venerdì 30 maggio 2014

C come Cuore, Coraggio e Caffè!

Alle volte capita di imbattersi in un bando di concorso e... di voler partecipare. Non sempre si ottengono risultati (e successive, conseguenti... piccole, grandi soddisfazioni), ma... poco importa! :-D E' bello sentire di volersi mettere alla prova ed è speciale il momento in cui si è arrivati all'ultimo punto e si è pronti per rileggere quanto scritto. Quest'anno... spero di riuscire a partecipare di nuovo. 
Il Concorso è indetto dal Caffè Letterario Moak e ha come particolarità quella di richiedere l'invio di testi che abbiano come tema: il caffè! 


Ci piace, ci piace, ci piace!!! E' una sfida a cui mi preparo di nuovo con emozione (e caos di pensieri e parole).
Perciò... pure in attesa di finire l'ormai interminabile (prima o poi mi impegno, promesso!) racconto a puntate... lascio lo spazio di questo nuovo Post al racconto con cui ho partecipato al concorso lo scorso anno... non l'ho ancora riletto, ma... spero di trovarlo ancora nelle mie corde! E... spero che piaccia anche a voi, ovvio!!! Un abbraccio, a presto! 
Saluti

«Ok. È il giorno giusto. Stamattina mi faccio coraggio e glielo dico».
Sto di nuovo parlando da solo, anche se cerco di non farci caso. Non è normale. Non è un buon segno. Ultimamente è qualcosa che mi capita di fare spesso, ma non riesco proprio a farci niente.
L’amore rincoglionisce. Gli amici mi avevano avvisato e io non c’ho voluto credere.
Ventinove anni e nessuna esperienza seria con il cuore. Quando ho sentito la freccia di Cupido trafiggermi in pieno petto, non solo ho stentato a credere che potesse essermi capitato, ma ne sono stato contento.
I primi giorni di innamoramento sono stati meravigliosi. Con i piedi non toccavo mai terra e la testa era costantemente altrove. Per usare un luogo comune, direi che ero tra le nuvole. Anche se credo che essere innamorati sia ancora più bello che starsene avvolti da una coltre bianca che, anche se morbida, deve essere fredda e umidiccia. Pure la questione delle farfalle nello stomaco… che vuol dire, sentire le farfalle nello stomaco? Vorrei conoscerlo l’individuo in grado di testimoniare di aver effettivamente provato la sensazione di un gruppo di esserini svolazzanti nello stomaco. Io, le uniche farfalle che mi sono ritrovato ad avere dentro sono quelle che la mamma mi prepara per cena ogni mercoledì sera, abbondantemente coperte di sugo con le salsicce e di parmigiano grattugiato. È il mio piatto preferito, quello che da bambino mi faceva spalancare la bocca ancora prima che la forchetta carica fosse vicino.
Abbandono la tentazione di uno sbadiglio e come ogni mattina, da non so quanto tempo, ormai, mi fisso per qualche secondo sul calendario appeso alla parete. È maggio, ma per uno strano scherzo meteorologico sembra di essere ancora a dicembre.
Lunedì 27 maggio. Sì, è il giorno giusto. Oggi mi faccio coraggio e glielo dico.
Continuo a cullare il pensiero, mentre come un razzo filo in bagno per le necessità di ogni mattina e mi sbrigo a vestirmi per scendere in cucina per la colazione. Se non accelero il ritmo, va a finire che arriverò in ritardo e mi toccherà beccarmi un richiamo. Non che io abbia mai avuto problemi con la sveglia di mattina presto o con il gestire i tempi in generale. Ma, da quando sono innamorato è tutto diverso. Ogni minuto sembra avere infinite possibilità di sviluppo. Invece, non è altro che una sequenza veloce di sessanta secondi; che passano più in fretta di quanto ci si metta a contarli a mente.
Controllo di avere il cellulare in tasca, afferro le chiavi della macchina, prendo la giacca (perché è maggio, ma fa freddo come fosse dicembre) ed esco.
L’indicatore della benzina è basso. Sarebbe meglio fermarsi al distributore, ma non ho il tempo nemmeno per quello. Speriamo che la lucina rossa continui a rimanere intermittente e che la mia vecchia Ford non decida di abbandonarmi proprio oggi.
Lunedì 27 maggio. È il giorno giusto. Oggi mi faccio coraggio e glielo dico.
Continuo a ripetermelo come un mantra. Anche se ho la sensazione che, più che regalarmi coraggio e spirito di iniziativa, ogni volta che ci butto il pensiero mi sento un pizzico meno convinto di prima.
C’è da dire che non è la prima volta che ci provo. Era veramente dicembre quando, per la primissima volta da che mi sono accorto di essere innamorato, ho deciso di prendere il toro per le corna e di dichiararmi.
