all’unisono.
Pare che alcuni esprimano desideri anche in situazioni del genere,
quando la stessa parola esce da bocche differenti nello stesso momento.
Loro… no! Loro avrebbero aspettato di nuovo di imbattersi in ore e
minuti uguali.
martedì 2 agosto 2016
Il mondo attraverso una rete di pasta frolla!
18.30. Una consegna da effettuare. Seduta in macchina, in un parcheggio che si affaccia sulla strada, provo a ingannare il tempo osservando le automobili che passano. Cerco le mie iniziali nelle targhe. Arrivo a contarne sette in meno di cinque minuti e già non ne posso più. Troppe EV in circolazione. Alzo gli occhi e provo a immaginare le questioni di chi è alla guida. Dove staranno andando. Cosa staranno pensando. Da dov’è che sono partiti. Cose così. Mi colpisce un uomo che, tra un’occhiata e l’altra alla strada davanti a sé, sta addentando uno spicchio di pizza. Vorrei poterlo fermare e dirgli che quello spicchio di pizza avrebbe un sapore decisamente più buono, se mangiato altrove. Magari seduto a un tavolino, davanti a un bicchiere di birra. Ma, pare che il mondo stia diventando dei frettolosi; o forse no. Io spero di no, mentre cerco di ignorare la fame che mi è venuta a vedere quella pizza. Alcune macchine dopo… una ragazza, lato passeggero, sbadiglia. Scopro così che lo sbadiglio è contagioso anche da abitacolo ad abitacolo e se ne frega dei finestrini chiusi a sbarramento. Sbadiglio. Bene! Osservando le macchine sono riuscita a guadagnare fame e sonno in meno di un quarto d’ora. Arriva la persona che stavo aspettando. Si scusa per il leggero ritardo e, sorridendo, mi dice che dovrebbe ricompensarmi con una crostata; per la gentilezza e la pazienza. Bellissimo questo mondo, in cui un dolce può essere ancora una soluzione, ma… ha detto per caso la parola crostata?!? Sì! L’ha detta. Il mio stomaco brontola di approvazione, ma è abbastanza silenzioso nel farlo e riesco a non fare una figuraccia. Mai parlare a una persona affamata di cose da mangiare, ma lui non può saperlo. Torno a casa e, mentre cerco di rimanere concentrata sulla guida, mi pare di vedere il mondo attraverso una fitta rete di pasta frolla!
sabato 23 luglio 2016
Ho provato ad aggiustare il tiro...
“Alle volte la vita sbaglia i momenti”. L’ho letto stamattina in un
libro e da allora non faccio che pensarci. Un pensiero altrettanto frequente è
un pensiero anche bizzarro; in realtà. Non lo so perché, ma la mia mente continua
a produrlo da giorni e lo produce in inglese. Spessissimo me lo ritrovo in
mezzo al solito caos che ho in testa, che riecheggia come sotto l’effetto di un
loop infinito:
...I’m not a robot!
C’ho messo tantissimo per capirlo ed è curioso ritrovarcisi ad avere a
che fare proprio adesso che, forse per la prima volta nella mia vita, ho agito
come se per davvero fossi una macchina; come se del mondo fuori non mi
importasse abbastanza da cercare di capire e comportarmi di conseguenza.
Forse il mio atteggiamento è il prodotto di questioni masticate a
lungo e comunque mal digerite, anche se è una magra consolazione. Forse questa vuole
essere una resa dei conti caotica, in cui il misero premio di consolazione e
accorgersi di avere tradito un po’ me stessa (quella me stessa che sa non tirarsi indietro, anche se c'è da correre il rischio di farsi male); con la speranza di riuscire ad
aggiustare il tiro perché non è ancora tardi. Forse, sono fasulli sia l’uno che l’altro
pensiero e la mia pazzia personale è più vicina al limite di quanto a me
piaccia credere. Potrebbe essere…
Il punto è questo: l’incapacità di credere. L’incapacità di credere
alle persone, che è il blocco peggiore che si possa avere. Con chiunque io mi ritrovi ad avere a che fare, mi accorgo di cercare - prima di ogni altra cosa - segnali possibili di in che modo questo qualcuno vorrà provare a fregarmi.
Una persona entra nella tua vita all’improvviso, lo fa con tutta la
gentilezza possibile e tu, per tutta
risposta, le chiudi la porta in faccia senza avere una vera ragione. Vorrei potermi
dire soddisfatta del fatto di aver colpito per prima, almeno per una volta. Ma
la verità è che – invece – continuo a pensare di aver giocato troppo d’anticipo.
Perché l’ho fatto? Per paura.
