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lunedì 30 ottobre 2017

Lo spazio di 2500 battute... "Tutto ciò che conta"

Scrivere. Un bisogno che non smette di farsi sentire. E si fa ancora più forte, quando si imbatte in una sfida. Un bando di concorso. Scoprirlo in ritardo, ma provarci comunque. Non a partecipare; quello no. Provare a scrivere ciò che è richiesto. Un racconto breve. Non superiore alle 2500 battute; per l’esattezza. Duemilacinquecento battute che riescano a parlare di vita contemporanea e di ciò che potrebbe essere trappola per l’uomo. Ci provo. Lo scrivo per questo piccolo, grande spazio personale. Eccolo qui…

Tutto ciò che conta

«Ok. Dammi mezz’ora».
Riapro piano la porta del bagno, convinto di essere riuscito a non farmi sentire.
Viola è davanti a me. Quel suo broncio, in grado di far tremare anche il cuore più duro.
«Nooo!». Urla, lasciando andare due lucciconi.
«Avevi promesso. Mi avevi giurato che oggi, cascasse il mondo, ci saremmo andati».
Io e il mio vizio di fare promesse, che non sono sicuro di poter mantenere.
Mi inginocchio davanti a lei e provo a farla ragionare: «Lo so, tesoro. Mi dispiace, ma… Luca ha chiamato e vuole che lo raggiunga. È per una riunione importante».
Non sono più in grado di parlare con mia figlia. Forse, non lo sono mai stato.
Passiamo del tempo insieme, è vero. Ma è come se ogni volta pensassi di avere a che fare con qualcuno di diverso da lei.
«No, papà…».
Riesco a mandare le sue proteste in sottofondo e mi concentro sulla ricerca della cravatta giusta da indossare.
Nuovi squilli.
È un lampo. Viola afferra il cellulare da sopra il letto e corre verso il bagno.
«No! Viola!». Il tappeto scivola sotto i miei piedi, ma riesco a non cadere. «Ridammelo!”.
Il mio urlo la spaventa. Riesce a chiudersi la porta alle spalle.
La sento rispondere a Luca e dirgli che sarei rimasto con lei. Sento il rumore dello sciacquone.
Un minuto. Due. Tre. Perdo il conto.
Quando riusciamo a guardarci di nuovo, il suo viso è una maschera di lacrime. I singhiozzi sono prepotenti.
Dov’è il cellulare?!?
Non ho il coraggio di domandarlo. Non ho il coraggio di andare a vedere. Lei corre in camera.
La fisso, mentre stringe con forza il suo orsacchiotto.
Dovrei abbracciarla io in quel modo. Sono un padre orribile. Assente e orribile.
Squilla il secondo cellulare. Quello che Viola non conosce e che mi aiuta a non mescolare troppo le telefonate di lavoro con quelle personali.
«Lo so… mi dispiace… Viola non si rende conto…». È un balbettio di scuse, il mio.
Luca non mi lascia il tempo di finire neppure una frase.
«Ci sono in ballo un sacco di soldi!», grugnisce prima di sbattermi il telefono in faccia.
Lo so. Mi dispiace.
Provo a risolverla con Whatsapp. Luca capirà. Conosco il dolore per il divorzio dei suoi genitori, quando era piccolo. So che riuscirà a mettersi nei panni di Viola.
Corro da lei.
«Tesoro». La strappo via dall’orsacchiotto e la tiro addosso a me. «Scusami». Le accarezzo i capelli. «Hai ragione, avevo promesso».
La costringo a guardarmi, mentre cerco di regalarle un sorriso rassicurante: «Andiamo a prenderlo?».
«Miaooo!». Schizza in bagno per prepararsi.

Lo prendo per un sì.

mercoledì 23 agosto 2017

Il primo appuntamento può aspettare

"Vale, ma... a te piacerebbe cenare qui per un primo appuntamento?".
Smetto di masticare e mi blocco per ascoltare la risposta. All'inizio stento a capire il senso della domanda.
Silenzio.
Con la coda dell'occhio riesco a vedere il tavolo vicino. Una botte con sopra un disco di legno marrone scuro, per l'esattezza.
Sono in tre. Due ragazzi e una ragazza. Intuisco possa trattarsi, allora, di una richiesta di aiuto.
"Preferiresti una cena a base di pesce?". Arriccio le labbra, in una smorfia istintiva di disappunto. Tra hamburger e patatine e un piatto al sapore di mare... hamburger e patatine tutta la vita. Io. Tra un pub in stile irlandese e un ristorante con le salviettine al profumo di limone... pub tutta la vita. Io.
Vale continua a tacere. Forse non conosce la ragazza in questione e, per questo, le riesce difficile consigliare. Per me sarebbe troppo complicato e insolito intervenire.
"Di quelli sul lungomare, quale sarebbe - secondo te - lo chalet migliore?".
La cena a base di pesce immagino stia vincendo. Mi domando il perché.
Guardo il mio bicchiere di birra ancora pieno, le olive ascolane appena arrivate e caldissime. Ascolto la musica alle casse.
Mah, sì! Una cena in un pub sul lungomare sarebbe persino qualcosa di originale.
Io: pub tutta la vita.
Loro: preferiscono mettersi a parlare del liceo che sta per ricominciare.
Il primo appuntamento può aspettare.