Ero convinto che sarei riuscito a sfruttare l’occasione degli auguri di Natale per avvicinarmi a lei, per guardarla in quegli occhi scuri e pieni di vitalità che mi fanno impazzire, per sentirmi morire alla prima volta in cui l’avrei vista mordersi il labbro inferiore, come fa sempre quando è colta alla sprovvista da qualcosa o da qualcuno, e per invitarla ad uscire insieme un pomeriggio dei successivi; per una passeggiata tranquilla lungo le vie illuminate a festa.
Sono rimasto convinto fino all’ultimo giorno di lavoro, pensando che il fatto di non poterla rivedere per due settimane mi avrebbe spronato a darmi una mossa e mi avrebbe permesso di lasciare in un angolo quella parte di me codarda che preferirebbe morire, piuttosto che rendersi ridicola. Ma, quando sono arrivato in azienda quella mattina, la sua macchina non c’era. Sono entrato in fabbrica a testa bassa e fino all’ultimo ho sperato che potesse essere arrivata insieme a qualche collega, ma niente da fare. Quando ho oltrepassato il suo reparto per raggiungere il mio, il vuoto del suo posto mi è sembrato enorme, paragonato all’intera stanza. Stupido, Stefano.
Da quel giorno di dicembre sono dovuti passare altri cinque mesi, per trovare di nuovo il coraggio di provare a parlarle. Bugia. Mi ci sono voluti altri cinque mesi e le parole scioccanti del mio amico Matteo: «Non vorrai mica aspettare di vederla al settimo cielo, perché qualcun altro le ha chiesto di uscire?». Aggiungo queste parole al mio mantra ufficiale.
Lunedì 27 maggio. È il giorno giusto. Oggi mi faccio coraggio e glielo dico. Non voglio aspettare di vederla al settimo cielo, perché qualcun altro le ha chiesto di uscire.
Raggiungo il parcheggio. La sua macchina c’è. La fortuna, oggi, sembra essere un po’ più dalla mia parte.
Anche se ha cominciato a piovere, ignoro l’ombrello appoggiato sopra il sedile del passeggero e indosso il solito berretto con visiera. Giallo, con un inconfondibile 46 in bella vista.
«Buongiorno, Maurizio! Anche stamattina qui, è? Ma quand’è che ti decidi a vincerlo sto milione e a lasciare il posto a qualche giovanotto di bella presenza, in cerca di lavoro?».
Seduto all’ingresso dell’azienda davanti il computer, Maurizio sorride divertito.
Ogni giorno è la stessa storia. È da due anni che ci conosciamo ed è da due anni che lo sfotto per la sua mania per i “Gratta e Vinci” e per il suo essere convinto del fatto che prima o poi riuscirà a trovare il biglietto da un milione di Euro e a dare una svolta alla sua vita.
«Buongiorno anche a te, Stefano! No, dico… occhio, con lo zucchero nel caffè! Non vorrei che ti rendesse troppo dolce e amabile. Poi… che sarebbe ‘sta storia del giovanotto di bella presenza?!? Perché… ti sembro vecchio e brutto io? Per tua informazione, mio caro, ho festeggiato da poco i cinquanta, ho ancora tutti i capelli in testa – cosa che non si può dire della maggior parte dei cinquantenni in circolazione – sono magro come un’acciuga e quando passo giù ‘l Corso con la sigaretta accesa in bocca gli occhi delle donne fanno a gara a chi mi ha visto per primo. Te capì?».
Maurizio accompagna quelle ultime due parole con il tipico gesto della mano vicino all’orecchio ed io non posso fare a meno di scoppiare a ridere. Gli passo il cartellino perché registri la mia entrata, aspetto che mi dica se c’è qualche comunicazione per me e faccio per allontanarmi in direzione degli spogliatoi.
Sono ad un passo dalla porta, quando lo sento rivolgermi di nuovo la parola e chiedermi: «Ma, te invece… com’è che sembri un fantasma con le occhiaie?».
Rispondo prima con un’alzata di spalle, poi: «Mah! Avrò dormito male per via degli spaghetti al peperoncino di ieri sera. Alla mamma ho detto di non esagerare con il piccante, ma quando decide che una cosa fa bene alla salute non c’è verso di farle capire che per tutto c’è una misura. Da quando il dottore le ha detto di sostituire il pepe con il peperoncino, a casa servirebbe di installare un idrante dei pompieri».
Faccio per muovermi, nel tentativo di sparire dentro agli spogliatoi, ma la voce di Maurizio mi blocca ancora: «Sarà. A me sembri più uno che sta patendo le pene dell’inferno per amore, altro che peperoncino!».