Nulla paralizza di più un cuore, seppur desideroso di nuove emozioni,
che la paura di soffrire di nuovo.
Non ho mai nascosto le mie ferite. Non per la vanità del sentirsi una
sopravvissuta a certe cose. Non ho mai nascosto le mie ferite perché sono
alcuni degli ingredienti che appartengono alla complicata ricetta di me. Io
sono il risultato di momenti felici, di momenti indimenticabili, di passi fatti
in equilibrio precario su un filo, di cadute inaspettate e di ferite. Da oggi
mi sento di aggiungere a questo particolare miscuglio anche un pizzico di
occasioni mancate. Un ingrediente che scopro di volere ancora meno del dolore, perché…
mentre con il dolore sono riuscita a scendere in qualche modo a patti e in
tutti i casi (posso dirlo con certezza) è stato in grado di portarmi a qualcosa
di buono, un'occasione mancata è la fotografia istantanea di una strada da percorrere, che
però non sentirà mai il tocco dei miei piedi.
Cosa si fa quando ci si ritrova ad avere a che fare con un'occasione mancata?
...Si prova ad
aggiustare il tiro.
Divertendomi a tempo perso con arco e frecce, posso assicurare che ce
ne sono di belle da fare per riuscire a raggiungere il giallo. E, se anche il
risultato non è mai garanzia, è certo che abbandonare non è la soluzione. Così,
ho provato a immaginarmi come in una delle sedute di allenamento. Ho preso un
respiro, ho allontanato i pensieri negativi, ho cercato di focalizzare quello
che avrei voluto ottenere e ho scagliato la mia freccia.
Quando si ferisce qualcuno senza che ce ne abbia dato reale motivo, l’unica
cosa possibile da fare – perché un tiro fatto male possa sperare di aggiustarsi
– è chiedere scusa.
In un groviglio di parole che non mi è stato possibile dire di
persona, ho cercato di spiegare le mie ragioni. Niente da fare.
Così, ora mi ritrovo a dover gestire anche un altro pensiero. Che forse
ho agito male, vero. Ma che le cose si sarebbero potute aggiustare con la
massima tranquillità, se solo anche dall’altra parte ci fosse stata l’esigenza
di aggiustare il tiro allo stesso modo.
Una cosa che di me non è mai cambiata è
proprio questa. L’esigenza di un’emozione che può essere tanto veloce quanto
una stella cadente, ma che - necessariamente - deve essere vera.
È stata un’emozione a spaventarmi. Qualcosa che, al di là di ogni mio
calcolo, è riuscito a fare un passo in più rispetto alla convinzione che avrei
potuto fare tranquillamente a meno di certe cose e il pensiero che avrei preferito
non immischiarmi più in faccende umane del genere.
Mi sono ritrovata seduta su una panchina, a parlare più di niente che
di qualcosa, a cercare di raccontarmi per quel poco che sono e a sorridere
felice; dentro una serata d’estate decisamente inaspettata.
In quel momento ho saputo riconoscere un attimo speciale. Un
piccolissimo frammento della normalità che vado cercando, da cui però – subito dopo
– ho sentito l’esigenza di difendermi. Di scappare.
Forse ho sbagliato. O, forse, no. Cerco di mettermi nei panni di quest’altra
persona e, nel limite di quel poco che ho potuto conoscere, cerco di capire se
per caso non abbia esagerato con le parole nei confronti di qualcuno che,
magari, era spaventato quanto me. Non saprei. Continuo a provare a mettermi nei
panni di quest’altra persona e mi domando perché, semmai, possa essere bastato
così poco per lasciar perdere. Provo a mettermi nei panni di quest’altra
persona e penso che non sia possibile non accorgersi di come
ho provato a sistemare le cose. Torno a mettermi nei miei panni e sento di nuovo
quel pensiero in inglese: I’m not a robot! Il che significa
che, forse, è proprio perché non sono una macchina che ho agito in questo modo.
Perché le macchine non temono di farsi male. Perché le macchine, in nessun modo, provano a farsi capire pure
sbagliando. Perché le macchine non hanno cuore. Torno a mettermi nei miei panni e ritrovo quel bisogno di essere protetta, anche se farlo potrebbe significare avere a che fare con un mucchio di spine. Torno a mettermi nei miei panni e ritrovo il desiderio di incontrare qualcuno che, in un mondo pieno di apparenze e di finta perfezione, in un mondo dove sembra sia la regola non lasciarsi coinvolgere dalle cose, sia imperfetto quanto me, magari abbia un lato oscuro difficile quanto il mio, sia il risultato di un miscuglio di ingredienti assurdi da mettere tutti insieme e sappia difendersi chiudendo le porte al mondo, se quel mondo non lo fa sentire al sicuro quanto vorrebbe. Sono porte che si chiudono anche per misurare il coraggio di chi viene a bussare, per vedere quanto sarà in grado di insistere ed aspettare. E si chiudono sempre e solo se c'è stato un pizzico di felicità alla base. Perché solo ciò che è in grado di regalare un'emozione è in grado di far nascere la paura di doverne fare a meno.
