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lunedì 23 ottobre 2017

Cosce di pollo al curry... bruciate!

Martedì 3 ottobre: secondo giorno con il micio.
Con la sveglia che suona presto e una buona dose di sonno arretrato che – immagino – non riuscirò più a smaltire, mi rendo conto a stento di ciò che accade intorno, di non avere cacche sparse in giro per i pavimenti di casa, delle crocchette nella ciotola che sono sparite e del fatto che – udite, udite! – il gattino se la dorme della grossa in bagno, sopra al suo adorato pacco di carta igienica.
Rimango ad osservare il suo respiro regolare per un po’, prima di giungere alla felice conclusione che: non ha fatto un frizzo per l’intera notte. Oddio! Sempre che il sonno arretrato non abbia deciso di estinguersi rendendo pesantissimo quello dormito e le mie orecchie non si siano fatte dure, al punto da non avvertire neppure il miagolio più fastidioso. Non è un’ipotesi da escludere.
Con un piccolo dubbio a darmi fastidio, dunque, cerco di stabilire almeno qualche certezza. Ne acciuffo un paio così, su due piedi, aspettando che la macchinetta finisca di preparare il caffè. Primo: il cuscino sistemato accanto alla lettiera non è una zona relax di gradimento al gatto. Occorrerà valutare il suo attaccamento al bagno nei giorni a venire e stabilire il da farsi.
Secondo: a dispetto dei pronostici ricevuti, sempre escludendo l’ipotesi di cui sopra, per la quale le mie orecchie potrebbero non aver fatto il loro dovere, nonostante il gattino sia stato abbandonato solamente due settimane prima e per quanto quell’affido possa essere fresco, pare che abbiamo sfangato alla grande la nostra prima notte di convivenza. Fiù! Sospiro di sollievo.
Un sollievo che cerco di portare con me al lavoro e che mi sento di avere ancora, un attimo prima di girare la chiave nella serratura; al rientro.
Ok. Dannatissimo ottimismo e maledettissimo vizio di tirare conclusioni affrettate.
Mentre immagino di poter rientrare in casa, preparare una bella tazza di tè alla menta piperita, rilassarmi con una doccia calda al profumo di muschio bianco e sistemarmi comoda dentro una tuta fresca di bucato, prima di potermi accoccolare sul divano con un libro in mano, lo scenario che si presenta davanti agli occhi, al dì là della porta, è quello che sbrigativamente si potrebbe definire: l’esatto contrario.
Il tappeto dice WELCOME, ma… il bisognino marrone poco lontano da lui non sembra voler essere un messaggio altrettanto invitante.
Ok. Calma.
Magari, al gatto nemmeno la lettiera va poi così tanto a genio. O, forse, è vero che non è così semplice addomesticare un micio diffidente.
Cacca accanto al tappeto a parte… dove è Silver?
Rimane ancora il problema di non poter far conto sul fatto che risponda al suo nome, ma – poiché da qualche parte bisogna pur cominciare – inizio a girare per casa annullando il silenzio con il suono di quella parola.
Nisba! Come immaginavo.
Cerco al bagno, ma niente da fare.
Con tutte le altre porte di casa chiuse, sento arrivare di nuovo i brividi che precedono il panico, all’idea di dover passare altri trenta minuti anche stasera a dare la caccia a un gattino che non vuole farsi vedere.
Sfuma l’idea della tazza di tè. Qualunque cosa io voglia a ingerire, sento che potrei vomitare per la tensione. Cerco di rimanere ferma sul progetto di una doccia rilassante, ho l’impressione che mi servirà (e anche parecchio), dopo che sarò riuscita a concludere la mia caccia.
Sto sinceramente pensando di fregarmene del gattino e di rassegnarmi all’idea che prima o poi dovrà pur farsi vedere, quando lo sento soffiare mentre ispeziono per l’ennesima il bagno.
Stavolta è nascosto per bene, sotto l’ultimo ripiano del mobiletto, sopra la bilancia che – nonostante sia ad accensione automatica – rimane spenta. Deve essere una piuma… beato lui!
“Eccoti qui! A quanto pare ci siamo divertiti ad imbrattare la casa oggi, eh?!?”.
Ok. Livello sanità mentale drasticamente sceso al limite minimo.
Faccio domande a un gattino che neppure mi conosce e mi aspetto persino di ricevere un qualche tipo di risposta. Forse è una chiacchierata per rimandare l’inevitabile appuntamento con la cacca da asportare. Sì! mettiamola così.
Sto già andando a prendere guanti, spray disinfettante, sacchettino e carta assorbente, quando un miao fortissimo mi coglie di sorpresa.
Per essere tanto piccolo da non venir rilevato neppure dalla bilancia, ha una cassa toracica da fare invidia a quella di un tenore.
Per tutti i gatti spelacchiati del mondo!