giovedì 18 agosto 2016

Dodici minuti dalle Dodici

Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che, imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta, anche se poi arrivava sempre quel pensiero cattivo a ricordarle che i desideri non si avverano; solo perché gli occhi catturano l’immagine di due numeri gemelli dentro un display. O perché due lancette, una più veloce dell’altra, a un certo punto si ritrovano a segnare lo stesso valore.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che,  imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Lo faceva con la stessa noncuranza con cui, almeno una volta la settimana, entrava in tabaccheria per chiedere un ‘gratta e vinci’. Perché non si può sperare di essere fortunati, se non si è disposti a dare una possibilità – anche più di una – alla fortuna. Anche se poi non le era ancora mai capitato di vincere qualcosa e gli unici soldi che era riuscita a mettere nel portafogli, che non provenissero dal suo stipendio, li aveva effettivamente incontrati per strada, in fondo a una via solitaria, poco lontano da una cicca di sigaretta sporca di rossetto.
Una piccola banconota da cinque euro. Non certo quel che basta per dare una svolta alla vita.
Incontrarla a pochi metri da un bar, con lo stomaco che aveva appena cominciato a brontolare per la fame e con la consapevolezza che l’ora di pranzo fosse ancora abbastanza lontana da non riuscire a resistere fino ad allora, l’aveva convinta che potesse essere il momento giusto per uno spuntino. Cinque euro sono più che sufficienti per un cornetto alla marmellata, per un cappuccino, di quelli con il supplemento di schiuma e di polvere di cacao che non si dimenticava mai di chiedere ovunque fosse, e per un ‘gratta e vinci’ che, a giudicare dall’insegna blu sopra la porta, con molta probabilità avrebbe trovato appesi in lunghe file dietro il bancone.
Ci sono bar che, a una certa ora, riescono a essere più affollati di una piazza in un giorno di mercato e bar che – come quello – preferiscono garantire alla clientela una giusta quiete costante. Erica era felice di essersi imbattuta in un posto del genere. Poté poggiare su una sedia le sue buste degli acquisti, senza che a qualcuno venisse in mente di chiederle un attimo dopo se per caso quella fosse una sedia libera e se, per gentilezza, avrebbe potuto prenderla.
Poté allontanarsi dal tavolo, senza portare con sé il timore che qualcuno avrebbe potuto approfittare della sua assenza per toccare le sue cose o, e non seppe stabilire se sarebbe stato peggio, rubarle il posto. Poté rimanere davanti il bancone delle cose da mangiare per tutto il tempo che reputò necessario, senza per questo sentirsi in imbarazzo davanti al barista. Senza rischiare di essere strattonata da altri affamati; più affamati di lei. E potendo scegliere (senza fretta) effettivamente quello che avrebbe voluto scegliere, scegliendo con gli occhi.
Grazie alla calma del luogo si accorse infatti di essere entrata – sì – per un cornetto alla marmellata e per un cappuccino con tanta schiuma, ma di voler chiedere un panino con prosciutto cotto e maionese e un bicchiere di spremuta d’arancia.
Chiedeva sempre una spremuta d’arancia, anche se poi – il più delle volte – in molti bar si ritrovava costretta a ripiegare sul succo in bottiglietta; che non ha niente a che vedere con il sapore delle arance appena spremute.
L’uomo dietro il bancone impiegò pochissimi secondi a spaccare i tre frutti necessari per riempiere un bicchiere e a Erica parve che l’aria dentro il locale s’impregnasse all’improvviso di quel buon odore di agrumi.
Tornò a sedersi insieme al suo panino e non riuscì a evitare di sorridere imbattendosi nel suo riflesso dentro a uno specchio a muro un po’ segnato dal tempo.
«Ecco a lei». A giudicare dalla pelle delle mani Erica avrebbe detto che quel barista non potesse essere tanto in là con l’età, ma le rughe sul viso tradivano una vita già vissuta per la maggior parte e la luce negli occhi, seppur ancora presente, sembrava essere una di quelle luci non più fresche come quelle che si trovano in gioventù o, comunque, nel buono degli anni.
Quel bar era il bar giusto anche per questo. Segno che i cinque euro trovati per strada non si erano fatti trovare davanti ai suoi piedi per caso. Per la prima volta qualcosa l’aveva spinta ad entrare proprio lì, in quel posto che aveva sempre ignorato. E si era ritrovata ad avere a che fare con una persona sconosciuta, ma che – a pelle – già godeva di tutta la sua fiducia. Una persona che, in qualche modo, la faceva sentire bene.
«Grazie!». Prese il bicchiere dal piccolo vassoio d’acciaio, cercando di nascondere il tremore delle mani che alle volte era in grado di procurarle un disagio. Aveva sentito diversi medici al riguardo e, per fortuna, tutti i controlli fatti avevano portato a credere che non ci fosse nulla fuori posto. Così, visto che le mani continuavano a ballare una danza tutta loro  di tanto in tanto, alla fine ad Erica era stato detto che – con molta probabilità – poteva trattarsi di una reazione emotiva. Reazione a che cosa? Non era dato sapere. Emotivamente parlando, però, Erica avrebbe preferito non dover aggiungere anche quello alla sua lunga lista di ‘difetti’.
«Ha trovato qualcosa di interessante in libreria?». Il barista indicò le buste con un cenno, scostandosi di qualche passo in direzione del bancone. Dei tre libri che Erica aveva appena acquistato, solo di uno era assolutamente sicura e fu quello di cui gli parlò.
«Una bella storia d’amore. Una di quelle con il lieto fine sicuro, qualunque cosa accada in mezzo alle pagine». Sorrise. A ben pensarci, avrebbe potuto approfittare di quella sosta imprevista in quel bar per leggere un po’. Ma non lo fece.
Ignorando l’imbarazzo di parlare guardando dritto negli occhi il suo interlocutore, chiese invece: «A lei piace leggere?». Il bar era tanto bizzarro da non tenere in giro neppure un quotidiano, perciò c’era da credere che il barista avesse qualche tipo di avversione per la parola scritta e che gli avesse fatto quella domanda solo per dimostrarsi cordiale.
Quando Erica lo vide tornare di nuovo dietro il bancone per tirar fuori da un cassetto una vecchia agenda di pelle e una bellissima penna stilografica, non riuscì a evitare di spalancare la bocca per lo stupore.
«Mi piace scrivere, anche se non sono poi così bravo».
«Sta scrivendo qualcosa, adesso?».
Il sorriso del barista lasciava intendere di sì, ma la sua testa rispose comunque muovendosi a destra e a sinistra.
«Peccato. Mi sarebbe piaciuto poter leggere qualcosa scritto da qualcuno che…». Erica interruppe la frase a metà, consapevole che chiuderla con la parola che aveva in mente – ossia ‘conosco’ – non fosse proprio dire la verità. Sarebbe stato più giusto affermare che le sarebbe piaciuto poter leggere qualcosa scritto da una persona cui poter stringere la mano, poi, per congratularsi del lavoro fatto. Questo, sì! Anche se, a ben pensarci, anche in tal caso non era certa che le parole del barista le sarebbero piaciute al punto da congratularsi con lui.
Scelse di rimanere in silenzio, concentrandosi sull’ultimo morso del suo panino.
«Potrebbe tornare qui fra qualche giorno e chiedermi di nuovo se ho qualcosa di finito da farle leggere, sono sicuro che per allora mi sarò fatto venire in mente almeno una piccola storia». Il barista aprì le pagine della sua agenda fino a trovarne una completamente bianca e svitò il tappo della sua stilografica come a lasciar intendere che si sarebbe messo subito all’opera.
Erica non riuscì a evitare di ridere di gusto. Non fosse stato per l’imbarazzo della richiesta, gli avrebbe domandato la possibilità di fare una fotografia insieme. Lei, lui, l’agenda e quella stilografica che poteva considerarsi, senza sbagliare, la fuoriclasse delle penne.
Continuando a tenere il cellulare in tasca, però, preferì alzarsi per raggiungere la cassa e pagare il conto.
Aveva già allungato la banconota da cinque euro oltre il bancone, che si sentì dire: «12 e 12. Esprima un desiderio…». Non era sicura che valesse, così, su comando. Né era sicura che fosse valido esprimere un desiderio in quel caso, per il fatto che non erano stati i suoi occhi a catturare la coincidenza. Ma Erica preferì ubbidire, senza pensarci troppo. Era comunque un’occasione in più, che avrebbe potuto dare a tutto ciò che avrebbe voluto diventasse realtà.
Per i desideri vale un po’ quel che vale per la fortuna. Se non si è disposti a dar loro un’opportunità quando se ne presenta l’occasione, poi non ci si può lamentare del fatto che non si avverino.
Aveva l’abitudine di esprimere un desiderio ogni volta che, imbattendosi in un orologio, le capitava di trovare ore e minuti uguali.
Pensò fosse buffo che anche quel barista custodisse in sé la stessa mania.
Lesse lo scontrino per controllare che fosse vero. Che fossero davvero appena passati dodici minuti dalle dodici.
In quel momento lesse anche un nome… Giuseppe.
«È lei Giuseppe?». Stavolta, la testa dell’uomo si mosse in su e in giù per rispondere di sì.
Erica pensò che un tipo del genere non l’avrebbe certo rintracciato su Facebook. Per questo, si affrettò ad allungare una mano e a presentarsi: «Mi chiamo Erica…». Avrebbe voluto raccontargli del modo bizzarro in cui aveva deciso di entrare in quel bar per la prima volta, ma non lo fece.
Non chiese nemmeno il ‘gratta e vinci’ che aveva immaginato avrebbe chiesto prima di uscire.
Quei cinque euro trovati per strada le avevano appena pagato una delle colazioni più tranquille, buone e insolite della sua vita e le avevano appena regalato la possibilità di esprimere un desiderio. Non poteva chiedere di più.
Forse, la prossima volta che sarebbe tornata a trovarlo, avrebbe potuto giocare una partita con la fortuna. E, magari, Giuseppe le avrebbe fatto trovare una storia scritta ispirandosi a quel loro breve attimo insieme. Magari, Giuseppe avrebbe potuto scrivere un racconto che parlasse dei desideri che si esprimono, quando il tempo è fatto di numeri uguali. Magari, lei avrebbe fatto in tempo a finire il libro di cui gli aveva accennato e avrebbe potuto raccontarglielo con maggiore precisione. Avrebbe potuto chiedere un’altra spremuta, per respirare di nuovo l’odore del frutto fresco nell’aria, o scegliere di farsi venire i baffi bianchi; sorseggiando un cappuccino schiumoso.
Aveva la certezza che sarebbe tornata in quel posto ed era comunque tutto ciò che contava.
Alle 12 e 18 si salutarono con un: «Arrivederci!» detto all’unisono.
Pare che alcuni esprimano desideri anche in situazioni del genere, quando la stessa parola esce da bocche differenti nello stesso momento.
Loro… no! Loro avrebbero aspettato di nuovo di imbattersi in ore e minuti uguali.