Ho provato a trasformare uno zero in un dieci. Ho provato ad
aggiustare il tiro…
lunedì 18 luglio 2016
Una penna incline alla felicità...
Una serata per scrivere. Ritrovarsi insieme in una stanza accogliente. Mondi diversi e sconosciuti tra di loro, che per un po' si cibano della stessa aria. Quaderno e penna con me. La voglia, il bisogno di chiudersi per un po’ in un mondo di parole. Il resto fuori. Una serata per scrivere dedicata alla bellezza e all’importanza dell’incipit. L’incipit. L’inizio. L’inizio è importante in ogni cosa. Da come le cose iniziano, si riesce a intuire gran parte del resto. Il più delle volte. Due fotografie. Una bellissima piazza Grande al tramonto e l’immagine di una coppia sorridente. Felici a colpo d’occhio, le mani abbracciate. Immaginare un'incipit che includa questi elementi. Dare un nome ai personaggi. Scegliere per loro una situazione. Una penna incapace di non considerare un lieto fine. Una penna incline alla felicità... la mia.
Matteo. Alice. Una conoscenza di sei mesi appena. Un amore forte sin da subito. Un amore che se ne frega della prudenza e va dritto per la propria strada...
“Un lunedì sera. Un lunedì sera qualunque, in effetti. La Piazza deserta e il sole pronto per andare a dormire. Una fotografia scattata con gli occhi su quel mondo intorno già silenzioso, che poi non sarebbe più stato lo stesso. Una scalinata lunga che riesce a farsi notare da lontano. Oltrepassare il portone tenendosi mano nella mano. Un passo alla volta. Insieme. Fino in cima. Sempre insieme. Li stavano aspettando...”.
Matteo e Alice. Una conoscenza di sei mesi appena. Un amore forte sin da subito. Un amore che se ne frega della prudenza e va dritto per la propria strada...
“Ci prenderanno per pazzi, lo sai?”
“Sì! Però… dei pazzi felici!”.
Una fine. Un'inizio...
…Una penna incline alla felicità: la mia!
venerdì 27 maggio 2016
Con la tinta sulla testa...
I capelli da sistemare. Colore, taglio. Giusto una 'spuntatina'. L'appuntamento preso all'ultimo momento; stamattina. Chiedo per le 18.30. "Arriva un po' prima, se puoi...". Alle 18 sono lì. C'è una bella folla femminile. C'è una bimba, anche. E' lei a catturare l'attenzione più di tutte. Sposta una sedia per avvicinarla ai divanetti e ci si sistema sopra con le gambe incrociate. Tiene in mano una rivista di cucina. Gli occhi curiosi. Due guanciotte 'attira-baci' leggermente arrossate. Comincia a sfogliare e si ferma appena trova l'immagine di un piatto di spaghetti. Ha la mia stessa espressione di quando ho fame. "Gli spaghetti sono una cosa buonissima", dice in mezzo a mille sorrisi. Sono d'accordo. Dopo una lunga serie di "Questo cos'è?", decide che vorrebbe trovare una pizza tra quelle pagine. Niente da fare, ma anche questa seconda passione culinaria è una cosa che condividiamo. Si alza e prova ad ammazzare la delusione a suon di caramelle. Ne guadagno una anch'io... all'albicocca. Si chiama Maria. 2 anni, quasi 3. Mentre sono seduta con il lavabo alle spalle e la tinta già in testa, immagino quanto potrei essere buffa conciata in quel modo. Lei non se ne cura. Mi guarda seria e dice: "Io e te non abbiamo ancora giocato insieme!". Non sia mai. Passiamo i venti minuti successivi a fare finta che io non mi accorga di lei, mentre si diverte a giocare con la testa della doccia e finisce per bagnarsi le maniche della maglia di cotone. Si intestardisce di voler bere da lì, come fosse una bottiglietta. Ho il compito di impedirglielo. Ha l'espressione furba, di chi se ne frega se qualcosa 'non si fa'. Aspetta comunque che glielo dica ogni volta e, ogni volta, mi regala una risata. Prima di ricominciare daccapo! ;-) <3
sabato 14 maggio 2016
Stelline per un Compleanno!!!