Provo ad afferrarlo per prenderlo in braccio, ma si allontana di corsa e mi soffia.
Mi allontano io, miagola di nuovo e con insistenza.
“Se mi dai modo di pulire, di sistemarmi un po’ e ti lasci prendere, magari poi possiamo stare un po’ insieme sul divano. Che ne dici, ti va?”.
Come se un gattino abbandonato possa avere la più pallida idea di cosa sia un divano. Il mio livello di sanità mentale deve stare scendendo in picchiata.
“MIAOOOOO! MIAOOOO! MIAOOOO!”.
Ok. Io ho dei progetti chiari in testa, ma lui non è disposto a collaborare.
Panico!
Dopo i primi quindici minuti di miagolii ininterrotti, dove ho pulito il pavimento alla velocità della luce nel tentativo di riuscire ad afferrarlo per calmarlo un po’ e dove mi sono chiesta almeno un’infinità di volte perché mai avessimo deciso di annullare la tranquillità della nostra routine quotidiana in quel modo, a momenti non mi metto a urlare anche io per sovrastare i suoi lamenti.
I pesci non miagoleranno, vero, ma alle volte può essere anche meglio.
Serve un pezzetto di formaggio per convincere il micio a fidarsi di me e a lasciarsi prendere.
Provo con del groviera. Nisba!
A trenta minuti di ‘MIAOOO’ ininterrotti, mi ricordo dei vicini di casa ed esco un attimo fuori della porta per capire quanto quel piccolo, nuovo arrivato riesca a farsi sentire fuori di lì. Fortuna che, almeno le mura, sembrano reggere bene tutti quei lamenti. Non corro il pericolo di passare per una torturatrice di gatti. Magra consolazione, ma… ottimismo!
Alle sette in punto comincia a vacillare anche il progetto della doccia rilassante. Quel che serve è mettersi prima ai fornelli per preparare la cena: Cosce di pollo al curry.
Preparate una sola volta nella mia vita, spero di avere ancora nel cellulare gli screen della ricetta presa da internet.
L’occorrente c’è tutto. Pochi minuti e la pentola, ben coperta, già borbotta sul fuoco. Nei quarantacinque minuti di tempo che serve per la cottura potrei ancora riuscire a preparare un tè e a fare una doccia veloce, ma il micio non è dell’avviso di lasciarmi in pace.
Non si fa prendere. Scappa via ad ogni tentativo di approccio e miagola, miagola, miagola.
Rettifica della certezza numero due: forse è un po’ vero che approcciarsi a un gattino appena preso non è poi così facile.
“Guarda che, se continui così, ti riporto di  corsa dove ti ho preso”.
Una nuova sequenza di miagolii assordanti, per farmi intendere di non aver capito o che – semplicemente – se ne frega. Per un attimo mi torna in mente una scena particolare di “Io & Marley” e spero solamente di non ritrovarmi anche io a impazzire in giro per casa, gridando a tutta voce: “Sbarazziamoci di quel gatto!”.
No! Posso ancora resistere. L’odore del curry che sta invadendo la cucina è rilassante quasi quanto quello del muschio bianco che avrei dovuto annusare sotto la doccia.
Ma, sì! Il micino ha solo bisogno di abituarsi a questa sua nuova condizione. È solo questione di tempo.
Alle diciannove e trenta non riesco più ad essere lucida.
Faccio la doccia.
No! Non la faccio.
Faccio la doccia.
No! Non la faccio.
Potrei rimandare a più tardi, aspettando di non essere più sola con lui in casa.
Cerco di nuovo di afferrarlo e, stavolta, ci riesco.
Riesco a portarlo con me sul divano, anche se è difficile farlo fidare al punto da stare appoggiato sulle mie gambe.
Gli piace il cuscino rosso con i cuori bianchi e, almeno per un po’, sembra riuscire a tranquillizzarsi.
Riesco ad accarezzarlo con ritmo regolare. Niente fusa, ma… almeno, ha smesso di miagolare.
Sono dieci minuti di quiete bellissimi, prima di…
“Cos’è questa puzza?”.
Oramai parlare da sola, ad alta voce, è già abitudine.
Mi avvicino alla pentola sul fuoco con il timore di sollevare il coperchio. Silver scappa di nuovo e ricomincia a piangere.
“No! Non è possibile. Il timer non è suonato, non può essere”.
Cosce di pollo al curry… bruciate.
La chiave che gira nella serratura. Non ho il tempo di fare niente.
Silver che si affaccia dal bagno e sembra lo faccia per salutarlo. Il diavoletto che sembrava essersi impossessato di lui è sparito.
Non piange più, almeno quello è un sollievo. Continua a non farsi prendere, ma rientra nella norma.
“Come ve la siete cavata voi due?”.
“Alla grande!”, mento.
“Cos’è questa puzza?!?”.
“Hmm… niente! Tra le diverse cose da sistemare e Silver che si è fatto coccolare un po’… ho bruciato la cena”.
Guarda in pentola. Le cosce di pollo al curry hanno un aspetto pietoso.
“Che peccato!”.
“Sarà per la prossima. Che ne dici di una pizza da scongelare?”.
Ho dieci minuti di tempo per fare una doccia.