Ecco. Un’altra cosa su cui gli amici mi avevano messo in guardia, era di stare attenti a non far capire a chiunque di essere innamorato e di evitare ad ogni costo di diventare l’oggetto di scherzi e di prese in giro. Ma, Maurizio è una volpe per certe cose. Mi ha sgamato al secondo giorno. Beccato a guardarla mentre faceva colazione insieme alle altre, come fossi stato un ragazzino delle medie alle prime armi. Non è servito che dicessi niente. Si è accostato a me con il suo solito modo di fare discreto, ha strizzato l’occhio e ha detto: «Bella, è?». Non sono riuscito ad evitare di annuire a bocca aperta, prima di riuscire a distogliere lo sguardo ed evitare per un pelo che anche lei lo sapesse.
Il rumore delle levigatrici è tutto ciò che incontro lungo il corridoio. Sono in ritardo di qualche minuto sull’orario. Anche se cerco di raggiungere in fretta la mia postazione, mi becco un’occhiataccia dal caporeparto. A differenza di altri colleghi, a me non capita mai di essere in ritardo. Sarà per questo che comunque non mi dice niente.
Mi sbrigo ad indossare i guanti, la mascherina e i tappi per le orecchie, prima di prendere posto e di concentrarmi sul primo pezzo da rifinire.
Non posso dire di amare alla follia il mio lavoro, ma in tempi di crisi come quelli che corrono sono fortunato ad averne uno. Poi… una fabbrica di manufatti in vetroresina è sempre meglio del ristorante di mio zio Gino, dove sarei stato costretto a sopportare una paga misera, degli orari incasinati e le urla di mia zia Franca che dalla cucina è in grado di raggiungere l’ingresso del locale, con la sola forza della voce. No. Un lavoro separato dai legami di parentela e che mi garantisce la giusta quantità di indipendenza è quello che fa per me. Poi, non escludo un futuro altrove. Ma, al momento l’unico posto in cui vorrei essere è quello dove attualmente sto. Quello dove c’è anche lei. Quello dove oggi, sì, mi deciderò a parlarle e a dirle che mi piace.
«Ma, si può sapere che hai combinato? Sulla faccia sembri un puzzle riuscito male».
Andrea. Anche lui conosciuto grazie al lavoro. Anche lui, mai che si facesse gli affari suoi.
«Niente. Ma… poi, si può sapere perché stamattina avete deciso di prendervela con la mia faccia? Per Maurizio sono un fantasma, per te un puzzle riuscito male… ho paura di andare in bagno e di guardarmi allo specchio. Poi, proprio oggi che ho bisogno di sentirmi in forma e su con il morale…». Lascio cadere quelle ultime parole nel discorso, senza sentire il bisogno effettivo di una controbattuta. Ma, Andrea proprio non resiste: «Perché… che santo è oggi?». Gli occhi carichi di aspettativa e le mani sulla mola che per un po’ smettono di andare. «Niente. Dicevo così, tanto per dire. Continua a lavorare». Ok. Forse ho esagerato e Andrea non manca di farmelo notare: «Primo: tu non hai ancora cominciato con i tuoi pezzi e sei pure arrivato in ritardo. Secondo: non mi pare che ti abbiano nominato caporeparto o controllore della produzione, quindi… fatti gli affari tuoi». Non posso dire di conoscerlo benissimo, ma…  per quel poco che so di lui, so che se non mi sbrigo a correre ai ripari finisce che rimaniamo litigati per il resto della giornata. E sai che rottura, quando non puoi nemmeno scambiarti una battuta.
«Scusami, non volevo aggredirti. È che sono nervoso, perché ho deciso che oggi è il giorno buono per parlare con Lucia». Il suono del suo nome ha sul cuore la forza di un cazzotto. Sento le gambe tremare, come fossi in bilico sul bordo di un terrazzo, e ci manca poco che mi si annebbi anche la vista per l’emozione. Quando penso a lei non la penso mai con il nome. Per me lei è Lei. Lei è il centro di ogni pensiero. Lei è l’apice di ogni emozione. Lei è la ragione di ogni scelta.
Sono in un negozio in cerca di una camicia, per il battesimo del figlio di un amico? Anche se so che Lucia non avrebbe comunque modo di vedermi con la camicia indosso, ad ogni confronto con lo specchio del camerino mi chiedo: piacerebbe a Lucia? Al ristorante? Non c’è piatto sul menù sul quale non mi interroghi. Vorrei sapere se preferirebbe un primo piatto a una pizza e se, in fatto di pizze, abbia delle preferenze imprescindibili o meno. Mia cugina Valeria, per esempio, è da anni che ogni volta che si ritrova in pizzeria con gli amici ordina la solita pizza bianca con poca mozzarella e radicchio rosso. Io sono più il tipo da wurstel e salsiccia, ma alle volte non mi dispiace anche una capricciosa. In fatto di dolci… quali sarebbero i suoi gusti?
«Hai capito! Il nostro Stefano è coraggioso. L’avevo detto io, che prima o poi ci saresti arrivato. Vorrai mica aspettare…».