Lo scoccare della mezzanotte. Un 13 Maggio che riesce a cavarsela
con un...
...bilancio positivo!!!
Non so perché, ma è un giorno che temo sempre un po’. Quella paura che
qualcosa possa andare storto, che qualcosa di spiacevole, o di difficile da
gestire, possa verificarsi 'proprio nell’arco di quelle 24 ore'; che possa
accadere: “Proprio oggi, che è il mio compleanno!”. Invece... mi ritrovo a
sorridere. Con il pigiama già indosso, dentro l’abbraccio delle coperte ancora pesanti; nonostante manchi poco più di un mese all’estate. È già domani
e sono pronta ad addormentarmi con la felicità di essere riuscita a fare
qualcosa di ‘insolito’ , con la soddisfazione di aver
completato la lettura di un libro che ho praticamente divorato (pur alternando la lettura con quella di altre storie) e con il cuore a mille per il fatto di aver
sentito il cellulare notificare più volte degli apprezzamenti su Wattpad!!! :-D
Lo so. Non è molto e potrebbe
persino apparire sciocco, da parte mia. Ma ci sono pensieri che mi accompagnano sempre, ogni volta che scrivo. Pensieri che riconosco essere alle volte
contrari a ciò che pensa la maggior parte della gente, che prova a
confrontarsi con il foglio bianco come faccio io.
“Fallo! Anche dovessi essere solo tu a trarne soddisfazione.
Fallo! Perché
ti piace».
Ecco perché... anche una sola stellina che si accende (chi è almeno un po’
pratico di Wattpad sa di che cosa
parlo) è una grande soddisfazione e diventa, nel giorno del mio compleanno, un
regalo immateriale e inaspettato. Il motore del terzo pensiero, che - da un po’ di
tempo a questa parte - ho imparato a ripetermi come un 'mantra speciale'; insieme ai
primi due.
“Fallo! Perché - in fondo - non puoi sapere se riuscirai a tenere compagnia a qualcuno; con le tue parole.
Magari, a regalare un
sorriso.
Magari, a regalare un’emozione”.
È tutto qui! Un tutto, che sa di tanto. Un tutto, che riempie di tanto
questo giorno speciale.
Un 13 Maggio che si conclude con un... bilancio positivo.
Per tante
ragioni. Per tante cose inaspettate. Per una serie di ‘Grazie!’, che sono
felicissima di poter dire! :-D
...Grazie, Grazie, Grazie!!!
Li scrivo in verde, il colore della Speranza. Con la speranza che sia un po' vero... che le cose belle sanno farsi seguire da altre cose belle!
Pure se è verità imprescindibile quello che 'dice' il titolo del libro appena finito. Che... La tristezza ha il sonno leggero. Mi addormento con la voglia di crederci un po'. Di credere ai momenti leggeri. Di credere i sogni. Con la voglia di dare a entrambi più possibilità, di quanto abbia fatto finora. Che, poi, non si sa mai...
Mi addormento insieme a un bellissimo "Chissà...";
che è forse il regalo più bello che potessi farmi...
...nel giorno del Mio Compleanno! :-D
Alla prossima! ;-)
sabato 30 aprile 2016
Lungo una strada conosciuta...
Una po’ di tempo per me. L’idea di andare a fare una passeggiata
insieme a Mat. Quella di percorrere una strada conosciuta, ma sempre speciale.
Pensieri zero.
Mi accorgo di avere l’attenzione catturata da qualcosa. I rumori
intorno. L’originale mescolarsi tra di loro. Mi ritrovo a cercare di carpire
l’esistenza - o meno - di un certo ritmo; di una certa sequenza. Il rumore dei
miei passi sulla strada sterrata. Il rumore delle sue zampe sullo stesso
tragitto. Il rumore del mio respiro, a tratti affaticato. Il rumore del suo,
anch’esso spesso più pesante del normale. Il rumore delle foglie mosse dal
vento. Quello della sua medaglietta al collo. Tintinnio leggero, ma costante, a
testimonianza sonora della sua esuberanza canina. Lo scorrere dell’acqua, in
lontananza. Un concerto inedito, unico e irripetibile.
A un certo punto, una curva.
È lì, appena dietro l’angolo. Lo sguardo cattura l’istante e, anche se
gli occhi hanno già visto ciò che stanno ammirando, scattano comunque una nuova
fotografia per il cuore.
Quel posto sa di essere speciale. Sa di essere emozione pura per
molti. Sa che potrebbero essere non frequenti gli incontri, ma non per questo
capita di trovarlo non all’altezza delle aspettative.