lunedì 16 ottobre 2017

Che ne pensi di Silver?!?

Quando venti minuti somigliano tantissimo a un’ora. Il mio viaggio in macchina insieme al gattino è stato così. E, mentre tornavo a casa, cercando di non far sballottare troppo il trasportino nel bagagliaio per non farlo vomitare, con i pensieri sono riuscita a creare un chiodo fisso. Il nome. Ci serve un nome. Abbiamo già acquistato lettiera, relativo occorrente, crocchette e cuscino, ma… non abbiamo ancora in mente un nome.
Ne abbiamo parlato, certo, ma senza risultato.
È sicuro che non vorrei adoperare uno dei nomi già utilizzati in passato per i gatti avuti in famiglia. Perciò… niente Tommy – che va sempre fortissimo, in caso di micio – Timmy, la cui assonanza è assolutamente troppo evidente, Mimmo, che – purtroppo – non ha avuto fortuna ed è scomparso a pochi mesi dalla nascita, Ruby, che all’epoca era voluto essere un diminutivo di Rubino e che – successivamente – avevamo dovuto adattare come diminutivo di Rubina, non sapendo ancora che i gatti a tre colori possono essere solamente femmine. Almeno, stando a quanto scritto sul libro di scienze all’epoca della seconda media.
Cosa rimane? Assai poco, in realtà. Escludendo un Ruggine, che non saprei come giustificare, Nerina e Minù suonano malissimo per un lui. Anche se adoro l’idea di un nome che arrivi da un’ispirazione Disneyana. Ora che ci penso meglio, abbiamo avuto anche una Zebry in famiglia. Trattandosi di un gatto tigrato, potrebbe andare. Ma… no! Niente nomi già utilizzati.
Questa storia dei nomi già utilizzati ci ha già messo in crisi nel nostro breve tentativo di scelta pre-affido.
Appena trasferiti abbiamo preso con noi un pesciolino rosso, battezzato immediatamente: Elvis! Due le ragioni: scoprire la passione per Elvis durante le nostre colazioni alle sei di mattina, mentre su Paramount Channel avevano deciso di trasmettere tutti i suoi film e ispirarsi alla storia di Io&Marley, dove un labrador esuberante prende il nome proprio dal famoso Bob.
Avevamo persino preparato un disegno simpatico, da appendere accanto alla porta per avvisare i visitatori di “fare attenzione al pesce!”, ma… dopo appena due mesi il nostro Elvis ha deciso di farsi trovare con la pancia all’insù e il lavoro è rimasto incompiuto in un angolo del ripostiglio.
Sì… Elvis sarebbe proprio fico, come nome!
Ho guidato per gli ultimi cinque minuti fino a casa cercando un modo per aggirare questa cosa di non voler mettere al gatto un nome già utilizzato in passato. Unico motivo trovato: lo fanno in tanti, poi… sarebbe comunque un bel modo per ricordare il nostro primissimo animaletto domestico.
Ok. Sto andando in paranoia per una stupidaggine, mentre dovrei riuscire a convincermi che al gatto non gliene potrebbe fregare di meno del dove e del perché abbiamo pescato un certo nome da affibbiargli.
Chissenefrega, dunque, Elvis può andare.
I pochi passi che separano la macchina dalla porta di casa sono quelli in cui mi sforzo di immaginare come sarà quella sorpresa.
Il fondo del trasportino è sospettosamente caldo, perciò immagino che il piccoletto debba aver fatto la pipì. Sorpresa, sorpresa! Serviranno immediatamente dei fazzolettini per pulirlo. Spero solo che non ne abbia fatta tanta da essere zuppo fin sulla testa e che il tappetino igienico messo sul fondo abbia saputo fare il suo dovere senza farlo impiastricciare. A pensarci bene, ci sarebbe da augurarsi che non abbia fatto anche altri bisogni, ma non sento odori sospetti; perciò immagino che – pipì a parte – possa andare. Vorrei tirarlo fuori di lì prima di girare la chiave nella serratura e farmelo trovare in braccio, ma -  possedendo affatto il gene di Diabolik – i miei passi pesanti mi fanno scoprire e la porta si apre all’improvviso.
Mi investe un: “Mi stavo preoccupando”, ma riesco a evitare la ramanzina sollevando il trasportino a mezz’aria con uno squillante: “Sorpresa!”. Poi, parto a macchinetta perché temo possa essersi offeso del fatto che abbia deciso io tutto quanto da sola e mi affretto a dire che è un micino troppo bello per riuscire a lasciarlo lì una notte di più.
Gli occhi che mi guardano e brillano, sopra un sorriso felice, mi confermano di non aver sbagliato.
“Vuoi provare a prenderlo in braccio?”.
Sì!
È questione di un attimo, forse anche di meno. Il secondo dopo aver aperto la porta del trasportino, siamo già in giro per casa a cercare il gattino che – al contrario di me – sembra per davvero un mago del non farsi sentire.
Oddio! Speriamo non arrivi un attacco di panico. Devo ammetterlo, quando capitano imprevisti del genere, non sono bravissima a gestire la situazione. C’è anche da dire che la mia mente aveva già prodotto un lieto fine per quella serata, che non è esattamente ciò che stavamo vivendo.
Almeno di una cosa potevamo essere certi: il gatto non può essere finito nel ripostiglio. La porta chiusa, speravamo, a patto di non ritrovarci ad avere a che fare anche con uno stregone di altissimo livello, avrebbe dovuto essere la certezza di doversi limitare a cercare il micino in camera (ho passato tutto il tempo ad augurarmi che non la scegliesse come suo primo bagno personale, prima di riuscire a preparargli la lettiera), in bagno e in quel piccolo spazio nel mezzo che voleva somigliare a una cucina, con piccola zona relax.
A ripensare ai miei venti minuti di macchina, in compagnia di una marea inutile di dilemmi per la scelta del nome, mi viene ora da ridere sapendo che un gattino appena arrivato e già chissà dove in giro per la casa, non avrebbe risposto a nessuno dei possibili; che sia Elvis, o Pinco Pallino, importa… niente. Nisba!