«Sì, sì! Non voglio aspettare di vederla al settimo cielo, perché qualcun altro le ha chiesto di uscire. Me l’avrai ripetuto almeno un centinaio di volte. La lezione è servita, se questo può giovare alla tua autostima. Ti ringrazio tantissimo per avermi spronato a fidarmi del cuore. Perché non ho niente da perdere, anzi. Se mi va bene, ci guadagno l’affetto di una ragazza speciale». Chiudo il discorso con una pacca sulla spalla di Andrea. Lui mi sorride. «Hai tutto il mio appoggio. Ma... come penseresti di fare, si può sapere?».
«Conto di offrirle un caffè a colazione. Che ne dici? Un approccio sufficientemente informale, ma utile allo scopo». Non aggiungo altro. Andrea mi sorride di nuovo, mi strizza l’occhio, poi ci mettiamo entrambi al lavoro.
Di solito, il lunedì mattina è un dramma. Nonostante sia il primo giorno della settimana e nonostante il riposo precedente del sabato e della domenica, mi sento sempre uno straccio. Fatico a far passare il tempo e, anzi, ogni volta che alzo gli occhi in direzione dell’orologio appeso alla parete mi sembra come se le lancette, invece di progredire, regrediscano.
Non è la stessa cosa per questo lunedì.
27 maggio. Sì, è il giorno giusto. Oggi mi faccio coraggio e glielo dico.
Oggi che vorrei davvero che il tempo scorresse al rallentatore, il suono della campanella che annuncia la pausa per la colazione mi coglie talmente tanto alla sprovvista da farmi sobbalzare. La levigatrice mi sfugge di mano e finisce per terra. «Merda! Sono già le dieci. Come possono essere già le dieci?». Il reparto si svuota in un batter d’occhi. Io provo a muovere i piedi verso la stanza delle macchinette nella maniera più naturale possibile. Ma, sembro ingessato e tutto mi sento fuorché spontaneo. «Adesso… che cosa le dico? Non ho pensato un discorso. Potrei non trovare le parole per…».
«Stefano, tutto ok?». È Angelica, una delle colleghe di reparto di Lucia. Rispondo di sì con un semplice cenno della testa, ma non devo risultare molto convincente. « È che mi è sembrato tu stessi parlando da solo». Sorrido, come a voler sottolineare l’assurdità della cosa. Ma, negare l’evidenza è uno sport in cui non sono mai stato troppo portato.
«Come mai stamattina gli altri ti hanno battuto sul tempo? Vuoi provare il brivido di essere l’ultimo, almeno per una volta?». «Già». Non posso certo confessarle che essere ultimo, oggi, ha i suoi vantaggi. Non posso confessare che sono mesi che studio gli orari della pausa di Lucia e che mi sono accorto della sua tendenza a lasciare che la situazione alle macchinette sfolli un po’, prima di farsi avanti per il suo quotidiano caffè macchiato al cioccolato. Primo: perché rischierei di fare la figura del folle, o – quantomeno – dell’aspirante tale. Secondo: perché non è ancora detto che io riesca a parlarle. Ora come ora, con l’incombenza del momento, sento che potrei non farcela a mantenere il coraggio con cui mi sono svegliato ed affrontarla.
Provo a muovere di nuovo i piedi, ma ho come la sensazione che tra la suola delle scarpe e la superficie del pavimento si sia insediata una valanga di colla a presa rapida.
Fatico, come se avessi delle cavigliere da cinque chili per gamba. Mi sento rallentato e privo di forze, come dopo una corsa di dieci chilometri. Mannaggia a me! Facevo meglio a bloccare i pensieri sul nascere, invece di convincermi che tutto è possibile e che basta volerlo.
«Allora! Te la dai una mossa, o conti di aspettare qui la pensione?». Andrea è tornato indietro a cercarmi. «Io il caffè l’ho già preso, tu che fai… decidi per il solito, oppure?». Sarei per l’oppure.
«Penso che proverò quello con il cioccolato. Ma, tu non badare a me. Io aspetto di poter parlare con Lucia». La reazione è automatica: nome, uguale brividi. Brividi, uguale indecisione pressante. Io tremo come una foglia per la paura e lui se la ride sotto i baffi.
Ci parlo, o non ci parlo? È il peggior dubbio amletico che mi sia mai capitato di avere.
Ci parlo. Sì… oggi è il giorno giusto. Ci parlo.
Decido giusto un attimo prima di affacciarmi sulla porta della stanza delle macchinette, anticipando Lucia per un soffio. Così… prima passo da maleducato perché non le cedo il passo, poi sembro il classico tipo che vuole riabilitarsi da una gaffe offrendo un caffè.