È un posto paziente. Sa aspettare il momento in cui c’è bisogno di
lui, perché l’animo possa rasserenarsi di più. È un luogo immerso in un’atmosfera
speciale, che è quasi magia.
Respiro a pieni polmoni. chiudo gli occhi per un istante, prima di
riprendere a camminare.
Poco più in là c’è un pezzo di prato. Distesa su una panca di legno, cerco
di immortalare una porzione di cielo.
Un nuovo sbuffo di vento. Mi ritrovo a seguire con lo sguardo il volo leggero di qualcosa che non riconosco immediatamente. È il seme di un dandelion; o soffione.
Un nuovo sbuffo di vento. Mi ritrovo a seguire con lo sguardo il volo leggero di qualcosa che non riconosco immediatamente. È il seme di un dandelion; o soffione.
Se escludo le volte in cui li ho liberati in aria con un soffio, dopo
aver espresso un desiderio, penso di poter dire che questa sia la prima
occasione che ho di incontrarne uno solitario.
Continuo a fissarlo e mi sorprendo a scoprire quanto sia vero, che
sembra stia danzando. Il rumore delle foglie mosse dal vento. Quello dell’acqua
che scorre. Un seme di dandelion danzante.
A proposito d’acqua, comincia a piovere. Poche gocce, che lasciano
traccia immediata di loro sulla pietra. È ora di andare.
Chiedo in silenzio alle nuvole che aspettino ancora un po’, prima di
mettersi a piangere per bene.
La strada a ritroso sembra più breve.
A poche decine di metri da casa, mi accorgo di essere stata una sorta
di taxi per un piccolo ospite. Un piccolo bruco verde. Chissà cosa l’ha spinto
ad aggregarsi. Certo dovrà aspettare di essere farfalla, per poter tornare dov’era.
O, forse, non vi tornerà affatto.
Lo lascio libero su un filo d’erba, non prima di aver scattato una
fotografia.
Mat si accorge e richiede attenzioni tutte per sé.
Gli prometto di replicare presto momenti come questo, ma adesso è tempo di muoversi.
Sull’asfalto, che rimane in silenzio sotto di noi, a un certo punto
incontriamo Pepe.
È uno yorkshire impavido. Si avvicina al naso di Mat e pretende un
incontro, occhi negli occhi. Si allontana di nuovo. Abbaia più volte, forse
offeso dal fatto di non aver ricevuto chissà quale reazione. Non gli importa la
differenza di stazza, né che Mat continui a guardalo con noncuranza evidente. Lui
continua ad abbaiare.
Non ci rimane che allontanarci in fretta e riprendere, lesti, il
cammino. Pochi passi ancora…
sabato 23 aprile 2016
In un sabato mattina qualunque
Un sabato che comincia e prosegue a rilento. Colpa di un mal di gola
che non mi da tregua da ieri sera. Quelle infezioni fastidiose, pur non
eccessivamente debilitanti, che si manifestano appena hanno il sentore di fine
settimana in avvicinamento. Ho la sensazione che proprio adesso si stia tenendo
un rave party di formiche sopra la mia faringe.
Rimango comunque dell’idea di sbrigare l’unica incombenza vera della
giornata e, già che ci sono, vorrei passare in
libreria. Oggi è la giornata mondiale del libro.
Sono le dieci quando riesco a tirarmi fuori dal letto e scendere in
cucina per la colazione. Il progetto di ritornare a scrivere di mattina presto
se ne va a farsi benedire per l’ennesima volta.
Un’ora e venti più tardi sono già in fila all’ufficio postale; un’altra
delle cose che sarebbe bene sbrigare prima delle nove.
Prendo il numero riservato ai contocorrentisti. Dovrebbe garantire una
velocità di scorrimento maggiore, almeno in teoria. Ma dubito che serviranno meno
di trenta minuti per far sì che le undici persone che ho davanti si tolgano di
mezzo.
Sono il 51. Stanno servendo il 39.
Un signore entrato subito dopo di me sbuffa, ancor prima di vedere il
piazzamento del suo turno, perché l’ufficio è decisamente affollato.
Ok! Pazienza. Se non riesco ad andare in libreria entro la mattinata,
vorrà dire che ci tornerò nel pomeriggio. È la giornata mondiale del libro, non
si può non acquistare nulla per l’occasione.
Osservo lo scorrimento dei numeri sul grande display appeso al muro,
con lo stesso interesse con cui mi ritrovo a leggere le notizie che scorrono su
uno schermo tv poco lontano. Dovessero interrogarmi in merito all’una o all’altra
cosa, in entrambi i casi non saprei cosa rispondere.