Quel che può servire in certi casi, invece, è sforzarsi di ragionare come un gatto. Impaurito, piccolino, in una casa nuova e insieme a persone estranee… dove sarei andata a nascondermi, fossi stata io al suo posto?!?
Il sotto del letto, pieno di scatole per ogni cambio di stagione, rimane il posto migliore dove io, fossi stata in lui, avrei scelto di sparire.
Spostate le scatole, niente micio.
Ok. Escludendo il sotto del divano per lo spazio che, almeno a vederlo, sembra troppo stretto per poterci passare e quello del mobile della cucina, grazie a un battiscopa che arriva a toccare il pavimento, rimane  il comodino della macchina del caffè, il retro del frigorifero e il sotto e il retro del mobile del microonde.
Nisba! Niente micio nemmeno da queste parti e io comincio a sentire per davvero che l’ipotesi di un attacco di panico non è poi così tanto da scartare. Cosa avrei detto alla ragazza dell’Enpa, se per caso le fosse venuto in mente di telefonare, per domandare come stessero andando i nostri primi minuti in tre?!?
Non riesco a pensarci e per poco non sbatto il cellulare contro il muro, nel tentativo di zittirlo, appena sento lo squillo di due messaggi Whattsapp. Sicuro è lei. Panico!
Adotto la tecnica della non visualizzazione, nella speranza di guadagnare tempo e di uscire da quella situazione, sempre più vicina all’incubo, il prima possibile.
Come può essere che un gattino sia in casa e riesca a farsi non vedere e non sentire in quel modo?
Cerco di ricostruire i fatti. Ho aperto la grata del trasportino, poi… niente. Per quanto mi sforzi di ricordare, non sono riuscita a vedere altro che il vuoto immediato davanti a me.
“Tu, almeno, sei riuscito a vedere da che parte è andato? Così, magari, riduciamo il raggio di azione”.
Niente.
Niente, niente, niente.
Quel gatto ce la stava facendo proprio sotto il nostro naso e, forse, se la stava anche spassando un mondo.
L’attacco di panico è alle porte, una crisi di pianto – forse – anche.
Oddio! Ho portato un gattino a casa per fare una sorpresa e l’ho già perso. Ho portato un gattino a casa e non ho la più pallida idea di dove sia finito.
La mia voce interiore è incavolata nera. Nessun biasimo.
Mi ritrovo ad aprire anche le scatole dei cambi stagione, nel dubbio che in qualche modo possa essere riuscito a infilarcisi, bravissimo, senza fare rumore, quando tre parole arrivano a salvarmi.
“Eccolo è qui!”.
“Qui dove?”
“In bagno!”.
Avevo già guardato in bagno e non c’era. Dietro la lavatrice, dietro la cesta della biancheria sporca, dietro il wc, dietro il bidet, dietro il lavandino. Niente.
Come caspita aveva fatto a trovare un posto in bagno, senza che io riuscissi a vederlo?!?
Corro e lo trovo schiacciato tra un pacco di carta igienica e il secondo ripiano del piccolo scaffale dove teniamo saponi, shampoo e affini.
Come mai gli sarà venuto in mente di infilarsi proprio lì? Come ho fatto a non vederlo? Nel cercare di rispondere a queste domande, mi rendo conto che non è nemmeno dei colori giusti per mimetizzarsi.
Poi ripenso a tutte le volte in cui mi è capitato di cercare il cellulare, una penna, il termometro, la calcolatrice, un paio di forbici, la spillatrice, una spazzola, un paio di scarpe, ecc… ecc… ecc… senza vedere che ce li avevo proprio davanti al naso. Il classico, uggiosissimo, si vede solo ciò che si vuol vedere. Ripenso anche a quella volta in cui stavo cercando gli occhiali da vista e, chissà come, non mi ero resa conto di averli già indosso. Gli strani giri della mia mente.
Scoppio a ridere. È una risata liberatoria. “Coraggio! Prendilo e vediamo cosa fa in braccio a te”.
Il gattino si lascia sottrarre dal suo nascondiglio, ma ha l’aria tipica di chi è spaventato a morte.
Ok. Ha solo bisogno di tempo. Abbiamo solo bisogno di tempo. Perché è una novità e, forse, non sarà facile, tanto quanto avevo pensato.
“Per il nome ho pensato che…”.
Sto per dire di aver scelto Elvis, così da poter cominciare immediatamente ad abituare il micino al suo di quella parola tutta per lui, quando vengo anticipata: “Che ne pensi di Silver?!?”.
Silver.
Argento.
Intuisco immediatamente da dove possa essere arrivata l’ispirazione e mi stupisco di non averci pensato prima.
La prima foto inviata dalla ragazza dell’Enpa ci consentiva a malapena di scorgere il piccoletto in mezzo agli altri gatti, ma la descrizione diceva: ‘è un bellissimo gattino argento, abbandonato da due settimane e per questo un po’ diffidente’. Mi aveva persino colpito l’uso di quella parola, per descrivere un comunissimo gatto tigrato di un bel grigio, ma non era scattato niente che potesse essere d’ispirazione per la ricerca di un nome.
Silver. Mi piace. Ha un suono semplice e adatto al caso.
“Benvenuto nella tua nuova casa, Silver!”, dico allungando una mano per fargli una carezza.
L’attimo dopo è di nuovo schizzato via per tornare al suo adorato pacco di carta igienica.
Ho capito. Sarà difficile schiodarlo di lì. Nel tentativo di riuscirci, però, proviamo comunque ad allestire un invitante angolo relax tutto per lui. Prima o poi, dovrà pur uscire di lì. Le coccole, tutti seduti sul divano, sono ancora da rimandare. Mi decido a visualizzare e a rispondere al messaggio della ragazza Enpa. “È tutto a posto, grazie! Il micino ha già fatto il giro di tutta la casa e ora sta riposando un po’. Abbiamo deciso di chiamarlo Silver”. Magari, quando saremo di nuovo di persona, gli racconterò di quei nostri primi trenta minuti fra le quattro mura, stasera no. Comincia a essere tardi, sarà meglio mettersi all’opera per la cena.