«Prendi quello macchiato al cioccolato, giusto?». Non le chiedo se posso offrirglielo, glielo offro e basta. Lei, forse un po’ intimorita, annuisce e basta. Alla domanda sulla quantità di zucchero la sento rispondere: «Tre pallini va bene, grazie». Scommetto che chi ha inventato le unità di misura non ha minimamente preso in considerazione l’idea che un giorno lo zucchero si sarebbe misurato anche a pallini. Con il tasto + poco sotto il display ubbidisco, prima di digitare anche il codice del caffè. Quando sei davanti alla ragazza più bella della terra e il respiro ti manca per il semplice fatto di averla a pochi centimetri da te, anche il tempo che un distributore automatico impiega per preparare un caffè macchiato al cioccolato sembra talmente lungo, da fare invidia all’eternità. È vero che non mi ero preparato un discorso, ma non pensavo che sarebbe stato così complicato trovare un argomento di conversazione per riempire dieci minuti di pausa.
Mi fisso con lo sguardo sul livello di preparazione della bevanda, consapevole che sarò un uomo finito non appena sullo schermo comparirà la scritta: “Bevanda pronta” e dovrò prendere il bicchiere e passarglielo.
Fortuna mia, ci pensa lei a togliermi dall’imbarazzo. La voce è giusto un filo, ma lontani dai rumori della fabbrica non serve chissà quale sforzo per farsi sentire. «Tu, come lo prendi?».
Corto. Basterebbe una parola.
Sono sempre stato un tipo da caffè corto e non ho mai sentito l’esigenza di cambiare le mie abitudini. Almeno, finora. «Di solito amo i caffè che si lasciano bere in un sorso, ma oggi il macchiato al cioccolato mi incuriosisce. Penso che potrei provarlo». Lei sorride e il mio cuore arriva dritto in gola.
Mamma mia, quanto è bella. Poterla vedere sorridere, senza sbirciarla con il timore di essere scoperto, è una soddisfazione che va oltre ogni dire. I suoi denti non sono perfetti, ma il modo in cui le labbra si sistemano intorno a loro li rendono tali. In più, quando sorride ha la tendenza ad arricciare leggermente il naso. Mi fa impazzire.
Al suono della macchinetta, prendo il bicchiere e glielo passo. Aspettare il mio sembra un po’ meno penoso. «Che te ne pare qui?». Volendo proprio dirla tutta, l’ultimo dei due ad essere arrivato sono io. Ma, credo che la domanda possa andar bene comunque. È talmente giovane, che di sicuro non lavora in questo posto da una vita. Per quanto ne so, potrebbe anche avere in progetto qualcosa di diverso.
«Non male, anche se il caffè non è come quello del bar». Muove il bicchiere fra le mani e la gocciolina che si era formata sul bordo, nel punto esatto dove aveva appoggiato la bocca, scivola lungo la superficie ondulata della parete, fino a mischiarsi di nuovo con il caffè rimasto sul fondo.
Il distributore suona di nuovo. È pronto anche il mio. Lo prendo, sollevo il bicchiere fino alle labbra e provo un primo piccolo sorso. Scotta da morire. Sono pochissime le cose in grado di scottare in maniera mortale, come il caffè dei distributori automatici. Fingo comunque che non sia niente e provo ad assumere l’aria di chi sta assaporando senza problemi qualcosa di nuovo. È buono o non è buono? È il secondo dubbio amletico nel giro di dieci minuti. Stavolta, però, rimango perplesso.
«Mah! Se proprio devo essere sincero, sento un certo conflitto di competenze». Lucia sorride ancora. Allora, io continuo a cavalcare quell’onda di humor che è arrivata all’improvviso ad aiutarmi e che sembra stia funzionando. «Non è n’è caffè, n’è cioccolato… non so se mi spiego. Mi aspettavo più il gusto tipico di  pezzo di fondente, dopo un buon ristretto». Poche parole, ma tutte azzeccate mi sembra. Lucia continua a guardarmi con quello sguardo curioso e divertito e io per un po’ smetto di sentire la forza del cuore che continua a premere nella gola. Adesso sì, che potrei veramente cominciare a parlare per ore. Ma, il suono della campanella ci impone la fine della pausa e il ritorno al lavoro. Mentre buttiamo via i bicchieri, la sento dire: «Ti ringrazio».
«Non c’è di che, ma… posso chiederti una cosa?».
La mia voce è flebile, come quando sono a letto con la febbre alta (che per me vuol dire dai trentasette gradi e mezzo in su) e la mamma viene a chiedermi se ho intenzione di scendere in cucina per il pranzo. Il più delle volte, la vedo uscire dalla stanza con la consapevolezza che non ha sentito la risposta alla domanda. Ma, non posso permettermi di cadere di nuovo nel panico tipico dell’innamoramento e di lasciare passare altro tempo prezioso. Non aspetterò di vederla sorridere, perché qualcun altro le ha chiesto di uscire.