Riesco a ristabilire la giusta attenzione nel momento in cui i numeri sembrano
impazzire all’improvviso e saltano in fretta dal 41 al 46. Quei piccoli
miracoli inaspettati, che possono accadere all’ufficio postale se qualcuno
decide di non poter aspettare più di qualche minuto per poter essere servito. Certo
che sei persone che abbandonano il tentativo non sono poche...
Buon per me!
Per me e per la signora seduta più avanti, che un attimo prima già si
stava lamentando di dover ancora andare al supermercato a fare la spesa per il
pranzo ed ora è davanti all’addetto per poter pagare dei bollettini in
scadenza.
Anche la donna seduta accanto non scherza, in quanto a entusiasmo improvvisamente
ritrovato.
Stringe in mano due biglietti e ha l’aria di chi sta controllando le estrazioni
del lotto alla tv, per vedere se ha vinto.
È un testa a testa tra i numeri dei correntisti e quelli generici per
i bollettini. Da una parte il 47, aspettando il 48. Dall’altra il 73,
aspettando il 74. Scatta prima il 48.
Sorrido mentre la osservo che si alza in piedi per far capire di
esserci e sento le labbra incresparsi ancora di più quando la vedo regalare il
suo 74 al ragazzo seduto accanto a lei. Lui stringeva in mano l’85. Quando si
dice un colpo di fortuna di massa!
Il 49 è di nuovo mancante. Il 50 è sbrigativo. Arrivato finalmente il
mio turno, decido di dare una mano anch’io al prossimo scegliendo di non
bloccare la fila per compilare il modulo per un bonifico. L’ultima volta che mi
è capitato di doverne fare uno, l’addetto allo sportello ha preferito approfittarne
per riposarsi un po’. Scelte.
Il signore dietro di me mi sorride. A mezzogiorno siamo entrambi fuori
di lì.
C’è un movimento discreto di gente anche in libreria. Mi piace pensare
che siamo lì tutti per la stessa ragione, ma rimane una supposizione non
verificata.
Mi piazzo davanti allo scaffale delle novità e rimango a fissare le
copertine, fino a che non trovo qualcosa in grado di colpirmi. È strano dover
fare i conti con un imbarazzo della scelta che non dipende tanto dal fatto di
non trovare qualcosa che sia affine ai gusti, quanto al non sapere a che cosa
dare la precedenza.
Leggo la quarta di copertina di tre libri che trovo tutti interessanti
e, anche se vorrei stabilire in maniera oculata quale portare fino alla cassa
con me, alla fine lascio che sia l’istinto a guidarmi. Una volta tanto…
Un giro per gli altri scaffali, trovo anche ‘lui’...
La prima volta che mi ci sono imbattuta, leggendo commenti entusiasti
su Facebook, mi sono trattenuta dall’acquistarlo immediatamente on-line. La seconda
volta è stato un faccia a faccia al supermercato. Non l’ho messo nel carrello
insieme ai cereali, agli yogurt e ad altre cose, un po’ perché andavo di fretta
e un po’ perché… custodivo l’idea di conservare quell’acquisto per un’occasione
speciale. Oggi non avevo più scuse per rimandare ancora.
Ho la sensazione che entrambi i libri saranno in grado di regalarmi
qualcosa di speciale. Non capita sempre, pur trattandosi di buone letture.
Mentre torno a casa, con i miei acquisti sistemati dentro una busta di
carta, mi ritrovo a domandarmi se per caso si trovino bene l’uno accanto all’altro.
Il pensiero folle di un secondo, che è però ragione di un nuovo sorriso
divertito.
Arrivo al parcheggio sotto un cielo grigio, che più grigio non si può.
È una fortuna che il tempo abbia retto, nonostante sia da una settimana che
tutti vanno dicendo quanto pioverà questo weekend.
Entro in macchina e mi lascio avvolgere dall’odore di pane fresco. Avevo
dimenticato di essere passata al forno, prima di ogni altra cosa.
In fondo alla strada, ferma allo stop, le prime gocce cominciano a
colpire il vetro. È il tempo ideale per un pranzo veloce, per una tazza di tè e
per una nuova storia da leggere sotto le coperte. Mentre le formiche continuano
con il loro rave… ;-)
Alla prossima!
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sabato 27 febbraio 2016
Resilienza... Empatia...
