domenica 2 ottobre 2011

Mai dire...

“Mamma, io esco. Vado a fare un giro”.

Sull’ultimo scalino, con una mano già appoggiata alla maniglia del portone, aspetto di sentire arrivare la risposta dalla camera da letto.

Non ho voglia di uscire. Ma, non ho nemmeno voglia di rimanere in casa.

Di tutte le domeniche passate, questa è la prima dell’anno in cui mi ritrovo in piedi prima della sveglia. Chissà perché, poi.

Di solito, io adoro la domenica.

So che la domenica posso dormire.

So che posso alzarmi quando il sole è già altro in cielo e fare colazione con caffelatte, biscotti, yogurt, pane tostato e marmellata. Invece della solita tazzina di caffè bevuta al volo.

So che posso andarmene in giro con i capelli in disordine ed indossando una semplice tuta, senza che qualcuno mi stia a ripetere ogni dieci minuti che è l’immagine quello che conta.

So che posso abbuffarmi, a pranzo, senza pensare alla linea. Un “pallino” che, una volta preso, non ti molla più.

Quello che non sapevo ancora, della domenica, è che può essere peggio di un qualsiasi giorno lavorativo.

Può farti dormire poco.

Può farti trovare con lo stomaco chiuso.

Può farti sentire in totale conflitto con lo specchio e con il guardaroba.

Può farti…

Può farti desiderare che finisca il prima possibile.

Ecco.

Per me, questa è una domenica della seconda specie. La prima dell’anno.

Allora…

Allora, mi vesto praticamente ad occhi chiusi. Afferro la borsa, gli occhiali da sole e le chiavi della macchina. Ed esco.

Vado a fare un giro.

Non ho la più pallida idea né del dove, né del perché, ma…

L’importante è che almeno gli altri non si accorgano del mio umore nero di domenica mattina.

In famiglia, il mio “ottimismo festivo” è praticamente un dato di fatto.

Così, zittito lo stereo perché anche la musica mi da fastidio, mi lascio la casa alle spalle ed imbocco la strada principale.

Dove vanno le persone, quando sono di umore nero?

In un primo momento, penso che starmene all’ombra di una pianta del parco cittadino potrebbe fare al caso mio.

Poi, però, immaginandomi circondata da bambini urlanti, da cani irrequieti, da genitori e padroni sull’orlo di una crisi di nervi per riuscire a tenere sotto controllo ogni genere di situazione; decido di abbandonare subito l’idea.

No. Il parco, di domenica, non fa per me. Ho l’umore nero.

Allora, rimettendo in moto il cervello, mentre la macchina continua ad andare, vaglio rapidamente altre possibilità.

Andare al solito bar, in cerca degli amici: No. Perché, non sono in vena di chiacchiere.

Andare al lavaggio auto per far fruttare almeno un po’ la mattinata e spuntare un’incombenza dalla “lista delle cose da fare”: No. Perché dovrei, come minimo, affrontare più di mezz’ora di fila.

Andare in libreria, aperta a domeniche alterne, e vedere cosa ha da offrire nel settore novità: No. Perché, ci manca poco che mi tocca chiedere la licenza edilizia; per la catasta di letture arretrate che c’è sul comodino.

Andare… Andare…

Ecco! Trovato.

Potrei andare al centro commerciale, aperto tutti i giorni dell’anno all’infuori di poche festività, infilarmi nel negozio di belle arti ed acquistare dei nuovi colori ed una nuova tela.

Sì!

Con il ticchettio della freccia a destra come unico sottofondo ai miei pensieri, parcheggio e mi avvio verso l’ingresso della bottega.

È un posto che sa farmi sentire bene. Un rifugio sicuro per ogni artista, credo.

Non dipingo per lavoro, ma… Sul fatto che io mi senta ugualmente un’artista a trecentosessanta gradi, non ci piove. Anche se…

Volendo essere proprio del tutto sincera, non ho la più pallida idea di cosa potrei iniziare a dipingere; in una domenica come questa.