martedì 13 ottobre 2015

Storie di Angeli!

Scrivere. Avere scritto. Essersi lasciata ispirare dalle bellissime illustrazioni di Cristina Berardi​. Da una, in particolare. Felicissima, scopro una busta gialla per me. È tra la posta arrivata oggi. "Già! Mi ero dimenticata di dirti che hai una raccomandata". La mamma e la sua memoria ballerina; prima o poi la obbligherò a fare una cura di fosforo. È già da qualche giorno che sto aspettando questo pacchetto e non vedo l'ora di poter stringere il contenuto tra le mani. Apro comunque con attenzione. È uno di quei casi in cui l'impazienza va tenuta sotto controllo. Assolutamente. 
Sono senza parole. E' sempre un battito di cuore speciale. È bellissimo. Sfoglio in fretta tutto, rimandando una lettura più attenta. Arrivata alla pagina con su il mio nome, mi scopro a trattenere il fiato. È già passato un po’ di tempo, spero sarà un piacere rileggere anche le mie parole. 




Grazie!!! 
A tutti. A Cristina. A chi ha saputo rendere realtà un bellissimo progetto. Agli altri 'colleghi autori'. A chiunque avrà voglia di perdersi un po' tra le righe di tante... Storie di Angeli! 

domenica 27 settembre 2015

Ballo in Piazza

Quei piccoli ricordi che arrivano all'improvviso. Belli. Semplici. Comunque speciali.
Facebook dice che oggi Jovanotti compie 49 anni. Auguri! Cerco tra le sue canzoni la colonna sonora per questa giornata. Mica facile, le sue mi piacciono tutte. Mi imbatto in Safari e penso possa fare al caso mio. Mentre l'ascolto, come al solito divago con i pensieri e... mi ricordo di questo. 
Un'insieme di ispirazioni. La bellezza di una sua vecchia canzone scoperta per caso, la magia di un messaggio ricevuto da un'amica virtuale. Il rimanere a guardare le due cose fondersi insieme nella mente, per poi provare a raccontarle insieme. Il tutto condito con una manciata di fantasia e con una pizzico di polvere di stelle; perché è importante non smettere mai di credere nella forza dei propri Sogni!

Il racconto è uno di quelli della raccolta "Sotto l'Albero". Siamo nel 2012. La scrittura risale a un anno prima. Lo rileggo e noto delle piccole differenze, rispetto al mio stile di oggi. Una consapevolezza che porta con sé un pizzico di piacere, perché vuol dire essere riuscita a crescere in qualche modo. Ma avverto anche un pizzico di fastidio, nel sentire presente quella parte di me che, dovesse riscriverlo adesso, non userebbe le stesse parole.
Consiglio di lettura: YouTube alla mano, cercate il brano. E' bellissmo! :-D
Il titolo della canzone? Il Re. E' il 1997...
Ok! Lo cerco io per voi... ecco il Link! Basta un click.  
Buona domenica a tutti, alla prossima!

Ballo in Piazza


Hey, puoi veder la mia corona? Guarda il colore rosso del mantello
e questo trono ed il tappeto guarda
io sono il re e questo è il mio castello…

La voce di Angelo era più dolce che mai. L’orecchio di Alessandra ed il collo, piacevolmente accarezzati da quel respiro caldo. Gli occhi, fissi sul cielo stellato sopra di loro.
Alessandra stava cercando di non mettersi a piangere. Ma una lacrima dispettosa sfuggì comunque al suo controllo; per cadere dritta, dritta sopra alla giacca nuova di lui.
Respirò profondamente, prima di immergersi per l’ennesima volta nella profondità di quello sguardo che l’aveva fatta innamorare mesi prima.

…Il regno mio si estende all’infinito
Lungo le valli, i monti, il cielo e il mare
Io sono il re del tempo e della storia
Io sono il re venitemi a guardare…