Resilienza. Una delle parole che sto imparando a conoscere. Un significato ampio, difficile da racchiudere in poche righe. Una parola che, per come viene adoperata adesso, mi ha portato a riflettere su un’altra. Empatia. Altrettanto ampia, altrettanto complessa. Non tocca certo a me disquisire in merito. Non in maniera approfondita, almeno. Solo un pensiero. Resilienza è un termine utilizzato, oggi, non tanto per indicare la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi, quanto per definire, psicologicamente parlando, la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Riporto testualmente le parole trovate a seguito di una rapida ricerca Google. Ecco. Se solo tra individui ci fosse una maggior propensione all’empatia, capacità di porsi in maniera immediata nello stato d'animo o nella situazione di un'altra persona, immagino sarebbe molto meno necessario essere resilienti. Immagino.
domenica 14 febbraio 2016
Io & "Cento giorni di felicità"
Wikipedia
recita: “Cento giorni di felicità è il primo romanzo di Fausto Brizzi, il quinto libro che ha pubblicato
considerando anche i romanzi che ha tratto dai suoi film”.
Per quello che mi riguarda, è il primo libro di Brizzi letto.
Lo so. Sono una ritardataria. E lo sono con tutta la consapevolezza di
esserlo, non solo perché non ho idea di come siano strutturati i quattro libri
che hanno preceduto questo capolavoro, ma soprattutto perché mi sono ritrovata
a iniziare la lettura di questo quinto appena qualche settimana fa.
L’anno di pubblicazione è il 2013. Certo, devo ammettere di non aver
avuto un approccio nemmeno lontanamente tempestivo. Anche nel riparare al fatto
di non aver mai letto prima qualcosa di suo, ho avuto i miei bei lunghi tempi
da superare.
Una cosa da tenere in considerazione, però, c’è. O, almeno, io spero che
ci sia e che riesca a giustificarmi un po’. Cento giorni di felicità
di Fausto Brizzi è un libro che
risiede sul primo scaffale della mia libreria dà più di 730 giorni (alias due
anni); ormai.
L’ho acquistato con lo stesso spirito ottimista con cui ogni volta entro
in libreria. Senza considerare mai la mole di parole che a casa mi accoglie
ogni sera e in ogni momento libero e con l’allegra convinzione che, stavolta è
la volta buona!, sarebbe stato diverso. Eh! Si dice sempre così.
Da lettrice appassionata quale ritengo di essere, nonostante altri
impegni non mi consentano sempre di esserlo esattamente come e quanto vorrei,
sapere che in un dato momento, di un certo anno, c’è un libro sulla cresta
dell’onda, è come per le api sapere che, a pochi metri di distanza dall’alveare,
c’è un prato fiorito e ricco di nettare.
Insomma, le buone intenzioni iniziali c’erano tutte. Peccato, poi, che
siano arrivati subito altri pensieri a dare il via alla procrastinazione. Una
parola che, permettetemi di fare un inciso, comincio a odiare in maniera quasi
viscerale.
Mentre sul web continuavo a interessarmi a qualunque cosa
riguardasse questi ‘Cento giorni’, ho cominciato a temere che potesse non essere
una lettura adatta a me. Certa di non svelare nulla a chi sta leggendo, la
scrivo esattamente come l’ho pensata: “Lucio Battistini ha il cancro e questo
cancro lo sta per uccidere. Poco importa che lui lo chiami ‘Amico Fritz’,
sempre di cancro si sta parlando. Vuoi veramente leggere un libro che racconta
la storia di un malato di cancro? Come andrà a finire per il tuo stomaco? E
come la mettiamo, poi, con la gastrite nervosa?”. Considerando che reggo a
malapena le notizie di un telegiornale e che non di rado, perdonate
l’ammissione di inadeguatezza a questo mondo, mi ritrovo a girare canale per
non dover sentire, un tot considerevole di pagine che, per forza di cose, mi
costringerebbe a entrare in empatia con un morituro (aggettivo calzante,
utilizzato dallo stesso Battistini in riferimento a se stesso) potrebbe non
essere una buona idea.
La prima volta che l’ho incontrato in libreria, l’ho sfogliato per un
po’ e l’ho rimesso a posto sullo scaffale. Tra le libertà di un lettore c’è
quella di scegliere. Sceglievo di non affrontare. Anche se una frase sul retro della copertina è comunque riuscita a rimanermi addosso: “L’unico rimpianto è aver dovuto scoprire di morire, per cominciare a vivere”.
Una settimana dopo, a seguito di nuovi incontri casuali con citazioni
dalla storia, sono tornata in libreria e l’ho acquistato. Avessi trovato anche
il coraggio di aprirlo, questo Post sarei riuscita a scriverlo nel già lontano
2013.