lunedì 9 ottobre 2017

I pesci non fanno MIAO!

Nove, meno due, sette. Sono già passati sette giorni. Ore 19.30. Sono sette giorni esatti. Mi sforzo di ricordare com’è che tutto è cominciato. È stato più di sette giorni fa. Seduti sul divano, guardando un film in dvd appena noleggiato e non particolarmente interessante, ci siamo lasciati distrarre dal rumore di sassolini che si muovevano sul fondo del piccolo acquario a palla che abbiamo in casa. Non potendo trattarsi di una lotta per il cibo, ho provato ad immaginare che i nostri due pesciolini stessero improvvisando una sorta di danza subacquea. Mai sentito parlare di qualcosa del genere; però.
Ad ogni modo, è stato il rumore dei sassolini sul fondo dell’acquario a farci sentire la mancanza di qualcosa di più. Per quanto possa essere bello, un pesce rimane pur sempre un pesce e… beh! Dopo cinque minuti che lo osservi nuotare per i fatti suoi, ne hai già abbastanza e il desiderio di un po’ di ‘compagnia non-umana’ rimane intatto lì dov’è, da qualche parte in mezzo ad altri pensieri e – perché no! – in un piccolo angolino di cuore.
«Perché non prendiamo un gatto?».
Non mi strozzo con il tè alla cannella solo perché sono riuscita ad ingoiare un attimo prima di arrivare a quell’interrogativo.
«Un gatto?!?». Stento a capire se l’ho urlato, oppure no.
Con gli occhi sgranati per la sorpresa aggiungo anche: «E dove caspita pensi che potremmo metterlo un gatto? In questa casa entriamo a malapena noi due!».
Ok. I pesci erano stati un mio desiderio, ancor prima di girare la chiave di casa nella serratura per la prima volta. Anche la chiocciola africana (si rimandano ad altri post ulteriori delucidazioni in merito), che – con la sua piccola scatola trasparente – è arrivata a tenerci compagnia appena un mese fa è stata, per così dire, il coronamento di un sogno di bambina. Stando alle regole della buona convivenza, se adesso lui si fa avanti con il desiderio di avere un gatto… a rigor di logica… trattandosi di una democrazia e non di altro… no! Non posso oppormi.
Insomma… so di non potermi opporre, ma provo comunque a dissuadere. E riesco a tener testa al discorso con le mie argomentazioni per un po’, fino a che non lo vedo armeggiare con il cellulare in cerca della pagina Facebook dell’Enpa e – di fronte ad una carrellata di fotografie di cucciolini incantevoli – non mi rimane altro da fare che gettare la spugna ed accettare.
Penso di avere almeno un po’ di tempo per abituarmi all’idea e per organizzare la casa il minimo indispensabile.
Nisba.
Nel sabato libero, in un casuale giro per negozi, a un certo punto mi ritrovo a spingere un carrello con dentro una lettiera, un sacco di crocchette per gatto, un sacco di cristalli di silicio per i bisogni del micio e un cuscino morbido quanto un peluche.
La sera sono con il telefono in mano pronta a contattare una delle volontarie Enpa. Gentilissima, mi accorda la possibilità di incontrarci il lunedì.
2 ottobre 2017. Ore 19.
Sono appena uscita dal lavoro e mi sbrigo a seguire con la macchina le indicazioni ricevute. Quando arrivo a destinazione è come arrivare in una scena de “La Carica dei 101”, a parte il fatto che quelli davanti a me non sono quattro zampe di razza canina e non hanno il manto bianco a macchie nere. Non sono nemmeno 101, a voler essere onesti. Ma l’effetto “Carica” è più o meno lo stesso.
Chissà dove è il micino di cui mi hanno parlato? Dalle foto ricevute non ho potuto vederlo bene, perciò è come essere lì per un incontro al buio. Per quanto mi sforzi di cercare, gli occhi non fanno che imbattersi in gatti ormai adulti. Fino a che vedo qualcosa muoversi tra i rami di una pianta in vaso a foglie larghe. Eccolo. È lui.
Mi dicono che è molto diffidente, poiché è stato abbandonato da poco, ma la cosa non mi spaventa. Non cerco nemmeno di afferrarlo da sola e lascio che ci pensi la ragazza che è con me a farci conoscere.
«Se decidi di prendere lui, possiamo provare ad abituarlo alla vita domestica per un po’, prima di consegnartelo», mi dice con il sorriso di chi – immagino – ha già capito che per gli altri mici non ci sarà partita.
Provo ad allungare le mani e lo afferro per appoggiarmelo addosso. Ha la coda ben nascosta, ma non sta tremando. Anzi, stando alle parole della responsabile Enpa, sembra stranissimo il fatto che si fidi di me al punto da non sentire l’esigenza di graffiarmi e scappare via.
«Ok! Visto che sembrate aver già fatto amicizia, se vuoi lasciamo perdere con i giorni di addestramento alla vita domestica e te lo lasciamo portare via subito».
Non. Posso. Crederci.
«Non ho niente con me», dico un po’ balbettando. Ma questo non sembra fermarla nel raggiungimento di quel lieto fine che la sua mente deve aver già elaborato.
«Ho un trasportino a disposizione, se vuoi te lo presto e me lo riporti con calma. Però, non devi sentirti obbligata a prenderlo stasera».
Obbligata. No! Nessun obbligo addosso.
Certo, non è come me l’ero immaginata io. Avevo pensato di scattare una fotografia e di tornare con calma in due a prenderlo, ma… Ok. Può andare lo stesso, ne sono sicura.
Sollevo il gattino a mezz’aria per guardarlo negli occhi e domando: «Che ne dici, gli facciamo una sorpresa?».
Solleva gli occhi al cielo e potrebbe essere un accenno di esasperazione, ma… potrebbe anche darsi che voglia dire: sì.
Vada per il sì!