Respiro a fondo e: «Posso offrirti un caffè?». Domanda idiota. Me ne rendo conto nel momento in cui la vedo fissarsi con lo sguardo sul davanti del distributore. Ha la faccia a punto interrogativo.
«Pensavo l’avessi appena fatto». Dice indicando con un dito i nostri bicchieri vuoti, sopra il resto della roba nel cestino dei rifiuti.
«No! Cioè… sì!». Balbetto. Fantastico. Il cuore in gola è tornato a farsi sentire in maniera insopportabile e temo che il mio motore vitale possa decidere di alzare bandiera bianca e di abbandonarmi da un momento all’altro.
«Quello che intendo dire è che…». Se non mi sbrigo a sputare il rospo, va a finire che Maurizio viene a richiamarci per la mancata presenza nei reparti. Ci manca solo un richiamo da parte dell’azienda, come ciliegina sulla torta a quella che penso stia rapidamente diventando la figura di merda più brutta della mia vita. Non sono un tipo che si massacra da solo, ma sono un’idiota e non c’è obiezione che tenga.
«Ciò che intendevo chiederti è se posso offrirti un caffè al di fuori di qui. Magari, troviamo un bar che faccia un ottimo caffè al cioccolato. Che te ne pare come idea?».
Rivedere il sorriso di prima e quel naso arricciato, mi regala una nuova boccata di ossigeno.
Forse, non muoio più per oggi.
«Eccoti! Marcella non ti ha vista tornare al lavoro e temeva stessi poco bene. È tutto a posto?».
È Francesca, un’altra collega di Lucia. Si rivolge a lei, come se io non  ci fossi. Fatico, ma faccio finta di non essere infastidito da questa cosa. Come per il fatto di essere stati interrotti poco prima che Lucia riuscisse a rispondermi.
Anche se rischio seriamente di vederle andare via senza sapere se le farebbe piacere uscire con me, sto buono e in silenzio.
E rimango buono e in silenzio per un po’. Fino a che… dico qualcosa, o non dico qualcosa?
Giuro che la prossima volta che sento la mia testa ragionare alla Shakespeare prendo il cellulare, trovo il numero di un bravo psicologo e lo chiamo. Non ne posso più di sentirmi l’Amleto della situazione. Ora! Va bene non essere il massimo in fatto di decisione. Va bene aver faticato non poco per sfangarla in questa delicata questione di cuore. Ma, quando è troppo è troppo!
Trascorro in silenzio altri secondi preziosi. Poi, finalmente Lucia sembra ricordarsi di me.
«Tutto ok, Franci… tranquilla. Dì a Marcella che arrivo subito». La collega fa dietrofront senza aggiungere una parola. Lucia raggiunge la porta della stanza, si appoggia con una mano alla maniglia e solo allora si volta a guardarmi. «Per te andrebbe bene questa sera alle sette e mezza?». Non chiedo di meglio. Il sorriso che mi si stampa in faccia è il più grande che mi sia capitato di fare in tutta la vita. Non è assolutamente vero che non si riescono a mostrare tutti i denti in un sorriso. Non ricordo a chi l’ho sentito dire, ma è una bugia. I miei quarantotto soldatini bianchi (come la mamma si divertiva a chiamarli quando ero piccolo, per convincermi a mangiare e variando sul tema dell’aeroplanino che atterra all’aeroporto), stavano risplendendo sotto i raggi delle luci al neon del lampadario, orgogliosi come non mai di essere tutti compatti e di essere tutti ben visibili. «A dopo, allora». Ci salutiamo in fretta, prima di tornare ognuno al proprio lavoro.
Ho sempre pensato che vivere in una città di piccole dimensioni sia uno svantaggio.
Passi per i giorni in cui lavori e ti tocca stare rinchiuso per otto ore, se non di più, tra le quattro pareti grigie di una fabbrica che, per quanto moderna, è pur sempre una fabbrica. Ma, quando è il tempo libero a farla da padrone, allora sì che è un dramma.
Le piccole città hanno poco, veramente poco da offrire in termini di svago e Gubbio non fa eccezione. Adorabile, strutturalmente parlando. Una vera chicca, per gli artisti o per gli appassionati di fotografia. Ma, viverci per trecentosessantacinque giorni all’anno non è sempre tutta questa pacchia. Tolti i periodi speciali e quelli di festa che riserva all’intera cittadinanza e ai turisti che la scelgono come meta, per il resto sono sempre le solite.
Non che le solite cose di sempre mi dispiacciano poi tanto. Ma, sono sempre le solite.