Le labbra di Angelo, illuminate appena dalle luci gialle e lontane dei faretti, continuavano a muoversi su quella canzone.
Quella canzone, che lento non era. Ma che… era tutta loro.
Alessandra lo strinse ancora più forte a sé e mosse la mano piccola, in quella più grande di lui, fino ad intrecciare le dita con le sue.
Avrebbe voluto confessargli per l’ennesima volta quanto lo amava, ma tacque.
Sperando di non inciampare nei laccetti delle scarpe, che sapeva di non aver stretto bene, continuò a ballare.
Se era vero ciò che le avevano sempre detto sul primo giorno dell’anno; se era vero che era da considerarsi un po’ lo specchio di tutti i restanti, allora quel duemiladodici era cominciato sotto il migliore degli auspici.
Un desiderio che si realizza è un battito di cuore più forte degli altri.
Ricordava di aver parlato con Angelo di quel suo sogno speciale, ma… non pensava che Angelo l’avrebbe presa tanto sul serio.
Era stato l’agosto prima in spiaggia a Fregene, sdraiati sui lettini dopo una lunga nuotata.
“Perché, quel libro sempre appresso?”. Le aveva chiesto lui sorridendo, mentre lei era già pronta ad aprire per l’ennesima volta quelle pagine.
Quindi, incapace di trattenere l’entusiasmo, Alessandra aveva cominciato a raccontargli di quella sua vacanza di anni prima a Gubbio.
Insieme con i genitori era andata a trascorrere qualche giorno in Umbria e, camminando per le vie della città dei Ceri, si era imbattuta nell’immagine della copertina di quel libro.
Il manifesto annunciava alla cittadinanza una presentazione ormai passata, ma… ad Alessandra era bastato fissarsi per caso su quella che sembrava essere una bella storia d’amore, per decidere che alla prima libreria che avrebbe incontrato ne avrebbe acquistata una copia.
Da allora, rileggeva quella storia almeno una volta all’anno.
“Spero di poter vivere anch’io un amore così, un giorno”. Le aveva detto arrossendo.
Un rossore che era andato peggiorando, quando Angelo – sorridendo a sua volta – le aveva chiesto: “E quale sarebbe la parte che ti piace di più?”.
Alessandra confessò di ripensare spesso a quel sogno che la protagonista aveva fatto durante un viaggio in pullman, di perdersi nell’incanto di un romantico ballo in piazza Grande e di rimanere proprio senza fiato ogni volta che nella mente riusciva a focalizzare una scena simile.
“Ti andrebbe di leggerlo per me?”. Angelo sembrava sincero, anche se Alessandra non poteva negare di aver pensato che la stesse prendendo in giro.
Un attimo. Un solo attimo, poi quel pensiero svanì e tutto ciò che rimase fu la bellezza di poter condividere quel piccolo momento.
Aprì il libro fino a pagina trentasei e lesse sicura.
Non le era mai piaciuto leggere ad alta voce, ma… farlo per Angelo sembrava non pesarle affatto.

…Perché sono innamorato
E sono corrisposto
Io sono il re, io sono il re di questo posto
Senza regno né corona
Con una donna che mi vuole bene…

Quella parte della canzone… quelle parole…
Alessandra sentì una nuova lacrima rigarle il viso e la osservò morire nello stesso punto della giacca; dove era morta la prima.
“Ti amo”. Anticipò di una frazione di secondo il luccichio di un flash.
Poteva essere che turisti arrivati sin lì da chissà dove stessero immortalando l’imponente bellezza del palazzo dei Consoli; a ferma testimonianza di un orgoglioso: “Ci sono stato anch’io”.
Ma poteva anche essere che qualcuno lì avesse notati in mezzo a tutto il resto, ballare stretti come se il mondo fuori non esistesse, ed avesse deciso di immortalare quella testimonianza. Rendere indelebile un amore forte e raccontare agli amici una volta a casa – magari davanti ad una pizza e con in mano un bicchiere di birra – che si aveva avuta la fortuna di esserci; di fronte alla dimostrazione del più potente dei sentimenti.
Alessandra sorrise appena.
Poi, prendendo Angelo in contropiede, si schiarì la voce e iniziò a cantare insieme a lui.
Poco, ma sicuro, se Jovanotti li avesse sentiti in quel momento non sarebbe riuscito a farsi sfuggire un applauso; nemmeno per sbaglio.
Ma niente rende ridicoli, se la decisione di fare parte dal cuore e porta con sé le giuste motivazioni.
Alessandra avrebbe voluto gridare al mondo intero la sua fortuna.
In fondo, però, bastava che fossero due le orecchie tese ad ascoltare.

… Io sono il re, ma lo so solo io
E lo sai solo tu amore mio
Nessuno può veder la mia corona
Ma sono il re, io sono il re in persona…

Una giravolta e un’altra ancora. Angelo continuò a farla danzare, come se stessero ballando sul più importante dei palcoscenici.
I suoi occhi si persero per l’ennesima volta in quelli di lei e – in quel momento – furono sue, le lacrime a scendere.
“Ti amo. Da sempre”.

…Perché sono innamorato
E sono corrisposto
Io sono il re
Io sono il re di questo posto
Senza regno né corona
Con una donna che mi vuole bene
Con una donna che mi vuole bene
Con una donna che mi vuole bene…

Sorrisero. Le dita, ancora intrecciate.
Ad Alessandra parve di sentire nell’aria perfino il suono dei piatti, il rumore dei tamburi e il trillo dei flauti.
Un attimo di silenzio ancora, prima di un tenerissimo bacio.
Il tocco delle labbra. Il suono possente del Campanone che rintoccava l’ora.
Sì, Alessandra non aveva più dubbi.
Quella piazza…
Tutto e tutti, in quella piazza, stavano vivendo insieme a loro quel magico momento.
Lasciò che la lingua di Angelo la accarezzasse ancora per un po’, poi – seppur dispiaciuta – si staccò da quella bocca sorridente e chiese: “Pizza?”.
Il tempo da trascorrere in quella bellissima città rimaneva poco, ma… Alessandra sapeva esattamente dove andare.
A passo lento lungo via dei Consoli, fino ad arrivare di fronte alla fontana del Bargello.
“Il battesimo dei matti lo rimandiamo alla prossima, vuoi?”.
Era fuori discussione, che sarebbero tornati in quel posto; ogni volta che sarebbe stata loro possibile.
E Alessandra non poté fare a meno di impazzire di gioia, al solo pensiero.
Strinse ancora una volta le braccia intorno al collo di lui, si mise ancora una volta in punta dei piedi per poter arrivare a baciarlo senza che dovesse essere lui ad abbassarsi, poi – con lo stesso filo di voce con cui lo aveva accompagnato cantando – disse: “Grazie, per avermi concesso questo ballo. Sei il mio Angelo”.
Nulla di più.

In fondo, non c’era nient’altro da dire.

lunedì 6 aprile 2015

Dodici palloncini rossi

Tolse gli occhiali da sole, un attimo prima di entrare in negozio.
Aveva con sé il portafogli, il cellulare e un libro.
Non era abituato a cose del genere. Sentì il dubbio di voler fare marcia indietro.
«Buongiorno! Posso esserle utile?». Il sorriso spontaneo della ragazza dietro il bancone lo convinse a farsi coraggio.
«Buongiorno a lei! Preferirei dare un’occhiata prima, se non le dispiace». Si avviò verso lo scaffale, dritto davanti a sé. Cercò di perdersi tra ninnoli vari per le feste e pacchi interi, di stoviglie di plastica in ogni forma e colore.
Gli era bastato alzare gli occhi al soffitto, per capire di essere nel posto giusto. Fiori di palloncini erano appesi ovunque.
Si fermò un attimo, a guardare la parete riservata alle candeline. Non era lì per un compleanno.
Avvicinandosi lentamente al bancone, sorrise di nuovo. Chissà perché, quel secondo sorriso fu più stentato.
«Potrei… potrei avere un mazzo di palloncini rossi?». Chiese indicando i pacchetti colorati alle spalle della ragazza.
«Che non siano palloncini troppo grandi… vorrei somigliassero a un mazzo di rose».
La ragazza dietro il bancone sorrise di nuovo. Aveva dei bellissimi occhi azzurri, che si accesero di curiosità.
«Sono un regalo per la sua ragazza?».
Non avrebbe dovuto chiederlo. La discrezione era la prima buona regola del venditore.
Già alle prese con la scelta dei palloncini giusti, si affrettò a scusarsi: «Mi dispiace. Non volevo essere invadente».
Le era rimasta viva dentro la curiosità di sapere per chi fosse quel mazzo di palloncini rossi, ma fece finta di niente.
Gonfiati i primi quattro, si rese conto di aver bisogno di un’altra informazione.
«Quanti?». Aveva cominciato a contare gli stecchi, che sarebbero serviti per tenerli fermi tra le mani.
«Qual è il numero giusto, per chiedere a una ragazza di uscire con te?». Conosceva la mania che c’era, per le rose, di regalarle a dozzine o a mezze di esse. Chissà se… per i palloncini valeva altrettanto?
Stava torturando uno spigolo del libro con le dita, quando la voce della ragazza si decise a tranquillizzarlo: «Direi che dodici possano andare bene. Sarebbe proprio un bel mazzo!». L’ennesimo sorriso. «Fosse un regalo per me, ne sarei entusiasta!». Risero entrambi.
«Potrebbe reggere un attimo qui, per favore?». Gonfiato anche l’ultimo palloncino, serviva di trovare qualcosa per riuscire a tenerli insieme.
«Che ne pensa di un grande fiocco di raso verde?». Non era pratico di certe cose. Si limitò ad annuire.
«Posso aggiungere delle farfalle finte?». Annuì di nuovo. Si ricordò del libro che aveva con sé.