«Lo prendo!».


sabato 21 maggio 2016

A chilometri di distanza: "Quando infinito non è"

Eccomi di nuovo da queste parti! :-D Con il cuore a 100&+ per dei progetti in corso (di cui spero di poter parlare presto) e con la voglia di continuare a mettermi alla prova... scrivendo! 
E' on-line l'ottava parte della 'storia Wattpad': 
"A chilometri di distanza"!!! 
Ma, come fosse una serie televisiva di quelle americane, questo Blog ve la presenta con un leggero ritardo e ve la fa leggere 'in differita'. 
Che ne dite... vi va di continuare a conoscere il mondo di Sofia, che avete conosciuto in questo primissimo Post della serie?!? :-D
Era un sì, quello che ho sentito uscire dalle casse malandate del computer? Mi fa piacere!
Ecco a voi la seconda parte... 


Quando infinito non è


«Hai messo il maglione pesante in valigia?».
Gli occhi della mamma si ostinano a seguirmi in ogni spostamento, dall'armadio al letto e viceversa.
Non vorrei farle presente quanto sia estenuante per me, averla attorno in questo momento. Ma è estenuante.
Continua a guardarmi come se il fatto di aver deciso di cambiare città, così, all'improvviso, sia la decisione peggiore che potessi prendere.
Evito di farle presente che in un passato non troppo remoto m'era balzata per la mente l'idea di fare fuori una certa Bionda e scelgo di tenere per me anche l'idea, di gran lunga più recente e di gran lunga più sconvolgente, di trovare un ponte dove potermi spenzolare giù e farla finita. Quelle sì, che sarebbero state decisioni pessime. Pessime e senza possibilità di ripensamenti.
«Mamma! Sto andando in Umbria, mica al Polo Nord!».
Con la mia famiglia viviamo a Roma. Con il mio ex marito eravamo riusciti ad acquistare un piccolo appartamentino a pochi metri di distanza dalla casa dei miei. Con i miei ex suoceri ci bastava camminare per poco meno di un chilometro, per poter essere tutti insieme a pranzo, o a cena. Da una parte, o dall'altra.
Ovvio che, qualunque altro posto sulla faccia della terra, non sia mai stato degno di considerazione per noialtri. Almeno, finora.
Anche la scelta delle vacanze, a dire il vero, è sempre stata piuttosto ardua. Forse perché detesto volare e la sola idea di ritrovarmi immersa nelle nuvole, a metri, e metri, e metri da terra non mi ha mai entusiasmato più di quel tanto. Anche se pare che viaggiare in aereo sia il modo più sicuro. Io di sicuro ci vedo soltanto il fatto che, qualunque cosa succeda, non la racconterai.
Afferro l'ultimo paio di jeans, di quelli che considero i miei preferiti, e chiudo la lampo. Manca la scelta delle scarpe e un beauty-case da preparare, con lo stretto indispensabile.
«Beh! Anche se sono appena tre ore di macchina da qui, non si sa mai che tu possa incontrare la neve».
Come se il fatto di imbattersi in una bella nevicata sia da considerarsi una catastrofe. Blocco al volo la mamma, che cerca di approfittare della mia capatina in bagno per nascondere in valigia uno degli ultimi regali della nonna. Un pullover di quelli realizzati a mano, con i ferri e il gomitolone di lana di tutti i colori. Non so se rendo l'idea.
Indossarlo, anche solo per un minuto, mi fa subito venire in mente l'idea di aver bisogno di mettermi a dieta.
In realtà tra i dispiaceri, il divorzio e tutto il resto, l'asticella della bilancia si è notevolmente abbassata. Ma non lo consiglierei a nessuno, come sistema infallibile per perdere peso.
«Mamma! Non ti ci mettere anche tu! Siamo in primavera, non c'è più bisogno di cose del genere».
Tolgo il maglione dalla valigia e sfrutto lo spazio che la mamma è riuscita a ricavare per infilarci un'altra tuta. Ho il sospetto che sia uno di quei modi di vestire che, lentamente, ti fa dimenticare tutti gli altri.
«Forse qui a Roma no, hai ragione. Ma non credo che in Umbria farà caldo allo stesso modo», mi guarda in quella maniera che solo a una madre può appartenere. Con gli occhi che gridano tutto l'amore del mondo e le labbra che non riescono a fare uscire le parole.
«D'accordo, mi hai convinta. Anche se ho sentito Giada al telefono proprio questa mattina e pare che quest'anno l'inverno abbia saltato il turno da loro».
Giada è la mia migliore amica. Ci siamo conosciute sui banchi della scuola elementare e, a parte qualche brutta litigata ogni tanto, siamo riuscite a rimanere una nella vita dell'altra, come se in realtà fossimo sorelle.
Afferro il maglione della nonna e lo porto in macchina insieme alla valigia.
Mentre riesco a sistemare il bagaglio sul sedile posteriore, alla maglia consento l'onore di potermi rimanere accanto.
«Così, se mai dovessi imbattermi in un brusco calo delle temperature, ce l'avrò a portata di mano».