Il cinema puntualmente in ritardo sulle proiezioni e battuto alla grande dai multisala delle vicinanze, i pub sempre agli estremi in fatto di presenze; o troppo pieni da non riuscire a starci o talmente vuoti da angosciare e le vie solitamente deserte e deprimenti nel loro silenzio; più di quanto possa essere deprimente il restare barricato in casa a guardare il niente che di solito propone la televisione il sabato sera. Me lo sono sempre chiesto… chissà perché i migliori programmi e i migliori film li sparano tutti durante la settimana, quando la maggior parte della gente ha la sveglia che suona presto il giorno dopo e non si può permettere di tirare fino a tardi davanti allo schermo. Poi, si lamentano degli ascolti bassi. Dovrebbero saperlo come funzionano certe cose, loro che sono esperti del settore.
«Mi scusi, sa per caso dirmi l’ora?».
Ho camminato per talmente tanto tempo, con la testa immersa nei pensieri, che a malapena riesco a capire dove mi trovo e – soprattutto – che ore sono. Non vorrei arrivare in ritardo, proprio oggi che finalmente esco con Lucia.
Guardo alla svelta il display del cellulare e rispondo al signore dai baffi lunghi e bianchi che, tirando qualche boccata di fumo dalla pipa che tiene stretta in mano, non ha mai smesso di fissarmi. Starà pensando che sono uno strano soggetto, ma io penso altrettanto di lui.
«Sono le sette e venti».
Riprendo a camminare senza aggiungere altro. Un «Grazie» mi arriva alle orecchie di sfuggita, ma non ho il tempo di voltarmi per rispondere che “non c’è di che”.
Sono le sette e venti. Mancano dieci minuti allo scoccare dell’ora x. Devo sbrigarmi.
Mentre supero l’ufficio postale chiuso e accelero il passo lungo via Gioia, sento un’ansia terribile assalirmi. Perché? Perché l’ansia arriva a rovinare sempre l’attesa dei momenti belli?
Non potrei semplicemente essere un ragazzo felice e sereno? Un ragazzo che sta camminando per la città, per raggiungere la ragazza che ha invitato a bere un caffè insieme, per il loro primo appuntamento?
No! Io sono un ragazzo felice, perché sta per avere un primo appuntamento con una ragazza stupenda, e… ansioso per lo stesso motivo.
«Ciao! È molto che aspetti?». Mi precipito davanti a Lucia che, sollevando gli occhi verso l’orologio della Piazza, aspetta di vedermi riprendere un po’ il fiato: «No! Non sei in ritardo, non preoccuparti. Sono io che ho l’abitudine di arrivare in anticipo. Così, non rischio di fare tardi». In due sorridiamo di quel bizzarro gioco di parole. Poi, guardandoci intorno decidiamo di attraversare piazza Quaranta Martiri e di raggiungere il quartiere di San Martino.
Ecco. Anche se Gubbio è una realtà modesta e con possibilità di svago non sempre alle altezza delle mie aspettative, adesso è l’unico posto in cui vorrei essere insieme a Lucia. Perché, quando vuole, Gubbio sa essere magica. E sa riempirsi di magia in quel modo speciale che ti fa venir voglia di prendere carta e penna e di scrivere una poesia, o di stringere tra le mani una chitarra e di intonare una canzone. Mi immagino seduto sulla scalea del palazzo dei Consoli e mi sento cantare a Gubbio, come una celebre canzone fa a Roma, per chiederle di aiutarmi. Gubbio… non fa la stupida, stasera…
«Cosa hai pensato stamattina, quando ti ho chiesto di uscire?». Dal modo in cui Lucia mi sta guardando, intuisco che la mia non deve essere stata una grande mossa per rompere il ghiaccio.
Un sorriso. Gli occhi puntati nei miei. Poi, niente. Non so per quanti secondi rimango ad aspettare che il silenzio tra noi muoia.
«Niente».
Come sarebbe a dire?
Non che mi aspettassi chissà cosa. Ma, almeno di sapere se ne è stata felice.
Raggiungiamo l’ingresso del bar, la lascio passare e la seguo fino ad un tavolino in mezzo alla sala. Avrei preferito una posizione un po’ più periferica, ma non importa.
Adesso anche sopra i tavolini dei bar ci sono i menù. Cioccolata per tutti i gusti, tè e tisane per tutti i gusti e caffè versato in tazza in cinquanta modi diversi.
Io continuo ad essere convinto che la miglior scelta stia nel caffè corto. Eppure, quando il barista si avvicina per prendere il nostro ordine, Lucia sorride mentre chiedo: «Due caffè macchiati al cioccolato, grazie!».
«Tazza grande o piccola?».
«Grande». Immagino che avere più caffè da bere significhi avere maggiore tempo per rimanere seduti al tavolo. Solo io e lei, senza la gente che ci cammina intorno e senza il rischio che qualcuno che conosciamo si avvicini per attaccare bottone e rovinarci la serata.
«E tu? Perché mi hai chiesto di uscire?». La curiosità di Lucia è forte, glielo leggo negli occhi.