«C’è il modo di aggiungere questo? E… vorrei scrivere un biglietto, se ha una penna da prestarmi».
I cartoncini, insieme con le buste colorate, erano sistemati vicino alla cassa. Ne prese uno di un verde più leggero, rispetto al nastro di raso che la ragazza aveva scelto per il fiocco.
Trovata una penna vicino la calcolatrice, pensò un attimo a cosa scrivere.
Non era bravo con le parole. Mai stato.
Passati inutilmente cinque minuti, decise di lasciarsi ispirare da una frase del libro. L’uomo dei palloncini volanti lo avrebbe aiutato.

Vorrei essere per Te, un Principe Azzurro!

Si ritrovò a sorridere. Chi l’avrebbe detto.


Lui. Proprio lui, che era sempre stato dell’idea di non credere in certe cose.

Era bastato uno sguardo. Un sorriso. Poco di più. Per ritrovarsi ad avere a che fare, con il suo sogno più grande!

martedì 30 dicembre 2014

Fiocco, dopo fiocco...


Naso di carota, braccia di rosmarino. Indossa una sciarpa di raso e in testa ha un campanellino. Di giornale è il cappello, di vetro sono i bottoni. È arrivato fiocchettando e sorride ai bimbi buoni. Quante emozioni poter guardare, altra neve fiocchettare. Presto o tardi, chi lo sa, nuova festa si farà! 


domenica 2 marzo 2014

Una violetta... per un desiderio!


Sentire sotto ai piedi la terra bagnata ed eccessivamente morbida era il chiaro segno che per troppo tempo non aveva fatto che piovere. I raggi del sole, i primi dopo tanti giorni di nuvole grigie e di pesanti gocce d’acqua, davano fastidio agli occhi. Tanto, da sentire la necessità di schermarli con una mano.
La piccola Viola stava camminando, insieme con la zia. Il verde del grande prato tutt’intorno era tutto ciò che i suoi occhi di bimba riuscivano a percepire.
Avrebbe voluto portare con sé l’aquilone, ma il vento non era abbastanza forte dal lasciare sperare che sarebbe riuscito ad alzarsi in volo. Per questo, allora, si era accontentata di fare uscire di casa il vecchio, fidato Tobia. Tobia era un peluche a forma di cane che, nonostante l’aspetto pulito e leggermente arruffato, ne aveva già viste di tutti i colori. Era stato per Viola il primo, morbido regalo e – a sconcerto di chi le aveva regalato per il compleanno qualcosa di decisamente più moderno, colorato e accattivante – quel peluche era stato da subito tutto ciò che Viola aveva sempre voluto avere con sé. Guai a uscire di casa per seguire la mamma al supermercato, se anche Tobia non era nel passeggino. Assolutamente no al fatto di prendere in considerazione l’idea di andare a trovare i nonni nella casa di campagna (dove poi – di solito – Viola e genitori avevano l’abitudine di fermarsi per un giorno intero), se anche Tobia non era stato caricato in macchina insieme a tutto il resto.
Viola e Tobia facevano colazione insieme, giocavano sul divano insieme, si divertivano a fare le capriole sul pavimento insieme, insieme guardavano la televisione prima e dopo aver cenato e – sempre insieme – si coricavano nel piccolo, accogliente letto della bambina; per dormire quel tanto che bastava a due spiriti energici come i loro, prima di una nuova, grande giornata di avventure domestiche.
Nonostante questo però… non v’era dubbio che non solo Viola non ne avesse ancora abbastanza di Tobia, ma anche che… Tobia non sembrava essere ancora tanto stanco da accettare tranquillamente l’idea di essere messo da una parte. Nessuno dei due, per dirla con poche parole, sembrava avere la minima intenzione di fare a meno della buona compagnia dell’altro.