La mamma riesce a sorridere e riesco a farlo anch'io. Il babbo ha preferito fare un salto al bar, per andare a trovare gli amici con cui non si vedeva da circa dodici ore.
Ho imparato a non prendermela. Anche se avrei preferito poter stringere anche lui in un abbraccio. So che, in fondo, gli somiglio più di quanto io sia disposta ad ammettere e lo capisco quando dice che certe cose non fanno per lui.
C'è anche da dire che non si tratta mica di un addio. Ho promesso di invitarli tutti a passare un po' di tempo in campagna, appena con Giada avrò trovato il modo di sistemarmi. Sto solo scappando via da un ex marito e da un'ex vita coniugale. Loro non c'entrano.
«Telefona, appena arrivi».
Faccio di sì con la testa, mentre con gli occhi sono già appiccicata allo specchietto retrovisore. Già mi ritrovo a domandarmi se per caso io non stia facendo una cavolata.
Detesto i salti nel vuoto. A dispetto di chi si ostina a sostenere che rimanere immobili in certe situazioni sia dannoso. Forse dovrei ripensarci.
Mi stavo trovando talmente tanto bene nella mia vita da persona adulta, in compagnia dei miei progetti personali e familiari, che avevano tutti l'aria di essere perfetti e infallibili, che la caduta a terra è stata un volo dal alto; finito con un tonfo micidiale.
Dopo quindici minuti di guida mi sento già stanca, ma cerco di non farci caso. Con il solo rumore del traffico a tenermi compagnia, decido di accedere la radio e di bloccarmi sulla prima canzone che passa. Ho dimenticato di prendere alcuni dei miei vecchi cd. Così, imparo! A non aver voluto perdere tempo a scrivere una lista.
Dopo l'ennesimo giro di stazioni, ancora non ho trovato niente. Nulla che riesca a sintonizzarmi sul giusto umore; almeno.
Spengo di nuovo e provo a distrarmi canticchiando.
Sono una frana con il canto. Sempre stata. Ma pare che cantare ad alta voce, specie quando si ha la certezza che non ci sia qualcuno ad ascoltare, sia da considerarsi un'attività liberatoria delle più efficaci.
Se riesco a esibirmi per tre ore di fila, forse posso arrivare a casa di Giada senza sembrare una che è appena stata schiacciata da un treno e, magari, riuscirò a non farle tornare in mente il proposito di farmi parlare con una sua amica psicologa.
Sarebbe anche fantastico riuscire a cantare in maniera tanto convincente, da dimenticare chi sono almeno per un po'.
Invece mi ritrovo a tamburellare con le dita sul volante ed ecco che la mia realtà di donna appena divorziata torna a uccidere tutti gli altri pensieri.
Mi accorgo della fede che non c'è più e non perché io stia guardando il mio anulare sinistro.
Pur rimanendo concentrata sulla strada, sento l'assenza di quell'anello.
È rimasto addosso a me fino a che sono stata costretta ad apporre una maledettissima firma. Quei consensuali che, a detta di altri, dovrebbero aiutare a soffrire di meno.
A tratti mi pento di non avergliela fatta pagare. Ormai è tardi, però.
Per le quattro estati che sono riuscita a rimanere sposata, ho quasi odiato quel anello.
Quando le mani si gonfiavano fino all'inverosimile per il troppo caldo era come avere addosso un piccolo marchingegno di tortura.
L'inverno accadeva l'opposto.
Con le dita troppo rinsecchite per il freddo, faticavo a trattenerlo al proprio posto. Per ben tre volte ho addirittura rischiato di vederlo sparire dentro il buco del lavandino.
Adesso mi manca. È un po' come essere nudi, anche se lo so che può apparire eccessivo.
Pochi mesi ancora e scomparirà anche il segno più chiaro, quella piccola striscia di pelle che non è mai stata esposta al sole; da dopo il matrimonio.
Anche la fede è rimasta a Roma. Avrei potuto restituirla al mio ex sposo, a suggellare ancora di più il nostro addio. Ma non ce l'ho fatta a essere tanto al di sopra della situazione. Temo che un giorno il mio ex marito possa lasciarsi sedurre dall'idea di riciclarla. Sarebbe disgustoso, ma sarebbe da lui.
Ha sempre considerato eccessivo il fatto di spendere più del necessario, per aggiungere due piccoli diamanti dentro alle O dei nostri nomi.
Stefano e Sofia. Pensare che, a giocarci un po', le nostre iniziali sono in grado di dare origine all'infinito.
Forse avrei potuto rivenderla. Avrebbe di sicuro giovato alle mie finanze non proprio floride. Pare che il mondo non abbia bisogno di giornalisti freelance, in questo momento. Specie di una come me. Che, a un passo dal terminare la procedura d'iscrizione all'albo dei pubblicisti, ha fatto marcia indietro.
Purtroppo mi è mancato il coraggio. Ma ho intenzione di mettere la faccenda - anzi le faccende - in cima alla lista delle cose urgenti da fare; appena riesco a trovarne un pizzico.
Alla prossima!!! :-D