Sono tentato di rimanere sul vago, soprattutto per il desiderio di ripagarla con la stessa moneta. Ma, dopo un po’ mi sento stupido a fissarla senza dire niente. Allora, confesso: «Perché quando ti vedo mi tremano le gambe e anche se non sono sicuro di ciò che potrebbe nascere tra me e te, ho pensato di non aspettare di vederti con qualcun altro, per poi scoprire magari che sono innamorato e che mi rode tantissimo vederti felice con lui». Più sincero di così.
Mentre arrivano i nostri due caffè al cioccolato vedo Lucia mordicchiarsi il labbro inferiore e innervosirsi un po’. Oddio! Ci sarà mica qualcun altro? Vado in paranoia nel tempo reale di un microsecondo. E la morsa dell’ansia sullo stomaco non si allenta nemmeno quando la sento controbattere: «Non sono un tipo così richiesto». Sorride, ma non capisco di che cosa. Significa che ha accettato di uscire con me per disperazione?
Non posso chiederlo. Perché le cose che si vorrebbero sapere per non impazzire, sono sempre difficilissime da formulare in una domanda?
Provo comunque ad aggirare l’ostacolo: «Sono più che sicuro che una ragazza bella come te fa impazzire i ragazzi, ogni volta che entra in un locale». È un complimento, ma non solo.
Il cuore nelle tempie comincia a pulsarmi forte, quando la sento affermare: «Non sono proprio il tipo da locali e da vita notturna. Bere un caffè, seduta al tavolino di un bar e in buona compagnia, è quanto di meglio io possa sperare per una bella serata». Fantastico!
«E… che fai nel tempo libero, quando decidi di non uscire?».
«Dipingo».
Me la immagino davanti ad una tela, con un pennello tra i capelli e le mani imbrattate di colori.
Ama dipingere i paesaggi. Soprattutto perché, dice, non sono capricciosi come le persone. Sono ispiranti e sanno rimanere a disposizione dell’artista per tutto il tempo necessario.
Io non ho mai riflettuto sulla possibilità di fare qualcosa di artistico nella mia vita. Ma, se ci penso, mi sarebbe piaciuto recitare. Ho la sensazione che un attore sia maggiormente in grado di fronteggiare le situazioni imbarazzanti o scomode di ogni giorno. Non che ciò significhi dover fingere. Semplicemente, avere la faccia giusta per ogni momento.
«Mi piacerebbe poter vedere qualche tuo lavoro». Sorrido per l’ennesima volta, nella speranza che raccolga l’input per un possibile, futuro, secondo appuntamento. Ma, vivere in un mondo ipertecnologico significa avere sempre a portata di mano un cellulare carico di fotografie. E  ritrovarmi immerso nei suoi mondi di colori e nei prati verdi dei suoi lavori è più immediato di quanto volessi. «Sono stupendi, complimenti!».
Uno in particolare cattura tutta la mia attenzione. È una distesa di margherite.
Lucia lo capisce e si blocca su quell’immagine. «Questo l’ho realizzato l’anno scorso, dalle parti della fabbrica». Anche questa sarebbe una buona occasione per chiedermi di fare qualcosa insieme, ma il tempo continua a passare parlando dei suoi quadri, di musica, di libri e di film, senza che Lucia lasci intendere in qualche modo di volere uscire di nuovo con me.
Una volta fuori dal bar sono deluso, anche se cerco di tenere la delusione per me. Con le auto parcheggiate in due posti diversi occorre salutarsi lì e darsi la buona notte. Ci baciamo sulle guance, ci stringiamo la mano e ci allontaniamo ognuno nella propria direzione.
Sono già piuttosto lontano dall’ingresso del bar, quando sento la sua voce forte: «Stefano! Stavo pensando… posso offrirti un caffè?».
«Credevo l’avessimo appena preso. Vuoi fare il bis?». Sento un lampo accendersi negli occhi e in un attimo le sono di nuovo vicino. Sorride. È bellissima. È il motivo per cui non vorrei tornare a casa e quello per cui non vorrei chiudere gli occhi e abbandonarmi al sonno.
Pur di non perderla di vista nemmeno per un secondo, sarei disposto a fare orario continuato per la veglia e a rimandare l’appuntamento con il sonno ad un altro momento.
«Lo so, che lo abbiamo appena preso. È che mi chiedevo se ti andrebbe di uscire con me una delle prossime sere, per un altro caffè. Magari… stavolta ci mettiamo alla ricerca di un bar che faccia un ottimo espresso. Che te ne pare, come idea?».
Non è un tour tra le sue opere, non è una merenda all’aperto sdraiati in un prato di margherite, ma va benissimo lo stesso.

Sento il cuore fare le capriole dalla felicità. «Mi sembra un ottimo programma!».

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