No! ‘Cento giorni’ è rimasto a fissarmi nella mia quotidianità,
sopportando con pazienza l’attenzione data ad altri volumi, per un tempo che
risulterebbe insopportabile per qualsiasi essere umano.
Come ha fatto a convincermi che fosse giunto il momento di un tête-à-tête? Tirando in ballo uno dei
diritti di un libro: quello di essere letto!
“Almeno provaci! Se proprio non ci riesci, vorrà dire che farai un passo
indietro e lo lascerai perdere”. È un mantra personale, che da un po’ di tempo
a questa parte accompagna le mie giornate. Poche parole, che mi spronano a entrare in azione.
Potrei dirvi che il resto di questa particolare ‘amicizia’ è facilmente
immaginabile, ma lasciate comunque che ve lo racconti. Cercherò di essere
breve.
A un ritmo di venticinque-trenta pagine per sera (peccato non riuscire a
resistere al sonno un po’ di più e avere la sveglia che suona la mattina sempre
troppo presto), ‘Cento giorni’ è riuscito a tenermi compagnia per due settimane
circa. Un libro che è un countdown carico di vita, contrariamente a quanto si
possa pensare. Un insegnamento a ogni riga. Leggerezza, nello scrivere di una
‘questione’ seria. Un’esplosione di emozioni. Come un fuoco d’artificio di
mille colori. Ho sorriso, ho riso di gusto, ho sentito le parole lette rimanere
attaccate ai pensieri e non volersene andare, non sono mancate le strette allo
stomaco che immaginavo avrei dovuto affrontare. Con una maestria narrativa non
facile da trovare, Brizzi ha saputo sorprendermi. E quel libro tanto temuto,
acquistato per poi essere ignorato per tantissimo tempo, ha saputo diventare
esperienza indimenticabile. Ho sofferto. Come se Lucio fosse un amico vero,
come se Lucio fosse uno di famiglia. Ho sperato fino alla fine di leggere un
‘ho sconfitto il male’, ma niente da fare. Del resto, Lucio lo aveva anticipato
già alle prime pagine: “Era una domenica inutile e tropicale, durante la quale
non successe niente degno di nota. Se escludiamo il fatto che alle 13.27 circa
ho preso un bel respiro e sono morto”. Ho sperato comunque in un colpo di scena.
Ho sperato si fosse trattato di una bugia, detta per stupire sul finale con effetti speciali.
Invece, no! Lucio è morto per davvero.
Allora ho pianto, fino a farmi venire il singhiozzo. Ho faticato a
razionalizzare il fatto di stare solo leggendo un libro. Lo
stomaco mi ha torturata.
L’attimo dopo è stato semplicissimo pensare a quel libro, come a un buonissimo
libro. Raro. Come sono rari quelli che sanno scuotere fin nel profondo
dell’anima.
Una volta chiuso per non riaprirlo, l’ho rimesso al posto che aveva sul
primo scaffale della libreria. L’ho guardato per la prima volta, senza temerlo
più. Ero già pronta ad afferrare la lettura successiva quando, mentre con la
mente mi stavo imponendo di scegliere un lieto fine, mi sono ritrovata a
domandarmi: “Sono proprio sicura, sicura, che ‘lui’ non ce lo abbia avuto?”.
Ok. Lucio è morto, su questo non si discute. Ma rimane vero anche che
Lucio è riuscito a vivere i suoi ultimi ‘Cento giorni’ dando loro un senso. Facendoli
diventare: “Cento giorni di felicità”.
Mi ricordo allora di quella pagina che ho contrassegnato con un’orecchietta,
per non perderla di vista (lo so, atteggiamento atroce nei confronti di un
libro). Riprendo il libro. Lo riapro.
“Quanti sono i giorni che ricordate bene della vostra vita? Quelli
speciali che potreste raccontare anche a tanti anni di distanza. E quanti sono
invece quelli normali in cui non accade
niente degno di nota e che scivolano via anonimi? I secondi sono molti di più.
Mi accorgo che ricordo soltanto un centinaio di giornate memorabili, a fronte
di oltre 14.000 invisibili. Esco dall’ospedale con un pensiero fisso. Voglio che
oggi sia un giorno da mettere al fianco dei tre che vi ho raccontato all’inizio
di questa storia. […] È stato un campanello d’allarme sovrannaturale: «Ehi
Lucio, tu credi di dominare il tuo destino e di avere ancora quaranta giorni di
vita, ma non è detto che sarà così».
Procrastinazione. Ho detto di odiare questa parola (e il concetto che
rappresenta) in maniera quasi viscerale. Ora mi accorgo che
è per una ragione ben precisa. Per quel ‘non è detto che sarà così’.
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