Viola era una bimbetta sveglia. Capelli ricci, biondi e lunghissimi. Un nasino buffo e quasi sempre arrossato, che in molti si divertivano a chiamare ‘nasino patatino’. Non che le dispiacesse. Oltre a non essere una bambina permalosa, Viola incarnava tutto ciò che un  bambino di quell’età dovrebbe essere. Quando la scuola è una realtà ancora abbastanza lontana, ma non si è nemmeno tanto piccoli da non capire il verso delle cose. Anzi... quando si è piccoli, si possiede il dono di vedere il mondo con occhi speciali e anche il cuore reagisce sempre bene (o quasi) a tutto ciò che ci viene riservato. Per questa ragione, quando zia Lucia richiamò la sua attenzione utilizzando proprio quelle due strambe parole, Viola non fece un frizzo. Si limitò prima a guardarla, in un secondo momento le sorrise e, alla fine di tutto, le si avvicino tanto da arrivare a prenderla per mano; per convincerla a fare una corsa insieme.
Qualcosa le diceva che la zia non era del umore giusto, ma Viola evitò di chiederne il perchè.
Inizio a correre velocemente. Tanto velocemente, che zia Lucia faticava sul serio a starle dietro.
In men che non si dica, cominciarono ad avere il fiatone. Ma non per questo Viola si decise a rallentare. Correre era una delle cose più belle al mondo. E quando capitava di poterlo fare in un grande prato, era quanto di meglio si potesse desiderare per una corsa.
Viola correva e sorrideva, sperando che anche zia Lucia riuscisse a fare altrettanto. A volte correva in circolo, a volte correva a zig-zag, altre volte – ancora – correva andando verso la strada. La bimba cercò di lasciarsi andare più che poté e fu felice quando, guardando per l’ennesima volta in direzione della zia, si accorse che l'espressione del suo viso si era addolcita.
L’aria stava perdendo lentamente l’odore della pioggia, ma non si poteva comunque negare che a tratti si sentisse il tipico aroma della terra bagnata. Insieme, continuarono a correre ancora per un po’. Fino a che Viola decise di fermarsi di nuovo e di stringersi di nuovo a Tobia. Povero, tenero Tobia. Non v’era dubbio che quella corsa doveva averlo sballottato troppo!
«Che dici zia… pensi che durerà questo bel sole?». La nipotina avrebbe voluto sedersi sull’erba, come faceva sempre dopo una corsa all’aria aperta, ma… proprio non era il caso di sporcarsi. Poi… chi le avrebbe sentite le urla della mamma alla vista dei pantaloni macchiati di fango?
«Potrebbe. In fondo… dopo tutta questa pioggia…». Lucia sorrise per la prima volta, quel giorno. Lentamente, anche i raggi del sole cominciavano ad essere meno fastidiosi. «Sarebbe bello poter pensare che sia in arrivo la bella stagione, ma… potrebbe anche piovere di nuovo».
La zia rimase a guardare Viola che continuava a muoversi sulle gambe, come faceva sempre quando avrebbe voluto fare qualcosa di diverso da quello che stava facendo.
«Ti va di camminare ancora un po’, prima di andare al bar a prendere una cioccolata calda?».
«Io e Tobia vorremmo arrivare fino al dondolo del parco, va bene?». La nipotina rimase a guardarla. Poi, al sorriso della zia, iniziò a correre.
Il dondolo non era lontano. Quando anche Lucia lo raggiunse, Viola era già seduta sopra alla panchina di ferro e si stava dondolando.
Lucia non ricordava l’ultima volta che le era capitato di dondolarsi su qualcosa del genere, ma guardare la nipote divertirsi tanto la fece sorridere per l’ennesima volta. Guardava lei, il fedele Tobia e…
«Che cosa stringi nella mano?». La mano della bimba era chiusa a pugno e per un attimo Lucia temette che potesse aver raccolto per terra qualcosa che non avrebbe dovuto toccare. In un attimo si sentì il cuore schizzare nelle tempie e riuscì a tranquillizzarsi solo dopo che la nipotina le lasciò vedere che cosa custodiva tra le dita.
«Una violetta? Dove l’hai trovata di questi tempi?».
Viola lasciò Tobia da solo sul dondolo e portò la zia fino alla fontanella d’acqua che c’era nel parco.
Poco lontano dalla colonnina di metallo con il rubinetto, tra il verde delle foglie a forma di cuore, piccole teste viola da cinque petali sbucavano in qua e in là. D’improvviso, allora, Lucia ebbe come l’impressione che in quel punto preciso l’aria avesse un odore buono; quello tipico della primavera. Avrebbe voluto sedersi sopra ai fili d’erba e immergere il naso in quella strana nuvola multicolore, ma non lo fece.
Limitandosi a raccogliere un fiore, disse solamente: «Lo sai che le violette si possono mangiare?». Quelle parole furono come la chiave per una porta sul passato.
Lucia era piccola. La sua piccola mano nascosta e protetta dentro a quella più grande e segnata dal tempo del nonno. Come quella mattina, anche allora il sole aveva deciso di tornare a fare il suo mestiere, dopo giorni e giorni di pioggia e di freddo. L’oliveto di famiglia contava diverse, grandi piante. Ma, una in particolare era la preferita di Lucia. Non perché avesse foglie diverse dalle altre o, quando d’autunno arrivava la stagione delle olive, perché si riempisse di olive speciali; rispetto agli altri alberi d’olivo. Ma… perché buona parte del pedale della pianta era cavo e, dentro a quella cavità in parte ricoperta di muschio, si nascondevano agli occhi di chiunque passasse di lì (per una passeggiata, per raccogliere funghi, asparagi, more o altro) alcune giovani pianticelle di violette. Il nonno le aveva piantate per lei.
« È un fiore molto speciale, le aveva detto non appena furono fiorite per la primissima volta. È il fiore dei desideri». Lucia aveva sempre saputo interrogare le margherite, con quel gioco meticoloso della conta dei petali. Sapeva che anche imbattersi in una coccinella poteva essere segno di buon auspicio. Ma, delle violette… No! Della magia celata tra i petali di una violetta, non aveva mai sentito parlare.
Eppure… non ebbe esitazione alcuna quando il nonno, porgendogliene una dall’intenso colore viola e dal fortissimo buon profumo, le disse: «Mangiala ed esprimi un desiderio. I desideri sono questioni speciali, mia cara. E non si possono affidare solo alle stelle. Come esseri umani, abbiamo il dovere di fare di tutto per essere felici. Ed avere dei desideri e dei sogni in cui credere è forse l’arma più forte che ci è stata data… dopo la Fede». Lucia chiuse gli occhi, stringendo il piccolo fiore tra le dita. Rimase immobile un attimo ad ascoltare i pensieri del cuore e, non appena la mente ebbe trovato le parole giuste per esprimere le sue speranze di bimba, aprì la bocca ed inghiottì il fiore. Il nonno fece altrettanto.
Non seppe mai cosa il nonno avesse desiderato in quel momento, né mai rivelò a qualcuno cosa lei stessa avesse chiesto alla sua violetta. Lucia sapeva di essere stata fortunata e questo le bastava.

Viola sgranò gli occhi dalla sorpresa e continuò a guardare  la zia.
«Proprio così… nasino patatino! La violetta non solo è un fiore che si può mangiare, ma… mangiandolo puoi affidarle un desiderio. Vorresti provare?».
Zia Lucia raccolse altre due violette dal piccolo branco di fiori e mentalmente si trovò a ringraziare il cielo che quel parco, almeno per quel che riguardava quella parte riservata ai giochi all’aperto per bambini di tutte le età, fosse interdetto agli animali. Non che una violetta cresciuta all’aperto, all’ombra di una pianta d’olivo poco lontano da casa, fosse di per sé più pulita di una violetta nata in un parco cittadino, ma… poco, ma sicuro, sarebbe stato peggio avere il sospetto che qualche cane avesse scelto proprio la zona delle violette accanto alla fontanella, per i propri bisogni.
Ad ogni modo… per esserne ancora più certa di non stare facendo qualcosa di sbagliato, Lucia aprì il rubinetto dell’acqua e diede una vigorosa sciacquata ai due piccoli fiori. Tolse le parti verdi che erano di troppo e le due violette erano pronte per essere mangiate.
Chissà se quelle due violette erano consapevoli che sarebbero diventati le custodi di due sogni?
Lucia si ritrovò a domandarselo, mentre osservava la piccola mano di Viola che era già aperta davanti a sé e mentre sorrideva alla nipotina, che sembrava aver dimenticato qualsiasi altra cosa e stava aspettando con pazienza solo di poter sperimentare quel qualcosa di nuovo.
«Sei pronta? Hai pensato bene a che cosa desiderare? Sei proprio sicura, sicura… che sia il desiderio giusto?».
Viola fece di sì con la testa. Una sola volta, per lasciare intendere comunque un sì collettivo, in risposta a tutti quegli interrogativi.
Allora…