Fa niente.

Continuo a camminare verso gli scaffali che mi interessano, ignorando tutto il resto. Dubbi inclusi.

In qualche modo devo riuscire a trascorrere la giornata, senza cadere nella tentazione di sbattere la testa contro il muro; letteralmente. Anche a costo di rimanere a fissare una tela bianca; fino a che sarà di nuovo ora di andare a dormire.

Così, cerco subito di instaurare una certa intimità con i tubetti di colore e con i pennelli dalle setole perfette.

Quando è stata l’ultima volta che ne ho acquistati di nuovi?

E chi se lo ricorda!

Continuo a farmi solleticare la punta dell’indice destro da un ciuffo di peli di bue, quando: “Francesca”.

Quella voce.

Quella voce, la ricordo. Eccome.

Sentir pronunciare il mio nome in modo tanto caldo, mi fa scorrere un brivido lungo la schiena.

Pur con la paura di farlo, allora, mi volto. Lentamente.

Dio!

Se i miei occhi avessero saputo parlare, in quel momento avrebbero di sicuro balbettato confuse idiozie.

Come era possibile – d’un tratto – sentirsi come se il tempo non fosse passato? Nonostante i sette anni trascorsi, ognuno per conto suo.

“Matteo”.

Riesco ad articolare a malapena.

Lui è più bravo di me. Nonostante il rossore in viso, tipico di una personalità timida.

Ignorando le mie mani che iniziano a tremare senza controllo, afferma: “Ti trovo bene. È da un sacco di tempo che…”.

Quel “che”, lasciato solo in quel modo, accende in me una serie di flashback.

Matteo.

Il primo batticuore.

I primi occhi da cui ho dovuto distogliere lo sguardo, per paura che potessero leggermi dentro.

Le prime mani strette alle mie.

Il primo bacio.

Il primo Amore.

Decine e decine di ricordi solo nostri tornano a farmi compagnia.

Non riesco a rispondere. Non riesco a domandare.

Tutto, di me, sembra essersi improvvisamente congelato.

Tutto, tranne le orecchie.

Quelle, per fortuna, continuano a funzionare e lo sentono chiedere: “Ti andrebbe un caffè, al bar qui vicino?”.

Eccolo lì. Matteo. Il timido che, quando vuole, sa essere intraprendente.

Aspettando che io apra bocca, continua a guardarmi con quel suo modo speciale. Sembra che anche per lui il tempo passato non abbia peso.

Sì, sì, sì. Certo, che mi andrebbe.

Mi andrebbe, ma… continuo a non proferir parola. Speriamo che un cenno del capo basti.

Sorride.

Andata.

Muovendo i piedi nello stesso istante, in un attimo siamo di nuovo fuori.

La luce del sole, che fino ad un attimo prima – potendo – avrei voluto soffocare dietro ad una spessa coltre di nubi, mi scalda in viso; regalandomi un po’ di coraggio.

“Allora, come mai da questa parti di domenica mattina?”.

“Mah! Nulla di che, solo la voglia di fare un giro. E tu?”.

“Lo stesso”, mento.

Quindi: “A casa, tutto bene?”.

Lo so.

Mia nonna, probabilmente, sarebbe riuscita a fare di meglio.

Difatti, stavolta è lui a limitarsi ad un cenno del capo.

Vorrei poter trovare un modo facile ed immediato per sembrare meno impacciata, ma…

Di fronte alla porta scorrevole del bar che si apre automaticamente, Matteo mi lascia passare.

L’intenso aroma di caffè che riempie il locale, mi arriva subito al naso.

Una volta davanti alla barista, pur senza premeditazione alcuna, ordiniamo io per lui e lui per me. Il vecchio giochino delle nostre tante colazioni insieme.

Uno sguardo.

Un sorriso.

E chi l’avrebbe mai detto…

Pensare, che mi ero alzata con il piede sbagliato.

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