sabato 2 aprile 2016

Pianeta Wattpad: A chilometri di distanza

È da un po’ che ci stavo girando intorno. Sapevo che non sarei  riuscita ad aspettare troppo, prima di provarci anch’io. La storia vive esattamente nella dimensione in cui è presente on-line. Stracciando l’idea di bozze, di appunti vari e di capitoli scritti in anticipo. Fregandosene del fatto che non sia l’unico ‘progetto di parole’ del momento. Quando l’altro giorno l’ho sentita arrivare, in mezzo ad altri pensieri, ho deciso di rischiare insieme a lei. Con lei. Non ci si prepara prima. Non ci si arrovella troppo sul: “Chissà che cosa ne penseranno?”. Si improvvisa. Si va in scena, nel momento stesso in cui si prende forma dentro alla Fantasia. Ci si diverte o, quantomeno, si prova a farlo. Chissà…

Vi lascio il link... 


Cosa ne pensate?
Alla prossima!!!

mercoledì 23 marzo 2016

Libri: 'Non vuol dire dimenticare' di Riccardo Schiroli

Il mio viaggio è iniziato il sette di agosto, una giornata plumbea come si pensa che una giornata di agosto non sarà mai.
Comincia così Non vuol dire dimenticare, romanzo d’esordio di Riccardo Schiroli. 190 pagine che accompagnano il lettore non solamente nel viaggio fisico vero e proprio, ma anche alla scoperta dell’universo femminile; con il quale il protagonista tenta di approcciarsi. Il punto di vista è quello maschile. La narrazione è in prima persona. Proprio per questo, lo stile richiama molto quello di un diario di viaggio. Con una scrittura moderna, vivace e scorrevole, Non vuol dire dimenticare si legge d’un fiato. Il protagonista ha un modo di fare ironico e divertente. Non manca anche un pizzico di autocommiserazione, ciò che alle volte impedisce al vissuto di divenire insegnamento. Inserito nella collana Romanzo nel cassetto per le edizioni Soldiershop, il libro è disponibile in versione e-book su Amazon, o in formato EPub su Ebook.it
“Non vuol dire dimenticare ha avuto una gestazione piuttosto complessa”. Scrive Riccardo Schiroli sul suo sito: http://www.riccardoschiroli.com/ “La prima stesura è stata completata con una macchina da scrivere. Da lì è partita un’opera di revisione apparentemente infinita e che ha portato a una seconda versione. In verità, il libro non è mai stato veramente riscritto e sono soddisfatto del risultato finale solo a tratti. Ma è ora che il romanzo cammini con le sue gambe e che io mi dedichi ad altri progetti”.


SUL ROMANZO:
Siamo nel 1989 e, con un volo Linate-Zagabria, inizia un viaggio negli Stati Uniti. Per il protagonista, che è l’io narrante di un romanzo scritto in prima persona, si tratta di un momento epocale. Va in un paese che ha conosciuto prevalentemente attraverso i  libri e  il cinema e lo fa per inseguire un sogno d’amore nel quale non è certo di credere. Va solo: il suo mondo si è dissolto e cerca di costruirsene uno nuovo. E’ in compagnia delle sue canzoni, che lo aiutano a convivere con gli stati d’animo. Ma a poco a poco, finirà con il dover mettere i piedi per terra.
Il sogno d’amore non si rivelerà qualcosa in cui credere, ma nella California del sud e a New York City, inizierà la dolorosa transizione verso una fase nuova della vita.
Perché penso che sia da pubblicare? Sono convinto di essere riuscito a ottenere un linguaggio che rappresenta moltissimo le persone come me: che vengono da una educazione cattolica un po’ invasiva, che sono cresciute abbastanza privilegiate, che non hanno mai fatto troppa fatica a scuola. Anche perché il protagonista si è lasciato alle spalle i privilegi e si trova a farsi largo da solo e un po’ disorientato.
Credo anche che il romanzo rappresenti bene l’impatto che gli Stati Uniti potevano avere su un europeo del 1989. Descrivendo un mondo nel quale ancora non c’è internet e il protagonista può stupirsi delle centinaia di canali via cavo che vede grazie al televisore del Motel, penso sia anche interessante notare come non sia poi vero che i ventenni degli anni ’80 erano così diversi da quelli del terzo millennio.


BIOGRAFIA DELL’AUTORE:

Riccardo Schiroli è nato a Parma nel 1963. Giornalista professionista e poliglotta (parla correttamente Inglese e Tedesco, comunica in Francese e Spagnolo), è entrato nel mondo della comunicazione come conseguenza dei suoi studi di Economia. Una volta Amministratore Unico della Comunicazioni Parmensi s.r.l., sulla fine degli anni ’80 si è dimesso dall’incarico e ha deciso di seguire la sua vocazione,  cercando di percorrere la strada del giornalismo. Prima di ottenere l’accesso all’esame di Stato per l’esercizio della professione, ha fatto in tempo a diventare responsabile dell’informazione di Radio Onda Emilia (novembre 1990) e poi (agosto 1996) responsabile del Telegiornale di Teleducato a Parma. Una volta professionista (2000) ha assunto la direzione di Teleducato Piacenza.