Violette nelle mani…
Occhi chiusi…
Desideri nel cuore…

Nella bocca, il sapore di quel piccolo fiore era particolare. Dolce, ma non stucchevole quanto sarebbe quello di una zolletta di zucchero. Era molto di più simile al dolce sfuggente di una sola goccia di miele poggiata sulla lingua. Quel tipico sapore dolce, che non fai in tempo ad avvertire che è già sparito.
Anche la consistenza era interessante. Per quanto fosse ben poca cosa da mandar giù, aveva la croccantezza tipica dell’insalata. Quel tipico stridore tra i denti, che hanno le cose verdi e crude. Quel tipico scricchiolio ad ogni masticata, che per qualcuno (per fortuna, non per Viola) rappresentava un vero e proprio fastidio e una ragione più che valida per tenere alla larga dal piatto simili pietanze.
Lucia rimase ad osservare la nipotina, mentre la sua viola era già sparita dalla  bocca per arrivare allo stomaco insieme al suo desiderio.
«È tutto ok?». Le chiese.
Viola aveva faticato un po’ con un petalo, che sembrava non volerne sapere di staccarsi dal suo palato. Ma, a parte quello, era tutto ok.
La bimba prese di nuovo la zia per mano. La riportò accanto al dondolo dove Tobia era rimasto ad aspettarle e, riacciuffato anche l’amico peluche, la trascinò verso l’uscita del parco.
Una nuova corsa. Un nuovo fiatone. Con il sole brillante sopra alle loro teste, che ad ogni minuto che passava si faceva sempre più caldo. Forse… era giusto sperare che la primavera stesse arrivando; alla barba di chi continuava a piagnucolare l’arrivo fuori stagione del freddo.
Lucia sorrise al cielo, certa che il nonno le stesse guardando e che approvasse quella mattinata di assoluta spensieratezza. «Sono sicura che Viola sarà una grande sognatrice. Proprio come te… nonno!». Lo disse tra i denti, ma ad alta voce. Amava la possibilità di dare sonorità ai propri pensieri e lo faceva tutte le volte che riteneva giusto e opportuno farlo.

Strinse più forte la piccola mano della nipotina. Una bella cioccolata calda le stava già aspettando da qualche parte. Correre… correre… correre!

sabato 9 marzo 2013

Se è nel Cuore...

Influenzata, ma... con un racconto nel cassetto che smaniava per uscire. Penso sia ormai innegabile quanto alle parole basti poco per nascere... così, anche una tranquilla passeggiata può essere fonte di ispirazione. Perché è camminando che ho incontrato qualcosa che ha attirato la mia attenzione, è camminando che sono tornata a fotografarlo ed è sempre camminando che ho cominciato a regalare a questo 'qualcosa' una storia tutta sua... un 'secondo me' che non è realtà, ma che - in fondo - potrebbe anche esserlo. Un 'secondo me' che è la vita che ho creato... per questo 'qualcosa'  di cui non saprò mai il vero significato. Un 'secondo me' che è pura fantasia e che, come frutto di fantasia, lascia intatto il fascino dell'essersi imbattuti in 'qualcosa' di insolito, dell'averlo ammirato e del chiedersi ancora... 'chissà chi l'ha messo lì e perché...' 
Ditemi... cosa ne pensate?


Sul cartello attaccato alla porta, poco sopra la maniglia, c’è scritto che il negozio chiuderà in anticipo sul orario. Guardo l’orologio e mi rendo conto che ho giusto dieci minuti di tempo per entrare, raccogliere tutto il mio coraggio, chiedere quello che ho in mente di chiedere, pagare ed essere di nuovo fuori prima che il suono del Campanone si diffonda ancora nell’aria ad annunciare il mezzodì.
“Buongiorno! Posso esserle utile?”. Il ragazzo dietro al bancone avrà si e no trent’anni. Ma, nonostante questo, mi tratta con estrema cortesia e mi riserva un ‘lei’ che raramente da altre parti mi è capitato di ricevere. “In effetti…”. Non riesco a fare a meno di balbettare un po’. E, anche se cerco di ignorarlo, le mani tremano dentro alle tasche del giubbotto. “Sssssss… sì. Credo proprio di sì”. Cerco di smetterla in fretta di somigliare a una serpe sibilante e mi avvicino di qualche passo al tavolo di legno che ci separa. “Vorrei… vorrei…”. Accidenti! Come è che si chiama quell’attrezzo? Mi maledico per non essermi ripetuta mentalmente il nome, fino ad impararlo a memoria. Poi, cercando di ignorare il lieve sorriso che gli è comparso in viso e che scopre leggermente una dentatura bianca e perfetta, provo a farmi capire lo stesso. “Avrei bisogno di qualcosa in grado di tagliare un pezzo di ferro piuttosto spesso”.
“Saprebbe dirmi quanto spesso?”. Ribatte con aria professionale e tutto ciò che mi riesce di fare è di gesticolare una misura. Con l’indice e il pollice della mano destra, cerco di trovare quella che mi sembra la dimensione più veritiera. “Ecco! Più o meno… così”. Puntualizzo, quando penso di essere riuscita ad arrivare ad un risultato soddisfacente. Il ragazzo sorride, mi fa cenno con la testa di aver capito e per un attimo sparisce in un’altra stanza, da una porticina laterale che non avevo notato prima. Spero abbia veramente le idee chiare su ciò di cui ho bisogno perché non solo non vorrei fargli fare tardi sull’orario di chiusura anticipato, ma… sento che se non esco di lì nel giro di poco rischio di svenire.
“Queste dovrebbero fare al caso suo”. Mi porge un attrezzo con due manici lunghi, una testa arrotondata e due lame taglienti che… sì! Dovrebbero proprio fare al caso mio. Pago i venticinque euro che mi chiede e, più o meno soddisfatta, esco di lì.
Mezzogiorno è passato da dieci minuti. Nonostante il cielo sia sereno, non riesco a sentirmi felice. C’è da dire che è da diversi giorni ormai che non riesco a sentirmi felice. Per questo mi serve di dare un taglio al passato. Proprio… letteralmente parlando.
Sto ancora camminando verso la meta, quando il Campanone annuncia che il primo quarto di quella nuova ora è già passato. È ancora presto per il pranzo. Eppure, passando di fronte alla finestra bassa di una casa, non posso fare a meno di fermarmi un istante a guardare una coppia di anziani già seduta a tavola. Non si accorgono di me. Danno le spalle al mondo fuori e sono tutti presi da un programma di cucina alla televisione. Chissà se le sperimentano mai le ricette che seguono con tanto interesse, o se è solo un modo come un altro per ammazzare la noia e che magari è proprio vero che quando si è in su con l’età il tempo si dilata talmente tanto da diventare insopportabile.
Certo… arrivarci anch’io alla loro età! Chissà come sarei con i capelli bianchi e la pelle rugosa… chissà se sarei sola o con qualcuno accanto… continuo a camminare mentre me lo domando e cerco di non pensare al fatto che fino a poco tempo prima io qualcuno accanto ce l’avevo. Magari, a detta di molti non era proprio il principe azzurro. Ma… tutto ciò che importava era che per me fosse speciale.
“Ehi… Serena! Si può sapere dove stai andando tanto di corsa?”. Cavoli. Questa proprio… no. Non ci voleva. Adesso che mi invento per andarmene alla svelta?
“Maria… buongiorno!”. Maria è una vecchia compagna di scuola di mia madre. Una donna che ha fatto della chiacchiera il suo sport preferito. L’ultima volta che ci siamo incrociate per le vie della città stavo andando all’ufficio postale a spedire un pacco e mi ha trattenuto per più di venti minuti per chiedermi di mia sorella e del nuovo ragazzo con cui l’aveva vista in un bar. Anche se riesco ad essere sufficientemente ermetica quando si tratta di informazioni che non mi va di dare, non sempre riesco a tenere corti i tempi di conversazione.
“Hmmm… sto andando a casa del nonno. Aveva bisogno di un attrezzo nuovo e mi ha pregato di fare un salto in ferramenta”. Indico con lo sguardo la busta di plastica bianca che tengo incollata ad un fianco e da cui si intravede chiaramente la sagoma di qualcosa che proprio non ha niente a che fare con il mondo di un’adolescente tutta moda, trucchi e tendenze. Ma, Maria non sembra per niente soddisfatta.
“E… come va l’amore? Ti frequenti ancora con quel giovanotto biondo? Mi pare di averlo visto l’altro giorno al supermercato insieme al padre… possibile?”. Posto che in nessun caso sarei stata in grado di sapere ogni singolo spostamento del ‘biondo’ in questione… “No! Io e Claudio non stiamo più insieme da tre settimane, ormai”. Alzo le spalle come ad intendere che sono cose che succedono e che non è il caso di farne un dramma, ma… dentro mi sento morire. Spero anche di non mettermi a piangere da un momento all’altro, ma  non è così scontato che non accada se non mi sbrigo ad andare via di lì. “Ok… ora devo proprio andare. Scusami tanto, davvero. Mi ha fatto comunque piacere vederti. Buona giornata e salutami tutti a casa”. Cerco di rispondere con un concentrato di cortesia e di educazione, ma mi rendo conto che parlare mentre già con i piedi mi sto allontanando da lei non deve essere il massimo in fatto di buone maniere.
Giro l’angolo della via e tiro un sospiro di sollievo. Di tanti giorni… proprio oggi. Continuo a camminare verso la meta e non mi fermo più fino a che raggiungo il cancello all’ingresso del parco.
Adoro parco Ranghiasci. L’ho sempre adorato. Di qualunque stagione si tratti, ogni singolo angolo sa regalare qualcosa di speciale agli occhi di chi guarda. Oltrepasso in fretta il ponte, cammino veloce lungo i primi due viali e, all’inizio del terzo, mi trattengo un po’ prima di arrivare alla fontana. Non potrei dimenticare l’ultima volta davanti a quello zampillo d’acqua nemmeno se volessi. Quattro amici. Due ragazze e due ragazzi. Due giovani coppie. L’idea che sarebbe potuto essere per sempre. La fiducia in un futuro lungo, da vivere tenendosi per mano. Ripenso al sorriso di Claudio mentre mi scosta una ciocca di capelli dal viso, alla mia sensazione di essere arrossita oltre misura, al nostro ‘Bacio della Promessa’. Nessun filo di metallo al dito o ciondolo a mezzo cuore al collo, perché il mondo intero sapesse che ci amavamo e che avevamo deciso di arrivare fino in fondo con il nostro rapporto. Solo una promessa fatta di parole e di… un lucchetto.
Non riesco a vederlo da dove sono, ma so che è lì… vicino a quello di Anna e Giacomo, che ancora sono felicissimi e innamorati. Le nostre iniziali scritte con un pennarello indelebile. Un posto diverso dal famoso Ponte Milvio. Un Per Sempre che non è riuscito a reggere allo stress di una vita giovane, ma con qualche punto basso di troppo. O… forse, con pochi ‘picchi alti’ a compensare il tutto.
Se voglio sono ancora in tempo per andarmene, ma muovo i piedi fino alla panchina. Io e Claudio seduti lì mentre dividevamo un frappè al cioccolato. Un nuovo bacio e un altro ancora. Guardo il lucchetto e sento una fitta di dolore fortissima allo stomaco. Può una promessa essere infranta con tanta leggerezza? Immagino che per la stessa ragione per cui esistono i divorzi, il fatto che due adolescenti non siano riusciti a rimanere insieme sia da ritenersi di normale amministrazione in fatto di questioni di cuore.
Sono indecisa se stringerlo tra le mani un’ultima volta. No. Forse è meglio afferrarlo direttamente con le tronchesi e farla finita con un colpo secco. Avevo chiesto a Claudio di occuparsene, ma lui non ne ha voluto sapere. Mi ha detto che ero proprio scema se davo tanta importanza a certe cose. Strano. Quando abbiamo girato insieme la chiave sembrava avessimo fatto il gesto più importante e impegnativo del mondo. Continuo a guardare il lucchetto. Vorrei riuscire a guardarlo con aria di sfida, del tipo ‘A noi due… insignificante pezzo di metallo’, ma… non mi riesce di farlo. Continuo a guardarlo e ho come la sensazione che mi implori di lasciarlo stare. Che mi chieda di non eliminarlo da quel mondo che, nonostante tutto, sembra averlo accettato come simbolo d’amore. Mah… forse è vero. Forse… non sarebbe giusto toglierlo. Forse… sarebbe inutile.
Provo comunque a dare una prima stretta delle tronchesi sull’archetto sigillato intorno al foro di quel cestino per rifiuti, ma niente da fare. Eppure nella mente una vocina continua ad incoraggiarmi… Su Serena… puoi farcela… un colpo secco e via. Provo ancora e ancora.
No. Non ci riesco. Perché c’è Claudio ancora nel cuore. Perché spero ci ripensi. Perché… magari un giorno, passeggiando da queste parti, gli capiterà di abbassare lo sguardo proprio su questo punto e si accorgerà che non l’ho eliminato. Anche se gli avevo detto che l’avrei fatto ad ogni costo. Anche se gli avevo detto che sarebbe stato il mio modo di ricominciare con una nuova vita. Mi rendo conto che sarebbe inutile che il mondo esterno parli della mia ritrovata libertà, se il mio cuore parla ancora di lui. Sempre e solo di lui.
Appoggio le tronchesi sopra alla panchina pensando che magari potranno tornare utili al custode o a qualcun altro e prendo la macchinetta fotografica in borsa. Scatto una foto. Un’altra e un’altra ancora. Prima di incamminarmi di nuovo e di rendermi conto che sono in ritardo per il pranzo.


Il cellulare nella borsa squilla. È la mamma che mi sta cercando. “Pronto?”. “Serena! Dove sei? Si può sapere che fine hai fatto? Ti stiamo aspettando da più di venti minuti…”. “Niente, mamma… non ti preoccupare. Avevo una cosa importante da fare e mi ha portato via più tempo del previsto, ma adesso sto tornando. Dieci minuti e sono lì”. Chiudo la telefonata, rimetto il cellulare di nuovo in borsa. Anche il fatto che il cuore salti nel petto ogni volta che lo sente suonare non passerà per il momento. O, forse, non passerà mai. Perché credo ancora nella mia promessa e spero ancora di poterla vivere.